Racconto di Delia Giordano

(Seconda pubblicazione)

 

 

 

Una mattina di fine maggio fui chiamata per una assegnazione a breve termine in una scuola dell’infanzia su un utente che aveva urgente bisogno di un Assistente all’Autonomia. L’incarico doveva durare fino al 30 giugno, data di chiusura delle scuole. Accettai senza esitare. Presi visione del caso e mi presentai a scuola. Ci rimasi per cinque anni.

Appena arrivata in classe mi ritrovai di fronte ad una massa di capelli neri arruffati che incorniciavano un viso con due grandi occhi scuri. Tiziano aveva cinque anni e un disagio che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita.

Quando i suoi occhi incontrarono i miei, decisi che avrei cercato di fare un piccolo pezzo di strada con lui, affinché si sentisse meno solo in quella vita che aveva già deciso per lui, facendolo nascere da una madre che non sapeva e non voleva fare la madre e, da un padre che avrebbe fatto meglio a non farlo il padre. Ma la vita attecchisce là dove meno te lo aspetti, e Tiziano era nato su una roccia dura, scivolosa ed esposta alle intemperie della vita, e aveva dovuto imparare fin da subito a difendersi e lottare per sopravvivere.

Fin dalla nascita ha conosciuto la disgrazia di crescere nella famiglia sbagliata. Sua madre non lo voleva, ma lui è voluto venire al mondo per forza e si è aggrappato alla vita con le unghie e con i denti. Tiziano voleva bene a sua madre, anche quando lei scaricava su di lui le sue frustrazioni e fallimenti: “Si tu fuss’ muortpimm e nascere, io mo’ facess a signora” gli ripeteva di continuo. “Tu a me m’è arrurovinat a vita”. Tiziano era per lei una zavorra della quale si sarebbe voluta liberare e nonostante le umiliazioni, gli insulti, le botte Tiziano non avrebbe mai voluto staccarsi da lei. Ma la rabbia e il risentimento lo covava dentro e crescevano giorno dopo giorno.

A dieci anni, quando perdeva ogni contatto con la realtà e riaffiorava ogni abuso e ogni violenza subita, avrebbe potuto ucciderti se avesse avuto tra le mani un’arma.  Aveva, fin da piccolo, conosciuto l’attesa ai cancelli del carcere per vedere il padre e l‘abbandono di sua madre che lo parcheggiava a casa della nonna, anche in piena notte. Restava via per mesi e quando Tiziano pensava di non rivederla più, la trovava una mattina, seduta al tavolo in cucina, con la sigaretta tra le dita dalle lunghe unghie laccate a parlare al cellulare, come se fosse andata via un’ora prima. Ogni volta tornava sempre con un uomo diverso, che durava Natale e Santo Stefano e puntualmente scaricava sul figlio i suoi fallimenti.

Tiziano cresceva e diventava ogni giorno sempre più violento, più aggressivo.

Ce l’aveva con il mondo intero e con ogni adulto che cercava di trovare un varco dentro la spessa corazza che si era costruito per sopravvivere. C’ho provato anch’ io a strappare le maglie spesse di quella difesa, ma la costanza, la comprensione e l’amore che riceveva, non riuscirono a farlo sentire accettato e a dargli un posto nel mondo. Tutto ciò che di buono si costruiva veniva distrutto appena entrava in casa. La famiglia, la casa erano per lui la sostanza tossica che lo stava avvelenando giorno per giorno. Così Tiziano fu allontanato dalla madre e messo in una casa famiglia. Aveva 10 anni. Una mattina venne a scuola con due mutande, due paia di calzini e un pigiama nello zaino.

“ Tizia’ che c è fa cu sta’ robba? ” Gli chiesi mentre aprivo lo zaino.

“ Quanno esco ra’ scola m’portano la’dint ” mi disse abbassando lo sguardo.

“ Non voglio andare, m’ettpaur ” aggiunse con gli occhi pieni di lacrime.

“ Portami cu te, ti giuro ca’ non lo faccio chiu o pazz ”e mi mise le braccia al collo, come solo lui sapeva fare nei rari momenti di affetto che riusciva a tirare fuori.

 

Mi si strinse il cuore davanti a quel bambino, che nessuno aveva saputo difendere e accudire.

“Non devi aver paura, Tiziano! Vedrai che ti troverai bene e tornerai presto a casa! Io verrò tutte le volte che potrò!” lo rassicurai, sapendo di mentire.

“ Nun m’ abbanduna’ pure tu! ” Mi disse, mentre lo portavano via.

Non l’ho abbandonato. Gli sono stata vicino. Fino a che ho potuto. Sono andata alla casa famiglia e con lui ho trascorso Natali e compleanni e interi pomeriggi d’estate. Non era stato facile per lui adattarsi. Stava cambiando. I rari momenti di tenerezza che mostrava da piccolo erano spariti. Il suo atteggiamento era sempre sulla difensiva. Stava bene, aveva nuovi amici e tante persone che gli volevano bene, ma lui sognava sempre che un giorno la madre lo avrebbe riportato a casa. Perché casa sua era a mezz’ora di macchina, e lui si sedeva al davanzale della finestra che dava sul cancello per ore con lo sguardo sulla strada, sperando e pregando che la madre venisse a prenderlo, ma lei non arrivò mai.

Un giorno decisero di trasferirlo in un’altra struttura fuori regione. La casa famiglia in cui stava non era più adeguata alle problematiche comportamentali di Tiziano. Nessuno riusciva più a contenere la sua rabbia e il suo disagio. Quando chiesi spiegazioni non ne abbi. Non avevo nessun diritto di chiedere, il mio rapporto con il minore era puramente professionale mi fu detto. Nessuno capì che ero riuscita dopo tanti anni a fare un piccolo foro nelle maglie di quella sofferenza che Tiziano si portava dentro. L’ultima volta che lo vidi aveva 14 anni.

“Mo’ mi sa’ che veramente nun c’ vedimmchiu!”

Mi disse guardando fuori dalla finestra della sua stanza dove aveva tanto atteso sua madre …

“Non viene manc sta vot!”

Aggiunse con gli occhi di chi aveva smesso di sperare troppo presto.

Quella volta fui io a stringerlo a me con gli occhi pieni di lacrime.

Lui non pianse, ormai aveva imparato a non farlo più.

Si cresce in fretta quando si é soli al mondo.

Non ci siamo più visti, perché non sono mai potuta andare a fargli visita.

Solo parenti di primo grado, in incontri protetti. Io non ero nessuno.