Racconto di Filippo Rigli

(Quarta pubblicazione)

 

Mi piaceva una compagna di corso, all’università. Era una fuori sede, sarda, o calabrese, o qualcosa del genere. Non tornava a casa per le vacanze, abitava troppo lontano. Le rodeva. Le avevo proposto di passare il Capodanno insieme, mi aveva risposto che no, lavorava, le pagavano bene le cameriere a Capodanno, perché non ne trovavano. Si chiamava Gloria. Capelli neri, lisci e spessi, occhi azzurri, jeans stretti, cappotto nero attillato. Gloria, nome azzeccato. Niente gloria per questo soldato. Meglio lavorare che farsela con me. Era il trenta dicembre, mi ubriacai di birrini e shottini di rum a un tavolino del bar, in disparte. I miei amici si risparmiavano per Capodanno e non capivano, io non davo spiegazioni. Ad un certo punto mi misi a sedere a fumare sulle scalette che andavano alla sala giochi, li guardavo parlottare a gruppetti, occupavano tutta la stanza a piano terra. Erano belli. Il giorno dopo ero sconvolto. A me andava benissimo, perché avrei passato un capodanno sobrio, o quasi, smaltendo i postumi e covando il mio malumore, mentre tuto il mondo festeggiava. Non mi dispiaceva come immagine. Qualcuno partì per andare a ballare chissà dove già il tardo pomeriggio. Altri cenavano e passavano la nottata a casa dei miei cugini, che erano nella mia stessa comitiva. A me ballare non interessava, e stare da solo non mi andava, era troppo anche per il preso male che ero, perciò mi aggregai alla cena. Non era male l’ambiente. Luci soffuse, cibo e dolci, vino, spumante, superalcoolici. Io avevo un gran sonno anche se avevo dormito fino alle tre, perché il sonno etilico fa passare la sbornia ma non riposa, anzi, ti svegli stanco. Ero anche in preda a dolori sordi e insistenti, schiena, braccia, fianchi. Sembravo un pugile che era finito al tappeto. Le tempie mi pulsavano. I ragazzi presero a rollare una canna dietro l’altra già all’antipasto. Apparecchiavano e chiacchieravano, io mi ero preso un bicchierone di vino rosso e me ne stavo in un angolo del divano, vicino al camino acceso, ma non troppo, zitto, dolorante e incriccato. Ogni tanto mi stiravo la schiena e scricchiolavo come un mobile vecchio. Bevevo il vino e fumavo le canne che mi arrivavano. Mi rodeva ancora di Gloria, ma stavo bene, in preda a torpore piacevole. C’era una bella atmosfera. Io ero più uno spettatore che un attore, ma il film non mi dispiaceva. Avevano anche stampato un menù, in chiave ironica, che terminava con botti e fischioni tutta la notte. Arrivò mezzanotte e uscimmo tutti in cortile con le bottiglie di spumante e i petardi. I miei cugini abitavano in una casa in campagna, isolata, e potevamo fare il cazzo che ci pareva, nessuno avrebbe rotto i coglioni. I ragazzi avevano un vero arsenale, una roba da professionisti. Dovevano aver svuotato un’armeria. Sembrava la festa del paese. I fuochi d’artificio illuminavano la campagna bianca di brina. Intorno tutto splendeva. Faceva un freddo cane, però buono, pulito. Finimmo i petardi e lo spumante e tornammo dentro. Ci lasciammo alle spalle un nuvolone di zolfo che saliva nel cielo terso, come un demonio. Dentro ci riscaldammo con qualche cicchetto, io ci andavo piano, e tirarono fuori la coca. Presero a stendere piste sul tavolo sgombro, e a giocare a monopoli sbronzi e strafatti. A me i giochi da tavolo non piacevano e la coca neppure, e ero sempre più stanco. Il poco alcol comunque saliva subito per la botta del giorno prima, la scimmia si arrampicava sui postumi e dalle spalle mi premeva sugli occhi. Il fumo che girava era bello scuro e pesante, di quello che quando tiri zampilla una fontanella di tizzoni ardenti, e faceva il suo, alla grande. Morivo dal sonno. A un certo punto mi assopii. Mi svegliò mio cugino scuotendomi per le spalle. Ero l’unico zombie in una stanza di impinzati di coca e cominciavo a sentirmi a disagio. Mio cugino insistette per farmi fare una riga. Io non tiravo mai, ma mi dispiaceva deluderlo, e poi avevo bisogno di svegliarmi. La stese e la tirai su col naso, poi ci abbracciammo scambiandoci gli auguri. La scossa in effetti mi svegliò, ma mi fece salire un mal di testa improvviso, come una frustata. Le tempie ripresero a pulsare. Decisi che era ora di andare. Chiesi un Aulin, salutai tutti e feci a tutti di nuovo gli auguri, mi congedai e li lasciai in preda alle mattane dell’alcool e delle polveri. Arrivai al piazzale dove erano parcheggiate le macchine, tutte coperte di brina gelata. Aprii la mia e accesi il motore. Misi il riscaldamento al massimo e uscii a fumare una sigaretta. L’Aulin stava facendo effetto e il dolore scemava. Vedevo da lontano la casa con le finestre a piano terra illuminate, le voci e le risa arrivavano ovattate, in lontananza. Salii in macchina e accesi lo stereo. Mi ha travolto una valanga, e mi ha ricoperto l’anima, disse Leonard Cohen. Quando non sono il gobbo che vedi, dormo sotto la collina dorata. Quel canadese la sapeva lunga, mi ricordo che pensai, ingranai la marcia e partii. Il ghiaccio sul parabrezza si era sciolto, lo tirai via con un colpo di tergicristallo. Attraversai la campagna che pareva l’interno di un freezer e me ne andai a casa a dormire, un paio d’ore prima dell’alba.

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