Racconto di Silvia Marcarini

(Prima Pubblicazione)

 

 

Quando si percorre la strada del cambiamento, non sai mai, dove condurrà.

Bisogna aver il coraggio di soffiare con forza sulle ragnatele che imprigionano le idee e prendere per mano il destino; tutti i muri verranno allora abbattuti, pure quello del dolore, per poi andare avanti calpestando tutto ciò che resta delle proprie misere macerie.

I ricordi a volte sono accesi da scintille inaspettate, come una scatola di latta con varie minuzie che per qualcuno può non avere importanza, ma nel mio caso, la vista di un semplice rossetto mi restituiva per un solo attimo la presenza di mia madre.

Sentivo il bisogno di risposte e l’unica persona in grado di darmele era la mia amica Jeannette.

Quindi, mi sporcai le labbra di rosso e salutai con uno sguardo fugace la mia immagine riflessa nello specchio dell’atrio di casa.

M’incamminai sulla strada che fiancheggiava le abitazioni del mio quartiere con il caldo estivo che la faceva da padrone, costringendo l’abito a rimanermi incollato per ore sulla pelle.

Il mio vicino, Sam, se ne stava seduto su una sedia di vimini nella veranda di casa, indossando il solito completo estivo grigio sbiadito, talmente ristretto da poter intravedere le ossa scarne delle caviglie.

Il vecchio era appoggiato con entrambe le mani su un bastone di legno che sembrava l’unico sostegno al “vuoto” della sua esistenza che lo stava consumando.

La mente di Sam vagava in uno stato di oblio tipico della sua età che mi catturò con uno sguardo.

<<Piccola Rose, dove vai? E’in arrivo un brutto temporale! Dammi retta, torna a casa!>> disse Sam.

<<Tutto bene?>> domandai io con tono pungente.

<<Mi hai sentito ragazzina? Torna a casa>> ribadì il vecchio con voce flebile.

Così, quel pomeriggio, raggiunsi la mia amica Jeannette. Da qualche anno, viveva in un minuscolo appartamento collocato al secondo piano di un edificio d’epoca di mattoni rossi che si affacciava su Esplanade Avenue.

Mi aprì la porta, come sempre con un sorriso felino, indossando solo una semplice sottoveste color avorio che faceva contrasto con la pelle ambrata del suo corpo.

Le parole riemersero dall’impercettibile ferita del mio cuore per fluire a poco a poco sulla bocca.

<<Dai entra, siediti. Perché quella faccia?>> domandò Jeannette.

<<Sto male. Penso sempre a lei. Sono ormai tre anni che non c’è più, ma il mio dolore non è invecchiato di un giorno>>,

<<Rose, il dolore appartiene alla vita come il respiro per l’uomo. Il ricordo di tua madre non deve essere solo sofferenza ma anche amore per crescere e abbracciare nuove persone>>.

<<Mi sento a pezzi, e se non fossi in grado di andare oltre?>>

<<Provaci. Non fare il riccio>>.

Mi alzai dal divanetto per andare alla scrivania attirata da vecchie foto e cartoline postali in bianco e nero.

<<Che cosa sono queste cartoline?>>

<<Ti piacciono Rose? È la mia collezione; alcune hanno più di cento anni>> precisò Jeannette.

<<Molto originali>> affermai, sorseggiando intanto un tè freddo accompagnato da succulenti bignè zuccherini offerti dalla mia amica.

<<Ho deciso di fare questa raccolta perché ogni cartolina racconta una piccola storia. È come ridare voce a frammenti di vite che hanno viaggiato nel tempo per arrivare fino a me>>.

Ne presi in mano alcune; leggendo svariate date dei timbri postali, assaporavo l’essenza di periodi storici ormai sfioriti: 12 luglio 1903, 29 marzo 1917, 24 settembre 1929.

Mi colpì, per la sua originalità, una “carte postale” datata 18 settembre 1905. L’autrice in questione, Alice Potterat, con calligrafia d’altri tempi scriveva a un misterioso Luis Stratton.

Si poteva desumere la natura segreta del loro rapporto dal fatto che Mademoiselle Potterat aveva utilizzato un alfabeto runico che per il lettore non aveva alcun significato.

Pensai “ottimo metodo per sfuggire al controllo di occhi indiscreti. Amanti, spie o misticismo?”.

Sulla copertina della cartolina era stampata una foto in bianco e nero intitolata “La Dansedu Voile” che ritraeva una potenziale Mata Hari avvolta da un lunghissimo velo bianco.

Jeannette interruppe il monologo interiore che stava occupando i miei pensieri fissandomi negli occhi: <<Chissà in quali sogni credevano questi sconosciuti scrittori? Malattie, guerre, povertà hanno spazzato via tutto, lasciando solo un deserto arido di ricordi>>.

<<Allora, con questo dovrei consolarmi Jeannette! Io ho bisogno di mia madre. Tu non capisci! Vorrei avere una seconda possibilità per dirle parole che non sono stata mai in grado di pronunciare>>:

Una lacrima infuocata mi rigò la faccia di rosso-vergogna e all’improvviso fui rapita da un inaspettato torpore che mi costrinse a sdraiare sul divanetto.

<<Mi gira la testa Jeannette! Cosa sta succedendo?>> domandai. Allorché, sentii il corpo divenire leggero per poi svanire con la mente altrove.

<<Tres bien Rose, chiudi gli occhi e lasciati andare>> mi sussurrò Jeannette all’orecchio.

<<Io non voglio!>>

<<Sshhh…fai come dico>> mormorò l’inconfutabile “strega”. Il suo aspetto ora era diverso, il vestito che indossava sembrava rubato dalle foto d’epoca che poco fa, aveva mostrato.

Un insolito silenzio divampò nella stanza; un fascio di luce senza chiedere permesso attraversò la tendina di pizzo dalla finestrella del salotto illuminando il viso della donna anziana ritratta nel quadro appeso sulla parete di fronte a me.

L’orologio a pendolo posto vicino alla poltrona cremisi pareva rallentare il suo moto, come se il tempo si stesse fermando ed è stato in quel preciso istante che mi ritrovai altrove. Lì, zampilli d’acqua, come piccoli diamanti, sgorgavano da una fontana che sembrava un enorme bocciolo di rosa appena fiorito in una tarda primavera.

Un viso s’intravede dietro il fluttuare dell’acqua; lui aveva qualche anno più di me e tante piccole efelidi ricoprivano il suo volto come in una volta celeste.

Dietro le sue spalle, un’enorme cattedrale sembrava scrutarmi cercando di carpire le recondite debolezze della mia anima.

Mi avvicinai a lui, seguendo il richiamo di un invisibile fuoco fatuo.

<<Ciao Rose. Era da tanto che ti aspettavo>> disse il ragazzo.

<<Scusa, ma ci conosciamo?>> chiesi allo sconosciuto.

<<Sono JeffreyWhitefield! Piccola Rose cosa ne hai fatto della tua memoria?>>

<<Senti, poco fa ero sdraiata sul divano della mia amica e ora mi ritrovo qua! Non mi va di scherzare! Dimmi che gioco è questo?>>

<<Dai rilassati Rose, io sono qui per farti divertire>>.

<<Come?>> dissi.

<<Ti serve adrenalina Rose. Sembri mia nonna!>>

<<Grazie per il complimento Jeffrey. Molto premuroso da parte tua>>.

<<Andiamo a fare quattro passi in questa magnifica città?>> chiese.

<<Ok, mio capitano!>> risposi con ironia.

Mi prese inaspettatamente la mano e al contatto fisico il mio cuore aveva scatenato insoliti battiti che sembravano cavalli selvatici al galoppo.

Il giorno stava volgendo al termine e le strade iniziarono a riempirsi delle frenesie delle persone.

La mia attenzione fu catturata da un piccolo uomo, posto su un angolo del marciapiede che con l’aiuto del suo sax s’isolava dagli spasmi della folla, per dar voce alla sua solitudine.

Allo sciogliersi di quella musica, Jeffrey mi strinse a sé talmente forte, da farmi quasi male. Senza parole mi avvolse in un ballo lento. Il suo respiro era così vicino da scorrere tra i miei capelli. Le mie labbra cercarono di sfiorare le sue, ma furono presto interrotte da una frase inopportuna:

<<Ti va di fare qualcosa di diverso?>>

<<Cosa?>> risposi.

<<Per esempio, giocare a nascondino>>.

<<Dove?>>

<<Lascia fare a me Rose. Seguimi.>>

Non riuscivo ancora a credere, dove mi avesse portato: in un cimitero.

Si aprì dinanzi a me un labirinto di loculi e tombe; il mondo degli spiriti abbracciava ogni singolo elemento che non emettesse calore. L’aria che respiravo era satura di anime che avevano lasciato troppo presto il nostro mondo.

<<Devo ammetterlo Jeffrey, sei un ragazzo originale!>>

<<Bene, iniziamo Rose?>>

<<Sì>>.

<<Ora, ti benderò gli occhi con questo foulard, conta fino a sessanta e dopo potrai togliertelo. Io, intanto mi nasconderò da qualche parte. Tieni questa torcia, potrebbe servire, fra poco diventerà buio>>.

<<Se ti trovo, quale sarà il mio premio?>> chiesi.

<<Il bacio che prima non ti ho dato>.

<<Iniziamo Jeffrey. Bendami gli occhi>>.

Quando finii di contare Jeffrey, era svanito nel nulla.

Iniziai allora il viaggio in quel luogo che dall’aspetto sembrava essere stato strappato dalle paludi del tempo.

Alcune tombe sprofondavano nel terreno come inghiottite da un abisso di oscurità.

Le radici degli alberi soffocavano tutto ciò che stava intorno, senza alcuna distinzione.

Soltanto i mausolei delle famiglie più agiate davano l’impressione di voler lasciare un’impronta ai posteri dopo la loro morte.

Mentre camminavo nei minuscoli sentieri di tenebra, sentivo di essere seguita da qualcuno, come se un’ombra vegliasse sui miei passi.

Sapevo di non essere sola. Una mano mi stava guidando verso qualcosa di ancora ignoto.

Forse l’inconscio mi voleva dire qualcosa.

Iniziava a farsi buio e decisi di accendere la torcia; pensavo a Jeffrey e alla folle idea di portarmi in questo posto. Ma dove si era cacciato?

Un’angoscia stava crescendo quatta quatta dentro di me; vagavo da circa mezz’ora senza una meta.

Per un attimo alcune risate di bimbi riempirono come nebbia lo spazio vuoto del silenzio.

E’ stato in quel momento che la vidi, si era proprio là che mi stava guardando: la cripta degli orfanelli bisognosi della città.

Un tremito mi scosse la mano; cercai di reprimerlo con il senso della ragione. Volevo fuggire dal quel posto anche senza Jeffrey.

In lontananza, un cancelletto di ferro di una delle tante cripte, animato dalla brezza notturna, tintinnava a ritmi regolari. Mi avvicinai per interrompere quel gioco perverso chiudendolo con rabbia.

La cripta sembrava abbandonata da tanto tempo, nessun fiore commemorava più la memoria dei suoi occupanti.

La luce della torcia, per una frazione di secondo illuminò la parte di una scritta: “field”. La paura iniziò a divorarmi le ossa perché ora sospettavo la verità.

Vidi  l’incisione chiaramente:

Jeffrey Whitefield

Sept 20 1898 – Dec 041915

 

Mi voltai e lui era dietro di me con un ghigno arcigno. Il “figlio” di Ade sembrava intenzionato a trascinarmi nella sua dimora.

Lanciai un grido di terrore. Un lampo abbagliante squarciò l’oscurità del cielo e una moltitudine di lacrime amare mi ricoprì il viso d’acqua. Il temporale annunciato da Sam era arrivato. Quando un suono metallico mi svegliò di soprassalto da questo viaggio onirico, salvandomi da Jeffrey.

Una voce rassicurante che aveva qualcosa di famigliare mi chiamò per nome: “Rose svegliati, è ora di andare a scuola”; era mia madre, seduta accanto a me.

Ora potevo finalmente dirle quanto l’amavo.

Distesa sul mio letto, pensai alla vita come un’altalena che oscilla costantemente tra il sogno e la realtà. Un sottile confine s’interpone fra questi due mondi, resta al viaggiatore che è in ognuno di noi decidere quale strada prendere.

Io avevo scelto la mia.