Racconto di Lucia Marcone

(Quarta pubblicazione)

 

 

…alta, solenne, vestita di nero / parvemi riveder nonna Lucia.

O nonna, o nonna!   bello / quand’ero bimbo! Ditela ancor / ditela a quest’uom savio la novella / di lei che cerca il suo perduto amor.

“Carducci”

 

Può darsi che un mattino io mi svegli e ricordi nulla. Può darsi… e forse sarò da raccogliere come un sacco vuoto su di una sedia a rotelle, come fu per il nonno.

Ragazzo mio! Conosco un detto indiano che recita più o meno così. “Se ti narro una storia, potresti anche scordarla, ma se te la scrivo la leggerai: la pagina l’avrai per sempre sotto gli occhi e ti resterà nel cuore “.

Il tuo ritorno a casa in questo Natale mi consola, ma la gioia più grande è il mio narrare, il parlare, dialogare: lo sai i vecchi hanno bisogno di dire, comunicare, e cercano sempre qualcuno che li ascolti: solo così li fai felici.

Caro ragazzo il mio natale era una “festa nobile”, la festa di un sentimento e di un grande racconto. Niente consumismo, ma un’attesa che durava un anno. Una fonte continua di impegno e religione, sublimando il tempo della ricorrenza con l’animo colmo di entusiasmi e creazioni.

Sai …gli incarti dorati dei cioccolatini?  Li tendevo, li stiravo con le mie piccole dita, come un panno di lino leggero.  E sai i fili sottili di rame dentro le corde ancestrali della corrente elettrica?

Li tiravo fuori con il rischio di sbucciarmi le dita. Uno ad uno li piegavo dando loro la forma di un petalo che ricoprivo con la stagnola colorata dei cioccolatini. Componevo petali di fiori: uno…due …sei, sette. Tutto con pazienza certosina! E poi stretti tutti insieme: gira e rigira i fili sotto i petali… si componeva la corolla. Una foglia attaccata al gambo, e poi il tutto sistemato tra il verde degli aghi di pino o foglie di edera.

Gli abeti era proibito reciderli, persino prenderne un ramo: per la terra, i boschi e la natura c’era un sacro rispetto. Il mio albero di natale era ricoperto di quei fiori composti, amorevolmente, dal mio impegno di bambina. Come si fa a non ricordare gli zampognari che arrivavano già ai primi di dicembre, con le prime nevi. Era un gruppo di uomini che scendevano dai borghi montanari e rupestri. Con poche note monotone e strumenti ancestrali creati da loro stessi, si spargevano per paesi e pianure al suono della “pastorella”: tu scendi dalle stelle o re del cielo!

Oggi che son vecchia e secca come un filo appiattito vado ancora in cerca di quel suono, di quelle parole esuberanti di ricordi cari, in una frenesia senza sosta. Anche il nonno si dava da fare con lena, incontrollabile per la sua età.

Tirava fuori dal bosco un legno grande “il ciocco”: tanto grande che doveva ardere, sotto la cappa del camino la notte intera, quella in cui veniva al mondo una creatura speciale.

Era la notte in cui la gente rimaneva sveglia, nell’incanto di una nuova nascita: un Bambino divino: il Bambinello! Finalmente si mangiava qualcosa in più e qualcosa di buono!

La cena della vigilia era una consacrazione. Cibo magro: zuppa di ceci con castagne, baccalà cotto alla brace condito con olio crudo e limone, verdure pastellate e fritte.  E poi la letterina di Natale per gli auguri sotto il piatto rovesciato. Oggi tu fai gli auguri tecnologici e in un attimo arrivi in capo al mondo.

Io andavo dalla Ginetta gioiosamente, scendendo per una stradina scomoda e sassosa. A volte anche innevata. Una botteghuccia sulla statale, vicino alla scuola, e un bel po’ di strada da fare. Un fondacaccio che odorava di sapone di Marsiglia e baccalà e la vecchia Ginetta, curva come un uncino, apriva una scatola magica. Ci posava sopra le mani ossute e ritorte e poi un tremito nel mio cuore come quella porporina che si sprigionava dalle buste, con dentro il foglio da lettera: il colore e la favola del Natale. Il Bambinello nella paglia! Una favola e un’attesa travasavano da quella scatola: il candore delle cose perdute che non torneranno più.

Due letterine: una per i nonni e l’altra per il babbo e la mamma. E la sera della vigilia, mia madre, teneramente, complice…

– Hai messo i piatti rovesciati sulla tovaglia…! Esclamava. E io silenziosamente mi aggiravo ancora intorno alla tavola. Quella finzione mi inorgogliva: ero dentro mia madre, ero nel suo gioco muto creativo, limpido, un gioco d’amore con essa: tutto dentro di me, con lei, sommersa da troppa gioia. Come si fa a scordare il sapore dei “calcionetti”, una leccornia che noi bambini aspettavamo ansiosi e a volte li rubavamo e mangiavamo appena fritti sulla brace, dentro la padella di ferro, fino a bruciarci il palato.

Il giorno di Natale, mia madre cucinava la “pastuccia”. La preparazione richiedeva un tempo lungo e molta fantasia che giocava intorno alle cibarie che erano dentro casa. Si impastava la farina da polenta con acqua bollente. A parte si cuoceva pancetta a tocchetti, salsicce di fegato e carne, spezzettate, amalgamate poi con la polenta sbollentata. Nello stesso impasto, ancora, si univano uvetta, fichi secchi, formaggio fresco di pecora. La cottura della pastuccia era un rito. Avveniva sul suolo del camino abbondantemente alimentato. Allargate le braci, si poneva la teglia sul suolo diventato rosso di fuoco. La teglia poi veniva ricoperta da un aggeggio di ferro dalle pareti abbastanza alte: una scatola con manico da presa sul coperchio. “LACOPPA“ che si seppelliva di braci copiosamente. Quando si preparava la pastuccia non se ne faceva parola ad alcuno: era troppo rara, troppo ambita e troppo costosa in quanto richiedeva molti ingredienti che messi insieme davano un senso di gente ghiotta e sprecona. A quei tempi una così buona cosa dava quasi vergogna e discriminazione nei confronti di chi era veramente povero. Narravano le nonne che una giovane donna, persino al suo innamorato che la chiamava da dietro la porta abbia esclamato: “Nde pozze fa ‘ndrà che mammà sta a fa la pastucce!”

Poi arrivava il tempo dell’epifania con la vecchina spericolata che scendeva dalla cappa del camino. A letto presto la sera del cinque gennaio e mille riflessioni… chissà se sono stata buona, se sono una bambina brava…! I sensi di colpa, eterni, di noi donne che germogliavano dentro di noi da quando eravamo ingenue e ancora con le treccine. E tu oggi ne sai più di me con la tua laurea magistrale in psicologia. Allora lo sapeva solo la vecchina.

Ritorna l’affettuosità e la meraviglia dell’infanzia. Dormivo tra il nonno e la nonna nel lettone; era nata una sorella dopo di me e non vi era più posto nella camera dei miei genitori. Una notte leggera di sonno quella del cinque gennaio, una insonnia con gli occhi dilatati e le orecchie tese. Quella volta mi svegliai alle cinque del mattino, incretinita e curiosa, la voce tremante di sonno e timori.

-E’ venuta la befana?- La voce del nonno…- Non so ….vediamo….!

Quella volta, sul baule, in fondo al quel letto grande, meraviglia delle meraviglie…e io che tremavo, vidi un lettino con dentro una bambolina di celluloide. Il lenzuolino ricamato ornava il lettino insieme a un cuscinetto dove la bambolina distesa posava il suo capo nudo con ondulazioni che imitavano boccoli di capelli. Accanto al lettino tre cioccolatini a forma di mezzaluna, ricoperti di stagnola colorata di azzurro. Io mi illumino di contentezza e vorrei alzarmi ma i nonni mi frenano.

-E’ freddo, è buio, bisogna che sorga il giorno.

Ricordo…mangiai un cioccolatino, mi riconciliai con il letto, con un sonno felice e il dolce nella mia bocca. Al mattino mi attendeva un dolore amaro e inspiegabile.

Mancava un cioccolatino. Piansi addolorata e dubbiosa, cercavo la causa che mi aiutasse a districare il problema. Me la presi con la nonna che si era già levata.

-Ladra…ghiotta…hai mangiato il mio cioccolatino!

-Sarà venuta la befana a riprenderlo…forse ne aveva lasciati troppi, si era sbagliata…!

La spiegazione dei grandi. E io lo credetti. Il cioccolatino solitario lo gustai a colazione con dolore e rimpianto per quello che la vecchina aveva ripreso con sé.

La notte la bambolina dormiva nel suo lettino rimasto per sempre sopra il baule. Dopo una settimana al mio risveglio altro dolore: mancava il cuscinetto e la bambolina era scivolata fuori dal lenzuolo. La trovai rovesciata sopra il freddo legno del baule. Il mio cuscinetto…sapessi che dolore…profumava di pane…, di biscotti. Era bianco, gonfio e al lato aveva un fiorellino ricamato di colore rosa, con un filino lucente, sottile, delicato.

Urlai, mi buttai per terra, una quasi crisi di nervi. Una perdita troppo grande come se mi avessero rubato una favola, come se mi avessero strappato dal cuore un miraggio. Mia madre mi voleva consolare, ma comprendevo che anch’essa era stranita, scompensata, quasi allucinata. Preoccupata al massimo…intanto che guardava la nonna negli occhi: tutte e due sbalordite, la bocca spalancata.

Il mio ragazzone ride, ha infilato in tasca il cellulare, mi viene vicino prendendomi le mani quasi mi sussurra.

-Nonna la fantasia ti accompagna sempre. Ma è un giallo…! E la soluzione?

La soluzione è vera e indimenticata ragazzo mio!

La settimana dopo la sorpresa triste: la nonna faceva pulizie nella sua camera, sposta il baule in fondo al letto e dietro trova la carta stagnola azzurra del cioccolatino, la foderina del cuscinetto vuota. Soluzione del giallo: era venuto un topo e la notte della befana aveva rubato e mangiato il cioccolatino, qualche notte dopo era tornato per portare via il cuscinetto del lettino realizzato da mia madre, riempito di crusca. Era appena finita la guerra, ragazzo mio.

Ricordo una espressione di mia madre che mi consolava, come sempre.

-In questi tempi duri, anche i topi sognano qualcosa di buono!

Nel tempo seppi che il lettino lo aveva realizzato un vecchio falegname del paese, Giosaffatte, un S. Giuseppe con la barba bianca, il lenzuolino e il cuscino ricamato erano opera di mia madre.

Anche tu sei un perduto incanto. Ricordi il bambinello dietro la finestrella sul davanzale interno della nostra casa di montagna? Il muschio riportato dal margine del bosco. Avevi quattro anni e nella penombra degli alberi, tra il verde del prato alle pendici di quel monte, cercavi il geco. Ti dicevo che il geco vive nei luoghi caldi e in pianura, allora lo ricordavi e ne parlavi con una sorta di nostalgia.

-Certo…vuole il caldo, ci aspetta sul terrazzo della casa al mare con le dita larghe, che…poi si arrampica sul muro e viene a beresotto le tue piantine…nonna! Al geco non piace la teppa del bosco, la teppa è bagnata, profuma di funghi e di neve.

La teppa era il muschio e non sono mai riuscita a darmi spiegazione di quel sostantivo strano che sortiva dal tuo parlare inventato. Sul muschio morbido, aggiustato dietro i vetri della finestrella, due pezzi di legno a fare da capanna e sotto il bambinello dentro una cascina di giunco sfilacciata che era stata usata per stringere il formaggio dai pastori che avevano abitato la nostra casa prima di noi. Non era mai al suo posto quel bambino, nasceva sempre prima della notte santa. Lo prendevi fra le tue piccole mani, lo avvolgevi dentro un panno della cucina, lo deponevi accanto al fuoco per tenerlo al caldo.

Il mio ragazzone mi accarezza il capo.

-Non sono un perduto incanto, nonna, sono qui e ti ascolto. Dopo Natale andrò, lo sai che devo andare e tu nonna, come la corda di un vecchio violino che vibra ancora, scriverai i tuoi perduti incanti. Perché sei bravissima a salvare le cose magiche del passato. Mi narrerai ancora quando sarò di nuovo a casa, per la futura festa.

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