Racconto di Elisabetta Bordieri

(Prima pubblicazione)

 

 

Una voce, nient’altro che una voce. Quella voce. Identica. Di una vita fa. Quel timbro caldo, quella tonalità bassa, quelle note profonde. Non era possibile. Dovevo aver acceso la TV distrattamente quel venerdì sera con un gesto inconsulto. Mentre il sangue si prosciugava nelle vene, con un ultimo sforzo prima di estinguermi tra gli umani per un colpo al cuore, alzai gli occhi dal libro che avevo tra le mani e mi girai di scatto verso lo schermo. Nulla, solo un documentario o qualcosa di simile con un omino alto e grasso che blaterava di eventuali e varie. Restai lì, atterrita, in attesa. Sempre e solo il tipo e le sue argomentazioni, ma nessuna traccia della voce fuori campo. Persa. Per sempre. Meglio così. Forse solo una suggestione dettata da visioni di un passato nemmeno troppo remoto. Aspettai il lento ripristino del fluire delle attività vitali e tornai alla lettura. Intanto mia figlia urlava qualcosa nella sua lingua di eterna infante che ancora non comprendevo e che forse mai sarei riuscita a fare, il cellulare aveva ripreso a squillare con il solito numero privato che da giorni insisteva a chiamare e al quale mi guardavo bene dal rispondere, un caffè che non prendo quasi mai dopo cena, ormai bruciato, chiedeva di essere liberato da una moka vecchia e arrugginita, e poi, non bastasse, un rumore assordante, che certo non poteva definirsi musica, proveniente dall’appartamento attiguo, perforava il tramezzo di cartapesta che divideva la mia camera da letto da quella di un adolescente brufoloso che non sarebbe cresciuto di certo a breve; ma io continuavo a leggere incurante del mondo intorno. Alla fine riuscii a lavare via quella giornata di fango e sterco e a placare ogni suono: mia figlia si addormentò nel suo lettino, il cellulare smise di snervarmi, il caffè si arrese alla caffettiera e il vicino optò per le cuffie. Dimenticai in fretta la voce e mi preparai per la notte, certa che la mattina seguente avrebbe trovato in me una donna migliore: un pensiero idiota che coltivavo ogni sera.

Mi ritrovai al venerdì successivo senza neanche accorgermene, assorbita da una realtà che non avevo previsto, ma ormai le mie settimane volavano via così. Certo non era nei miei programmi diventare madre senza un compagno, arrancare con qualche lavoretto per arrivare a fine mese, elemosinare una pizza da un’amica sempre irreperibile. La mia vita si era fermata, andata in letargo, e nessuno se n’era accorto. Non ero single. Ero sola. Una donna incolore. Accatastavo briciole di vita solo per avere dei ricordi che con tutta probabilità avrei un giorno cestinato. Il mio destino, ancora da scrivere, viveva a meno trenta gradi sotto zero dove anche i desideri gelavano dentro uno scrigno fatto di nulla. Avevo atteso per lungo tempo la risurrezione dei sogni ma si trattava di fesserie per miscredenti di basso livello. Ma chi se ne frega: del resto il tempo corrode tutto, anche le cose belle.

Quella sera mia figlia era dai nonni e ci sarebbe rimasta per tutto il fine settimana, un’occasione quasi unica visto che i miei genitori si prestavano poco a queste incombenze, nemmeno fossero di stampo anglosassone, del resto contribuivano al mio sostentamento quando i soldi non bastavano, e non bastavano quasi mai. Non avevo molta fame ma mi preparai lo stesso una cenetta semplice e gustosa. Mentre ingurgitavo in cucina una birretta ghiacciata, ancora in attesa di cenare, di nuovo la voce. Avevo rimosso ogni impronta mentale della settimana precedente. Schizzai di là in salotto con il bicchiere ancora in mano: televisore acceso evidentemente da me, stesso omino e stessa ambientazione, ne dedussi stesso canale e programma, aspettai trepidante che finisse ma di nuovo nessuna traccia della voce. Spensi immediatamente. Tornai in cucina e mi gustai la cena bevendo forse un po’ troppo e poi, con calma e gesso, decisi di uscire. Percorsi a piedi qualche centinaio di metri e raggiunsi il posto tra sentieri addormentati.

– Ti ho sentito poco fa in TV, anche la settimana scorsa a dirla tutta.

– Cosa? In TV?

– Era la tua voce, ne sono sicura.

– Tu sei pazza.

– E’ passata una vita e ti rifai vivo così, te lo richiedo: eri tu, vero?

– No cara, sono passati parecchi ma parecchi mesi, vedo che hai archiviato e rimosso facilmente. Io sono inchiodato qui e no, non ero io, in TV poi!

– Non ti credo.

– Cosa sei venuta a fare veramente? Problemi di coscienza?

– Ho sentito distintamente la tua voce. Mi perseguiti.

– Si chiamano allucinazioni.

– Devi andartene, devi lasciarmi in pace.

– Ti ricordo che non posso andarmene da dove mi hai costretto tu. Dilaniato da rapaci, sono rientrato nel ciclo biologico e, preda di altri animali, mi continuo a diffondere in altri corpi. Puoi immaginarmi dove e come vuoi: nel volo degli uccelli, nello strisciare di rettili, nel ruminare di qualche mammifero, oppure che ne so, negli echi in montagna, nelle scie di lava, nello scrosciare della pioggia. Ovunque ma non in televisione!

– Non sono stata io, quella sera a…

– Ma certamente, è stato il vento. Hai una visione laterale dei fatti.

– Era una notte ventosa. Ho una visione laterale ma centrata.

– Sì certo, una notte ventosa e magari pure buia e tempestosa. Ti sei fatta un film da sola.

– Senti…

– No, senti tu. Ripeto: sei malata, fatti curare, dammi retta e ora vattene.

Rincasai poco dopo, la luna era già alta nel cielo e nemmeno lei poté fare più nulla per me. Mi infilai a letto in compagnia di qualche goccia di antidepressivo per evitare un sonno vigile e potenziali visioni perché, al contrario di quanto sosteneva lui, io non ero pazza.

Un’altra settimana d’inferno: mia figlia non ne voleva sapere di stare all’asilo, l’inserimento si rivelava di giorno in giorno un fallimento, i miei si erano rifiutati di tenerla perché i figli quando si fanno bisogna guardarseli e bla bla bla, con l’unica differenza che non erano queste le scosse emotive che avevo sognato: io non  avevo votato per una vita da mammina solitaria e isterica. In ogni caso, questa volta arrivai al venerdì seguente ben consapevole dell’orario e, per tempo, accesi la tele sul canale prestabilito, piantata lì davanti, incollata sul divano. Mi sorbii più di due ore di trasmissione, mi feci una cultura cosmica su come nidificano le allodole, su quanti neuroni possiede un polpo e sul perché gli ippopotami dormono sott’acqua. Forse perché assorbita da tanta erudizione e presa dalle abitudini, tradizioni, usi e costumi di certi animali, a un certo punto sentii le palpebre calare un tantino. E puntuale la voce fece il suo ingresso insieme alle grida insopportabili di mia figlia. Aprii gli occhi e naturalmente non riuscii di nuovo a dare un volto a quella dannata voce. Spensi la TV prima di lanciarle contro il telecomando e corsi di là in cameretta a tentare almeno di attenuare gli strilli dell’incontenibile creatura, senza risultato. Stanca, la portai nel letto con me dove ci addormentammo come fossimo due anime fertili intrecciate, domandandomi se fosse scritto in qualche libro della vita che lo saremmo mai state.

La mattina seguente saltai l’inserimento, lasciai mia figlia all’asilo e tornai da lui.

– Ciao, ci sei?

– Dove vuoi che sia?

– Perché continui a ossessionarmi con i tuoi meschini giochetti? Appari e scompari: pensi di spaventarmi? Perché ce l’hai con me?

– Bella questa.

– Rispondimi.

– La prima cosa è che io non prendo parte a nessun giochetto. La seconda è che sì, ce l’ho con te perché non mi ha permesso di diventare padre.

– E dai la colpa a me di questo?

– Tu che dici?

– Che non è così. Mi soffocavi.

– Ottima motivazione, complimenti.

– Vivevo la tua vita, non la mia. Ero solo un’ombra sfumata e silenziosa dietro di te. Avevo ogni giorno gli occhi sempre umidi che foggiavano lacrime di sangue. Non volevo completare nessuno, tanto meno te. Le tue carezze duravano il lasso di quell’attimo inutile. Amare non è compiacere. Sei un graffio nell’anima che non cicatrizza mai.

– Un’accozzaglia di frasi senza senso prese da qualche libretto di citazioni strappalacrime.

– No, è la verità.

– La verità non esiste, esistono le opinioni, e queste assurde di cui vai blaterando sono le tue.

– Le chiami opinioni le tue violenze?

Violenze, ma dai! Prova piuttosto a fare ordine nella tua testa e ritorna a quel giorno, a quel venerdì sera.

– Sono passati quasi due anni.

– Erano iniziate le doglie, stavamo vedendo un documentario  sulla natura e gli animali alla tele, io volevo portarti in ospedale, tu volevi aspettare dolori più forti, hai iniziato ad urlare e rimproverarmi di cose insensate, siamo usciti di casa per una passeggiata a tentare una riconciliazione e siamo venuti qui.

– …un bel posto, abbiamo avuto fortuna a trovare il nostro alloggio in questo edificio a un passo da questi scogli…

– I tuoi dolori si erano placati ma non le tue accuse.

– …a picco sul mare…

– Non la smettevi più.

– …con lo sciabordio del mare nelle orecchie…

– Ti imploravo di farla finita e di pensare alla bambina.

– …pieno di precipizi da ogni parte…

– Hai iniziato a spingermi e picchiarmi e a spingermi sempre più.

– … dove si sente forte il respiro dell’acqua e della terra…

– Ti ho lasciato sfogare senza accorgermi dei miei passi indietro verso il burrone. E poi è successo quello che è successo. Ma mi stai ascoltando?

– …lo senti anche tu ora?

– Qui c’è solo il silenzio straziante dei tuoi demoni. Tornatene a casa ora.

Feci come disse. Me ne tornai e mi accasciai sul divano per un tempo che credetti di pochi minuti, ma quando squillò il telefono mi resi conto che erano passate delle ore. L’asilo! Schizzai a prendere mia figlia e la trovai che piangeva disperata. Nulla e nessuno l’avrebbe calmata. Le maestre mi sputarono sentenze: è una bambina particolare, non fa grandi progressi, piange spesso, non si relaziona, ma cosa ti vuoi relazionare quando il padre è assente e la madre si arrabatta come può a sopravvivere? Stavo impazzendo. A casa, la parcheggiai davanti a un cartone animato giapponese mentre una tazza di caffè del giorno prima, freddo e disgustoso, scorreva libero nel mio esofago fino a ristagnare in fondo a uno stomaco vuoto. Preparai qualcosa di commestibile per tutte e due: roba gelata di frigo per me e una pappetta insulsa per lei e mi avventurai a trascorrere un altro fantastico fine settimana da ragazza madre.

In realtà passarono mesi senza che me ne accorgessi, senza venerdì, senza voci e senza documentari in televisione. Una routine devastante stava intaccando quel filo sottile che teneva in piedi la mia anima, routine che ancora non potevo sapere quanto avrei anelato se solo quella mattina maledetta non avessi deciso di rispondere al cellulare… numero privato di nuovo, ma ero ben intenzionata a chiudere definitivamente quelle incursioni con qualche deciso improperio all’interlocutore, venditore di chissà cosa.

– Pronto, chi è?!

– Ciao.

La voce. Lui.

– Tu?

– E’ un po’ che non vieni a trovarmi.

– E’ un po’ che non mi va.

– La bimba?

– E’ all’asilo.

– Vorrei parlarti, volevo chiederti se possiamo vederci al solito posto.

– Non puoi dirmi qui, ora?

– Preferirei di no.

– Eri tu a chiamarmi le altre volte quando squillava il telefono?

– Forse. Andiamo, ti aspetto lì.

Attaccai e, senza pensarci su, presi la borsa e raggiunsi il luogo dell’incontro.

– Eccomi, cosa volevi dirmi?

– Voglio sedare ogni incomprensione e odio anche se non mi hai mai chiesto scusa.

– Scusa? Ancora con questa storia che sia stata colpa mia? Non ti ho spinto io, è stato il…

– …il vento sì lo so, dai, non parliamone ora, siediti qui e godiamoci il panorama.

– E’ pericoloso qui, troppo vicino al baratro.

– Ma è qui che eravamo… ricordi?

Mi sedetti su un masso a ridosso dello strapiombo, una sensazione di strana sazietà mentale mi pervase. Una calma inaspettata e inquietante adombrò i mie pensieri. Chiusi gli occhi, sentii una persuasione occulta ottundere i miei sensi. Restai così, immobile, sospesa a godermi il momento bagnato di luce intensa che traspariva attraverso le palpebre. Ora ricordavo.

– Sì, eravamo qui è vero, perché proprio oggi?

– Perché è venerdì e stasera saranno due anni esatti dalla disgrazia e così ho pensato che potevamo mercanteggiare con Dio il prezzo della tua vita, proprio oggi.

– Forse Dio ha ancora bisogno di me.

– Non credo. Non ci sono più battaglie da combattere. Nemmeno con Dio.

– Dimmi cosa vuoi fare.

– Non lo so, non posso raccontare una storia prima di conoscerne la fine, non è così semplice.

– E non può esserlo?

– Non più. E’ tardi. E’ troppo tardi. E ora alzati, vieni con me, il vento sta iniziando a soffiare, da ultimo anche per te.

Aprii gli occhi, ubbidii e mi tirai su. L’inchiostro delle sue parole stava sbiadendo mentre i miei ricordi erano un martellio perforante. Morire è passare, è un modo di essere, mi stava suggerendo un istinto sconosciuto. Poi improvvisamente, di nuovo, lo squillo del cellulare. In bilico a un passo dal vuoto, infilai in modo maldestro le mani nella borsa rischiando di cadere, presi il telefono e senza vedere lo schermo, risposi urlando.

– Ancora? Non ti basta? Faccio quello che vuoi! Sto venendo! Cosa vuoi di più?!

– Signora, voglio che venga a prendere sua figlia, l’asilo sta per chiudere!

Una brusca massa d’aria stratificata e violenta mi costrinse a fare da contrappeso tra il mio precario equilibrio e lo spettrale sorriso di lui che sguaiato mi sollecitava a lanciarmi giù.

– Pronto? Mi ha sentito? La bambina è ancora qui! Pronto?!

Ma l’abisso sotto di me chiamava più forte.

Voci ovunque che, come atomi impazziti, stavano sfondando le sottili pareti della mia instabile mente.

Mia figlia o lui. Io o lui. La vita o lui.

Nessun consiglio dal latitante destino.

Nessun segno dal cielo o dalla terra.

Solo di nuovo quella strana calma improvvisa.

Dovevo agire e agii.

Dovevo decidere e decisi.

Non sono pazza e… sì, sto arrivando, pensai, da te.