Racconto di Nicoletta Verzicco

(Prima pubblicazione)

 

 

 

 

Si vestiva non guardandosi mai allo specchio, così, approssimativamente, nemmeno preoccupandosi se il nodo alla cravatta fosse della grandezza giusta. Da quel giorno di due anni prima aveva rinunciato a farsi la barba in maniera tradizionale e aveva acquistato un rasoio elettrico che lo alleviava dall’affanno di dover vedere quella ferita sul viso, ricordo indelebile di una sofferenza sempre troppo vicina nel tempo. Accese la macchina del caffè, prese una cialda, la fece cadere nell’apertura apposita e la chiuse, scaldò la tazzina con l’acqua calda che poi gettò nel lavandino, pigiò il pulsante per un caffè lungo e attese. Scendeva quel liquido che era sempre lo stesso, ma che ogni giorno gli regalava nuove fragranze e colori differenti a seconda che il sole ferisse i vetri delle finestre o una pioggia noiosa li bagnasse. Bevve il suo caffè poi, con un gesto a due mani quotidiano, fece volare il cappotto sulle spalle come fosse un leggero mantello e uscì da quella casa e dalla solitudine che dava alimento ai suoi ricordi.

La metropolitana era il solito formicaio, comprò il giornale, fece aprire il tornello inserendo il biglietto nel lettore e seguì quell’orda silenziosa e rassegnata. Uscì da quel mondo sotterraneo ed entrò nel solito bar a prendere il consueto secondo caffè della lunga serie quotidiana, poi si diresse verso quel vecchio edificio annerito dallo smog.

Era sempre entrato in banca come fosse una prima volta, timidamente e non aveva mai smesso di approcciarsi ai suoi colleghi e ai clienti con riservatezza, poi da quel giorno di due anni prima fu sempre più restio a condividere la sua vita con gli altri esseri umani.

“Amore! Mi stai schizzando! Ah! Lo fai apposta!”

“Prendimi, su!” Lei si mise a correre entrando nell’acqua, il mare era calmo quella mattina e il sole era già caldo sulla pelle. Lui la raggiunse, la baciò lievemente e iniziarono a nuotare a bracciate lente, sorridendo l’uno all’altra. Le vacanze erano parse loro infinite, ma quel mare non avrebbero mai voluto lasciarlo: era la loro vita. Tornarono sfiniti sulla sabbia e si stesero sui teli da bagno, stanchi per la nuotata, felici. Lei si volse verso di lui e gli accarezzò la guancia, toccandogli leggermente quella ferita che s’intravedeva sotto la barba.

Aveva appuntamento con due clienti quella mattina, sarebbero stati lunghi colloqui fatti di numeri, tassi fissi e variabili, richieste scritte alla sede centrale della banca, un lavoro noioso che avrebbe svolto con attenzione come aveva sempre fatto. Prese le cartelle inerenti alla documentazione dei due correntisti e vagliò se mancasse del materiale informativo. Suonò il telefono. Un piccolo problema alla cassa. Si alzò lentamente e s’incamminò fuori dall’ufficio verso l’atrio della banca; una stretta di mano con un cliente, uno scambio di poche parole, problema risolto. Tornò alla sua scrivania, guardò l’orologio alla parete, mezz’ora circa e sarebbe arrivato il primo cliente. Si sedette su quella comoda poltrona, appoggiò i gomiti sul tavolo, il suo sguardo s’incantò sul pulviscolo che si era alzato al suo passaggio e che brillava cavalcando leggermente quel raggio di luce filtrante da una fessura della tenda a pannelli. Era senza pensieri, si sentiva leggero come quella polvere e, se le riflessioni fossero state ancora vive, lui avrebbe voluto trascorrere in quel limbo tutta la giornata. Qualcuno bussò contro lo stipite della porta aperta, quel suono lo riportò nello studio e la polvere gli parve cadere a terra come piombo.

“Fino a quando sarai impegnato in banca oggi?”

“Perché? Hai qualche programma?”

“Visto che nel pomeriggio dovrò trattenermi a scuola e non finirò prima delle cinque pensavo che potremmo incontrarci in centro e magari cenare fuori, che dici?”

“Non dovrei fare tardi, facciamo così, ti mando un messaggio per dirti a che ora finirò”

“Va bene. Scappo, che altrimenti faccio tardi”

Gli diede un bacio sorridente, uscendo gli fece l’occhiolino, aveva quasi chiuso la porta, quando tornò indietro per fargli la solita carezza su quella cicatrice nascosta, un’abitudine ormai, un gesto che doveva essere fatto.

“Vai, amore mio! Fai tardi!”

“Vado” e così dicendo uscì di corsa da casa.

 

Verso l’una la collega, appena giunta dalla sede per alcuni controlli che avrebbero dovuto fare insieme, gli chiese di pranzare:

“Non ho molto appetito”

“Dai! Prendiamo un panino e un caffè, ti offro quattro chiacchiere … “rise “… va bene, senza chiacchiere, solo lavoro! Va bene?”

“Sì, dai, è meglio” Lui prese il cappotto e con quel suo gesto a due mani largo e consueto esso volò sulle sue spalle. La collega s’incamminò verso la porta precedendolo, uscirono, lo aspettò e insieme s’incamminarono verso il solito caffè. Era pieno di avventori, videro un piccolo tavolino rotondo in un angolo, libero. Lui si rivolse al barista “Ci sediamo laggiù, vieni tu a prendere le ordinazioni, per favore?” Il ragazzo gli sorrise indaffarato e annuì. Si sedettero in quell’angolo angusto.

“Come stai?” gli chiese, appoggiando la borsa in terra di fianco alla sua sedia.

“Sto bene, un po’ stanco mentalmente per la situazione in banca”

“Dovresti uscire, svagarti un po’, non si può pensare solo al lavoro”

“Hai ragione, ma è difficile …”

“Cosa vi porto?” Arrivò il ragazzo

Gli comunicarono le loro richieste e appena il ragazzo si fu allontanato:

“Sai che non sei più lo stesso da quando lei … ti ha lasciato”

“Avevo detto che le chiacchiere non dovevano essere nel menù”

“Va bene, come vuoi. Resta il fatto che ci sono alternative, lo sport, ad esempio. Palestra? Tennis? Conosceresti gente nuova, donne!”

“Per favore! Ti prego! Cambiamo discorso”

Ringraziò il ragazzo appena giunto con le loro ordinazioni e si sentì sollevato. Iniziarono a mangiare i panini e lui cambiò radicalmente la conversazione portandola sulle richieste di mutuo fatte sottoscrivere quella mattina. Trascorse un’ora, senza sorrisi, senza che l’argomento ‘lei’ fosse più toccato. Si alzarono, presero un caffè al banco, lui pagò e uscirono.

“Grazie! Non dovevi, ti avevo invitato io”

“Lo sai come sono“.

“Uno degli ultimi cavalieri esistenti sulla terra. Come posso ricambiare? Mi permetti di invitarti a cena da me, una di queste sere?”

“Non so, non devi sentirti in debito. “

“Non lo farei solo per ricambiare, mi farebbe piacere”

“Ne riparliamo” fu perentorio e il discorso cadde su quel selciato triste e sporco che calpestarono per raggiungere la banca.

 

“Amoooreeee! Vuoi uscire da quel bagno! Devo andare a lavorare”

“Un attimo e sono da te”

“Li conosco i tuoi attimi!”

La porta del bagno si apre, e lei esce avvolta in un asciugamano bianco, si avvicina a lui. “Ma la vuoi capire che è tardi? Lasciami stare! Sei tremenda!”

“Va bene! Come vuoi! Tanto comandi sempre tu! Vado a vestirmi!”

 

Non si rese conto perché gli fosse venuto in mente quell’episodio. Erano felici, lo erano sempre stati. A volte gli appariva tutto come un sogno, immaginava di entrare in casa e di vederla là sul divano con il tablet o di sentirla cantare mentre sceglieva cosa indossare.

“Dove sei, gioia mia? Dove sei andata?”

Non poteva lasciarsi andare ai ricordi, la sua collega lo stava aspettando nell’altro ufficio. Si alzò dalla poltrona e si avviò. Ancora numeri, fogli, nomi. Era stanco, avrebbe voluto solo andarsene, dimenticare, lasciarsi tutto alle spalle, magari diventare un altro, affogare in quei ricordi, lasciare che essi lo attraversassero. Morire. Ecco. Morire.

 

È davanti allo specchio. Si vede invecchiato. E’ troppo tempo che non si guarda più, se non nelle vetrine dei negozi quando passeggia e involontariamente quella sua immagine opaca, evanescente nel vetro si scontra con i suoi occhi.

La cicatrice è vistosa, l’accarezza con le dita e gli pare di sentire la mano di lei. Chissà cosa pensano le persone incrociandolo per strada. Immaginano che lo abbiano ferito? Magari durante una lite furibonda. Sì, è una ferita, una pugnalata che dal suo orecchio destro, attraversando il viso, raggiunge il cuore. Lui pensa a quanto fu stupido nel nascondere sotto la barba quello che, prima, era solo un graffio e quanto sia beffardo il destino che ha inciso proprio la sua vanità, profondamente, senza pietà, perché il tempo non gli conceda mai una tregua al dolore, perché lo specchio ogni volta gli regali l’immagine di quella sera, come una perenne riproduzione degli stessi fotogrammi. Erano felici quella sera, erano stati invitati da amici, in campagna, la radio che perdeva il segnale, lei che cambiava continuamente canale e che cantava: “… e poi cambia tutto in poche ore e non è scritto da nessuna parte che io e te … non è mica vero che tristezza e allegria sono distribuite in modo uguale… è un’estate bellissima! È finita di già… “lei che gli accarezzava il graffio sul viso. Lei che gli sorrideva. Lui che le voleva un bene dell’anima.

Poi … poi quei fari davanti a loro, sulla loro corsia e la sua voce, quell’urlo strozzato, l’ultima volta che chiese il suo aiuto, l’ultima volta che pronunciò quella dolce parola tramutatasi in un urlo disperato: “PAPA’!”