Racconto di Francesca Coppola
(Quinta pubblicazione)
Mi accucciai a riva, feci per allungare le scarpe verso l’acqua, poi ci ripensai bruscamente.
Quella sera i ricordi si arrovellavano più delle onde e l’agitazione confondeva ogni decisione. Le mani si misero a rivoltare la sabbia, un gesto che fece riemergere una carta stropicciata. Distrattamente mi misi ad osservarla, il sale aveva sbiadito il colore, il blu era comunque visibile, così come la figura predominante: un leone, il segno zodiacale di mia madre. Mica poi così strano, in fondo avevo sempre creduto che la forza fosse la sua caratteristica fondamentale. Da piccola mi incuteva un certo timore, tanto da decidere di non contraddirla. Avevo accettato per anni decisioni e convinzioni, poi il mondo di mia madre era crollato o io me ne ero accorta solo in quel momento.
Mia madre, da allora non era andata più al mare. Lei aveva pianto? Io non ne conservavo alcun ricordo. Quel giorno mi ripeteva, in maniera cinica, che le era rimasta comunque la parte sinistra del seno. Non ha più comprato un costume. Non ha più messo i piedi in acqua, non si è ricoperta di sabbia, ha scelto di non giocare altre partite a carte sotto l’ombrellone. Nessuna gara a chi strappava più cozze dagli scogli, le alghe non avrebbero più solleticato i suoi talloni.
Ha amato da lontano il mare. Ha preso i macigni dell’insicurezza e ne ha fatto ventaglio.
Ero totalmente impreparata, le madri non lo sono mai, pensavo sbagliando.
Dopo qualche anno arrivò il cuore a farle brutti scherzi ma lì ricordo bene il suo pianto. Mia madre era nel panico, aveva paura di non uscire più da quell’ospedale e quando dopo quattro ore finalmente la vidi sul lettino, solo per essere trasportata dalla sala operatoria a quella intensiva, non potevo immaginare, non potevo sapere nulla di quello che in poche ore era irrimediabilmente cambiato. Se si dovesse dare un senso alla forza potrei descrivere il suo pianto.
Oggi, per me, non era stata una sorpresa, il dottore mi aveva detto che era ereditario.
Undici anni fa mi ero tatuata sul seno destro una fenice. Per non dimenticare. La stessa parte che, proprio in questo pomeriggio, una eco del cazzo voleva portare a picco. Eppure dove era la rinascita? Solo altre prove del fuoco. Avevo imparato a sostare giusto il tempo di allontanarmi, e non dire una parola in più. Tutto inutile, solo lo stretto necessario. Mi muovevo lentamente, eppure non ho mai dimenticato di fare caso ai fiori che nascevano imperterriti ai piedi del marciapiede, anche se al cimitero da mia madre non ci sono mai andata.
Avevo preso l’abitudine di salvare le lumache dall’insalata, fotografavo l’arcobaleno dalla finestra. Sola con me stessa, mi accorgevo di tutto. Pure quella sera il mare mi raccontava un’altra storia. Tolsi le scarpe, lasciai andare le lacrime, schiacciai con tutta la forza i piedi nell’acqua.
Strinsi la carta più forte, appoggiandola al seno.
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