Racconto di Silvana Maroni

(Nona pubblicazione)

 

Carla passava per caso nella vecchia strada, teatro della sua infanzia, al centro di Napoli, in uno dei quartieri eleganti della città. Quel viaggio era stato del tutto improvvisato, non ricordava neanche in che momento e perché l’avesse programmato. Era stato per uno strano impulso. Aveva viaggiato su un treno semideserto accarezzato dalla nebbia all’interno di un paesaggio surreale, ed era giunta rapidamente a destinazione, almeno così le era sembrato. I pochi passeggeri, ben distanziati a causa delle misure di prevenzione sanitaria, sembravano esseri senza volto né voce, ectoplasmi trasparenti messi lì a fare un po’ di coreografia. D’altro canto, l’anziana signora non aveva alcuna voglia di far chiacchiere con degli sconosciuti.

Era una donna appagata: aveva figli grandi, un marito diventato un buon amico ed era appena approdata all’età della pensione, quel terzo atto della vita che molti amici e conoscenti non avevano avuto il privilegio di raggiungere. Aveva vissuto per anni lontana da Napoli, in un piccolo paese dell’entroterra toscano ed ora, ritornava nella sua città natale come turista, anche un pochino spaesata, ma felice e carica di positività. Un pensiero fugace andò alle amiche che erano andate via presto da questo mondo, ma non era un ricordo triste, perché aveva la sensazione di prepararsi ad incontrarle di nuovo. Era diventata saggia.

“Effetti dell’età” pensò.

Il caos gioioso, il vociare, la folla erano sempre uguali, proprio come li ricordava quando, tanti anni prima, trotterellava per quelle strade al seguito della sua mamma e, più tardi, dell’allegra brigata dei suoi amici, compagni delle medie e del liceo: il mitico Papini, che era proprio lì, a pochi passi dalla sua vecchia casa e da quella strada tanto ben frequentata, così si era ripromessa di farci un giro, o meglio, una “vasca”, come si usava dire all’epoca.

A dire il vero la passeggiata, per quanto piacevole, si era rivelata una mezza delusione: la globalizzazione era arrivata in pieno in quelle strade ed i negozi avevano gli stessi nomi e simboli di quelli di tutte le città metropolitane: le grandi “griffe” la facevano da padrone e le vecchie botteghe erano completamente sparite. Le pasticcerie, i forni antichi sostituiti da paninerie dal nome universale. “Arriveranno anche su Marte” pensò.

Giunse ad un angolo di strada, un luogo che avrebbe riconosciuto tra mille. Di fronte ad una grande chiesa dedicata a San Gregorio a cui si accedeva tramite due ampi scaloni, c’era una traversa in lieve discesa, di cui riconobbe anche il lastricato, grigio e lucido, consumato dal tempo. Era la strada della sua vecchia casa. Ci aveva abitato per circa quarant’anni: vi era entrata bambina ed uscita con marito e cinque figli, una piccola tribù, poco prima del trasferimento. Lì erano morti entrambi i suoi genitori, un filo di tristezza le attraversò la mente e un piccolo brivido la scosse, ma fu solo un attimo.

La ricordava per filo e per segno in tutte le sue versioni, dalla più antica che, anzi, come accade alle persone un po’ avanti con l’età, ricordava molto meglio, a quella “moderna”, di soli vent’anni addietro. Fu un momento di grande emozione, rivide la lunga balconata al “primo piano nobile”, oggi ridipinta e adornata di vasi di gerani. Alzando gli occhi si accorse di un soppalco, certamente di nuova fattura, nato probabilmente per sfruttare in modo razionale gli altissimi soffitti. “Uno scempio”, pensò tra sé, dimostrando uno spirito da conservatrice che la ragazza ribelle d’un tempo non avrebbe neanche immaginato lontanamente di possedere.

Mentre si guardava intorno ed elaborava i pensieri, Carla sentì alle sue spalle una voce assolutamente familiare: “Carlaaa, sei tu, non ci posso credere!” esclamò ad alta voce l’amica di sempre, Germana, a dispetto dell’aplomb, che peraltro non aveva mai posseduto ma che ora sarebbe stato consono all’età di entrambe, nonché più adatto in quel contesto chic ed esclusivo. Ma nessuno dei passanti sembrò notare il tono della conversazione, le voci squillanti e la gioia rumorosa di quell’incontro. Era come se si trovassero in un universo parallelo, isolato ma adiacente e compenetrato con la realtà di quei luoghi e di quel tempo.

Carla si voltò riconoscendo immediatamente un elemento fondamentale della colonna sonora della sua adolescenza dorata. Germana non si era mai mossa da lì, continuando ad abitare per cinquant’anni con la vecchia mamma ormai centenaria nella casa di sempre, in una strada nei paraggi, più conservatrice di lei. Stava ancora lì e ci sarebbe rimasta, presumibilmente per sempre. E dire che era proprio Germana la più rivoluzionaria, all’epoca.

Si sedettero ad un tavolino del bar Principessa, all’angolo di via Rodrigo Sanchez, uno dei tanti nomi che riconducevano agli anni della dominazione spagnola. Davanti a due caffè ristretti serviti in esclusive tazzine azzurre e blu su cui troneggiava una P turchese provarono  a raccontarsi cinquant’anni di vita. Erano due vecchie, allegre e appagate signore, ben oltre la mezz’età. Il termine “vecchio” non ha in questo caso un’accezione dispregiativa ma indica proprio la loro essenza: vecchie in quanto antiche, d’altri tempi, di tempi per molti aspetti più “moderni “ di quelli attuali.

Su quel tavolino di un bar elegante, circondate da tanta gente poco genuina, con “la puzza sotto il naso”, tra signore oltremodo  plastificate e “firmate” dalla testa ai piedi, vennero fuori racconti di storie vissute un milione di anni addietro, allegre e tristi come la vita. Si cominciava con un “ Te lo/la ricordi…?” e si snocciolavano sorprendenti vicende, che una delle due amiche aveva appreso

“per puro caso” attraverso racconti, conoscenze oppure i “social”, in cui erano entrambe presenti, almeno come attente spettatrici.

Ai caffè seguirono degli aperitivi, e poi dei toast accompagnati da succo d’arancia, in fondo mangiavano poco, stavano attente ai valori critici del colesterolo e della glicemia: tutto rigorosamente light e senza zucchero. Fatto sta che le ore passarono rapidamente scorrendo veloci come un fiume in piena e dinanzi agli occhi delle due amiche ritrovate sfilarono in sequenza amiche, amici, compagni di scuola, professori, vecchie fiamme dell’una e dell’altra: una carrellata di ricordi condita da briciole di malinconia, rimpianti, ironia, sorrisi. Fu bello. Le due vecchie signore sembravano trasparenti agli occhi dei numerosi avventori del bar, tranne che per una bambina che le fissava ascoltando attentamente i loro discorsi e sorrideva ogni tanto. Era una bimba dall’aspetto familiare, dai lunghi capelli castani e grandi occhi nocciola, da cerbiatta, come quelli di Carla. Sarebbe potuta essere una sua nipote, una parente, lei stessa da bambina. Ci pensava spesso, la riflessiva donna, cosa avrebbe raccontato alla bambina che era stata se l’avesse incontrata, magari in un sogno. Ricordava quanto fosse curiosa, intelligente, piena di aspettative. Pensò che la sua vita non era stata certo fallimentare, ma sicuramente molto diversa da quella che andava fantasticando da piccola. Sorrise, ma sentì salirle un po’ d’amaro in bocca.

Si erano fatte le quattro del pomeriggio quando il discorso cadde su di una comune amica, Celestina e della sua mamma considerata una specie di maga, sicuramente una medium, capace di comunicare con le anime dei defunti. Celestina assisteva spesso alle “performances”della madre ed un fatidico pomeriggio a casa di Carla, spinta dalle due amiche,  decise di provare ad imitarla. Le tre ragazze erano sole nella grande casa al primo piano nobile, e il tavolino era quello che i genitori di Carla usavano per giocare talvolta a carte con gli amici. Fu semplice, pochi passi e lo spirito si rivelò. Negli anni le ragazze si erano convinte di un caso di suggestione collettiva, oppure di uno scherzo di qualcuna delle tre, e poi l’esperienza era stata rapidissima anche se molto coinvolgente. Tanto che Carla, per anni, avrebbe continuato a sognare, e qualche volta anche a intravedere, il fantasma di un bimbo alto e magro, di una decina d’anni, che gli ripeteva di voler giocare con lei. Con i birilli aggiungeva, e diceva che non avrebbe smesso finché non li avesse abbattuti tutti con un sol colpo. Cosa che non successe, almeno non con Carla. E poi si sa, i bambini non vogliono smettere mai di giocare, e quei birilli sarebbero stati colpiti tante e tante volte, ma in nessun caso l’ultima.

Sembrava si chiamasse Cristoforo, nome che Carla giurò di sentire alcune volte ripetuto anche da suo figlio Eduardo, il primogenito, quando era piccolissimo e ancora abitavano in quella casa. Il bambino, come tanti suoi coetanei di pochi anni, affermava di avere un amico in casa e ripeteva qualcosa che suonava come …oforo, roforo. La cosa al momento l’aveva messa un po’ in agitazione ma erano anni in cui bollivano in pentola tanti eventi: lavoro, mondanità, carriera, per cui questi dettagli sembravano sciocchezze infantili. Se ne convinse e decise che si trattava di una forma di autosuggestione, legata allo stress. Ora si trovava lì a riparlarne con l’amica dopo una quarantina d’anni e si sorprese nel ricordarsene ancora. Ne sorrisero, malcelando però la vecchia inquietudine, e per caso a Germana venne in mente una cosa, una delle poche che non si erano dette:

-Lo sai che la casa è in vendita? Sono due anni ormai ma pare che non si trovino acquirenti.-

– Lo immagino, sai che prezzo! Da queste parti sono impazziti.-

-No pare che il prezzo sia abbastanza conveniente, ma ci sono delle difficoltà-

– Difficoltà? Di che tipo?-

– Ma niente, le solite superstizioni! Presenze… pare.-

– Ah, il piccolo Cristoforo non si è ancora arreso?- Sorrise Carla, non mascherando un certo disagio.

 Ma dai, ancora quella vecchia storiella? Eravamo suggestionate e poi Celestina ci giocò un brutto scherzo, proprio per farci spaventare!-

– Sai che ti dico: la casa è affidata da lungo tempo all’agenzia Vendocasa, qui di fronte, io li conosco, ci lavora il figlio di Marianna, te la ricordi? Se siamo fortunate a trovare qualcuno disponibile potrebbero mostrarcela.-

– Oddio no, e perché?- Ribatté Carla, quasi spaventata.

Ma dai perché no? Non lo vuoi completare questo tuffo nel passato? Si tratta di ritornare nella tua vecchia casa, nessuno la conosce meglio di te!-

– Guarda è lui, sta portando delle persone a vedere l’appartamento, accodiamoci, non dirà di no a due vecchie signore!”

Così fu, e le due ritrovate e inseparabili amiche si avviarono rapidamente per le scale del vecchio palazzo, fino ad entrare indisturbate nella casa.

La bambina continuò a guardarle allontanarsi lungo la discesa, sorrise per l’ultima volta e si dileguò tra la folla con la sua mamma, appena uscita da un negozio dove aveva fatto compere, sommersa com’era di pacchi e pacchetti. Accennarono un saluto ed un sorriso.

Carla riconobbe ogni pietra, ogni gradino di quelle scale antiche e si orientò alla perfezione fra le vecchie mura, senza provare un briciolo di disagio.

Si inoltrò nello stretto corridoio, interrotto da nicchie usate come librerie e illuminate da faretti sistemati ad hoc, toccò le mura facendovi aderire strettamente le mani come ad assorbire lo spirito intatto di quei luoghi. Lo ricordava perfettamente: era come una vibrazione intensa, in perfetta sintonia con il suo essere. Nonostante il totale rifacimento cui era stato sottoposto l’appartamento, la donna rivide le vecchie mattonelle rosse, ottagonali, l’alto infisso che apriva su un cavedio buio ed un ripostiglio in cucina ricavato da un vecchio pozzo. Quando era bambina lanciandovi oggetti si poteva ancora sentire il rumore dell’acqua!

No, non era stato un caso, per niente, Carla si trovò talmente a proprio agio che decise rapidamente di restare nello spessore di quel vecchio tufo a giocare a birilli con un amico dei tempi andati.

Nei mesi successivi, ai nuovi acquirenti capitò di sentire rumori di passi, risate e il caracollare dei birilli abbattuti in un sol colpo! Ogni tanto un “pluf”, rumore di qualcosa che cadeva nell’acqua, faceva saltare qualcuno dal letto. Così la casa passò di mano in mano, nessuno riuscì ad abitarvi a lungo e la leggenda continuò: si  parlava di “presenze”così come in tanti dei palazzi antichi della città. In molti ci credevano pur non ammettendolo apertamente, ma erano tanti anche quelli che storcevano il naso ascoltando quei racconti ispirati, ritenevano, a stupide e antichissime superstizioni prive di ogni fondamento.

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