Racconto di Maria Claudia Cappellotto
(Prima pubblicazione)
Dieci del mattino. Domenica. Sedevano uno di fronte all’altra. Caffè, pane, uova, bacon, biscotti. Lui leggeva il New York Times dal tablet. Lei mise una zolletta di zucchero in bocca, poi sorseggiò il caffè. Con gli occhi chiusi fece giocare la lingua con il cubo gustando lo sciogliersi vischioso nel liquido caldo. E mentre lo faceva emetteva dei versi dalla gola. Lui alzò lo sguardo dallo schermo. Quante volte lo aveva eccitato quel suono come d’orgasmo. Ora, invece, lo irritava. Si mosse nervoso sulla sedia. Lei continuò quel suo rituale.
“Vuoi smetterla, Anna?” chiese, infine, stizzito.
Lei aprì gli occhi, si leccò le labbra, bevve l’ultimo sorso di caffè e sorrise.
“Se hai voglia di litigare, dimmelo”.
Quel suo tono sempre ironico, le sue mani eleganti, la sua magrezza, i suoi capelli lunghi e neri, i suoi occhi chiari, ripugnava in lei tutto quel che prima lo aveva attratto. Borbottò un “lasciamo stare” e continuò con la lettura. Lei poggiò il gomito sul tavolo e il mento sulla mano. La luce entrava nel loro appartamento attraverso la tenda azzurra conferendo all’ambiente un che di acquoso. Il gatto camminava intorno alle gambe di Anna facendo le fusa, lei sentiva le vibrazioni sul polpaccio, il pelo caldo. Osservava il marito. I capelli brizzolati parevano sfoltiti, le occhiaie erano più marcate del solito, nuove rughe intorno agli occhi. Vecchiaia. Lavoro. Una coppia di successo. Eppure, non era il pianto di un neonato a cercare la sua attenzione in quel momento, soltanto lo stupido gatto che lui le aveva regalato per il compleanno cinque anni prima. Il nostro bambino aveva detto. Un sostituto. E intanto, l’ora del non-avrai-mai-un-figlio era quasi giunta. Quasi sentiva avvizzire i seni e ghiacciarsi l’utero in uno stop. Fine. E guardalo lì, legge il New York Times, poi passerà a El Tiempo e poi a Repubblica. Aveva amato la sua cultura, il suo voler essere sempre informato. Ora lo trovava tedioso. Tanto, a che serve? Prese un biscotto francese, grande, di quelli col burro che si disfa in bocca. Lo tenne tra l’indice e il pollice ponderando sulle duecento calorie. Lui alzò di nuovo lo sguardo. La vide lì intenta a fissare quel singolo biscotto, le dita magre, le unghie con lo smalto nero. Lo stesso nero di quel periodo in cui Anna aveva tentato il suicidio. Tre aborti. La chiusura in casa. L’apatia. Finché una sera, vestita di una sottoveste bianca, l’aveva trovata in piedi sul parapetto del decimo piano, i capelli sciolti nel vento, la luce rossa del tramonto. Una scena da film, una ripresa perfetta nello sbiadirsi opaco della sua figura controluce, aveva pensato lui prima di correre e tirarla a sé.
“Stai bene?”
Lo sguardo di Anna guizzò sul marito per poi poggiarsi di nuovo sul biscotto.
“Sì”. Lui allungò un braccio verso di lei e le strinse la mano, quella che sosteneva il biscotto. Lei rispose al suo tocco. Il biscotto si sbriciolò tra le loro dita: farina sabbiosa e grasso sciolto nel calore corporeo. Voglio un figlio, avrebbe voluto dirgli. Quel desiderio d’essere madre si compattava e disfaceva per poi riunirsi in pezzi di pensieri truci, ruminati e ammuffiti.
Incrociò le dita con le sue facendo cadere altri pezzi sul tavolo. E fu proprio quel suo ignorare le briciole, la sensazione appiccicosa tra le mani, lei che era quasi ossessiva nella nettezza, che fece capire a lui la profondità del malessere della moglie. Ricaduta. Succede sotto Natale o d’estate, non si sa perché, gli aveva detto uno psichiatra. Il solo ripensare all’odore dell’ospedale, il cigolio delle ciabatte sul pavimento, i camici bianchi, lei stesa sul letto intontita e con gli occhi opachi, gli provocava una sensazione di nausea. Il bacon mangiato poco prima col piacevole aroma affumicato si ripresentò alla sua bocca col solo sapore di bile. In un moto di ripulsa staccò la mano dalla sua e la pulì col tovagliolo. Lei rimase con la mano sospesa. Il gatto saltò sul suo grembo e annusò la tavola leccandosi i baffi.
Anna percepì la repulsione del marito. Nonostante ciò, ammise ad alta voce il proprio malessere. Perché almeno il suo star male scuoteva quell’uomo divenuto freddo negli anni.
“Allora non aspettare. Domani chiama e fissa un appuntamento”, le rispose in tono secco.
Poi, si alzò di scatto, prese il tablet e si allontanò, in fuga. Anna osservò il suo passo, unico in lui, che conteneva una specie di cadenza nel flusso motorio. Che cosa avrebbe detto alla psicoterapeuta l’indomani? Che ormai nemmeno le quattordici ore di lavoro al giorno bastavano a sfiancarla? A letto cadeva in una sorta di sonno cosciente, udiva il respiro di lui accanto, il fruscio delle lenzuola quando spostava un braccio, il suo avvicinarsi e abbracciarla per poi mugugnare “Anna, Anna, Anna”. Lui l’amava nel sonno e la disprezzava nella coscienza.
Si alzò, sfregò le mani una sull’altra e s’incamminò verso lo studio. Lo trovò lì, affondato nella poltrona, le gambe allungate e incrociate una sull’altra, un libro in mano, la luce tenue di un abat-jour. Le tapparelle erano abbassate e una penombra pigra si diffondeva sui libri e artefatti orientali e africani. Africa. Lì, l’ultima volta che avevano fatto l’amore, un anno prima. Ora lui aveva l’amante. Anna lo aveva capito da quel suo stile giovanile nel vestirsi e quel linguaggio ridicolo in un cinquantenne: Luca è stato proprio cringe. È un sottone.
Con un sospiro, si avvicinò, sedette ai suoi piedi e poggiò la testa sulla sua gamba. Il marito, sorpreso, osservò il suo capo. I capelli bianchi fra quelli neri avevano la lucentezza di ragnatele bagnate dalla pioggia. Averla lì, ai suoi piedi, rilassata, lo compiacque. Poggiò la mano sulla sua testa accarezzandola e iniziò a leggere ad alta voce in spagnolo. L’accento argentino, portava le parole avanti, con voce profonda, allungando le parole, gustandole e facendole assaporare ad Anna che, gli occhi chiusi, udiva la descrizione di Alejandra in Sobre Héroes y Tumbas. Lei ripensò a quindici anni prima: lei l’amante, lui l’uomo sposato; quasi rimpiangeva gli incontri nascosti nella roulotte del regista, l’agognare il sesso in pausa pranzo, i weekend rubati alla moglie con cui aveva avuto due figli maschi. Per lui due figli sono sufficienti.
Silenzio.
La fine del capitolo concluse il loro breve momento d’intimità.
“So che hai un’altra”.
Il marito sospirò. Il peso che provava quand’era insieme alla moglie, quel fardello doloroso della vecchiaia incombente nella carne, si fece vivido.
“Che vuoi fare?”, le chiese.
Anna alzò il capo e lo fissò, imperturbabile.
“Divorziare?”, aggiunse lui con un tono di speranza mal celato.
“Tu lo vorresti?”
Lui portò una mano alla bocca e annuì. Anna si alzò con aria triste.
“Chiederò a Marco di avviare le pratiche di separazione”.
Lui riportò lo sguardo sul libro con un senso di sollievo inatteso. Era giusto così, non c’era più niente da costruire. Avrebbe dormito sul divano. Una separazione veloce, libertà. Luisa ne sarà felice.
Il giorno seguente fecero colazione insieme. Lei indossava un paio di pantaloni bianchi e una giacca blu. La voce decisa, l’ascoltò mentre parlava al telefono sulla prossima udienza in tribunale. Nel vederla così perfetta e bella, una strana inquietudine lo colse. Pure, si alzò e se ne andò con un laconico “a stasera”.
Anna non rispose. Seduta a tavola si guardò intorno. Il gatto dormiva sul divano vicino al cuscino di velluto viola che stonava col resto dell’appartamento. Gatto bianco, divano blu, tappeto a fiorami azzurri. Lui l’ha capito.
“Che torni indietro?”, chiese a voce alta.
Cavò da una tasca una boccetta di vetro e prese a rimirarla spostando lo sguardo sul cellulare. Se mi chiama entro dieci minuti, non lo faccio. Estese i dieci minuti a quindici, poi a venti e poi a trenta. Infine, giunse un messaggio.
Oggi non verrò a cena, non aspettarmi.
Anna scoppiò in una risata mordace e rispose: non ti aspetterò, sta’ sereno.
Versò poi il contenuto della boccetta in un bicchiere d’acqua.
Rimase lì a fissarlo, a lungo. Farlo o non farlo? Questo era il suo pensiero. Sentiva un prurito alla mano, un impulso a prendere il bicchiere e bere per spegnere tutto.
Infine, prese il cellulare e scrisse: sto per farlo.
Ferma, attese con le braccia incrociate, rigide, e le mani strette, obbligandole a non muoversi.
Il cellulare squillò. Anna rispose subito.
“Che succede?”
La voce della psicoterapeuta fu come un punto di ancoraggio per Anna che pianse e parlò e ascoltò e parlò.
Mezz’ora dopo, si alzò, prese il bicchiere e buttò il contenuto nel lavello.
“Oggi, no. Ancora, no”, disse più a sé stessa che alla psicoterapeuta all’altro capo del telefono. “Ti raggiungo in studio”, aggiunse poi.
Decisa, indossò il cappotto, prese la valigetta da lavoro, la borsa e uscì.
Non ci si deve suicidare,per un uomo simile mai e poi mai.Molto bello come racconto,ma lascia tanta tristezza e amaro in bocca.
Bravissima! Il tuo racconto è vivido e tagliente come una spada di Toledo. Una sola cosa risulta stonata, quel bruttissimo inglesaccio “cringe”. Non si poteva evitare o sostituire con una parola o espressione della nostra bella lingua? In bocca al lupo per il tuo futuro di scrittrice di romanzi o di racconti (potevo scrivere “short story”).