Racconto di Carlo Giarletta
(Quinta pubblicazione)
Bassina, rotondetta, comunicativa con toni ultra squillanti, più ciarlante che semplicemente parlante, Anna Vicinanza era un’indigena del quartiere periferico di P. nella città di S., luogo natale di cui ella esaltava, con orgoglio campanilistico, le bellezze ed i pregi e ometteva bruttezze e difetti. Negli anni ottanta-novanta questa donna, allora quarantenne-cinquantenne, era sposata con Antonio, un piccolo uomo, impiegato statale, modesto, schivo, molto silenzioso, tanto da proferire verbi praticamente pari ad un quarto del continuo favellare, non di rado a raffica, di sua moglie. Il figlio unico dei due, Claudio, studente universitario con buon profitto, ma più portato al nozionismo, e con una tendenza acquisita dalla linea materna ad essere saccente, bilanciava comunque una certa maturità che gli derivava dall’impronta paterna.
Quando usciva di casa, lei, disoccupata a tempo pieno, che si era ritirata dalla scuola senza arrivare al diploma di istruzione secondaria di secondo grado per i suoi complessi ed, in particolare perché si sentiva perseguitata dagli insegnanti, riempiva il suo rione di “buongiorno, signo’ – buongiorno don – buongiorno di qua e di là”. Anna di tanto in tanto la mattina usciva in compagnia del padre don, un altro don, Ernesto, grande dispensatore pure lui di saluti al prossimo conosciuto. Genitore popolano “grossier” manovale ferroviere in pensione, che aveva tipiche espressioni di “raffinatezza”, quando, per esempio dava il suo giudizio/marchio per una persona incapace o debole o tremebondo, facendosi uscire dalla bocca florilegi tipo un “me pare proprio ‘nu cazzo!”. Questo mentre Amelia, madre di Anna, altro “pozzetto di ignoranza”, si cimentava, sempre a titolo di altre esemplificazioni, nel dare spiegazioni come “quell’auto è modello Caviale”, ridisegnando così il reale “modello Vignale”.
La piazzetta, la strada principale e quelle circostanti che rientravano nel percorso dei Vicinanza padre e figlia, per ritornare alla questione di cui sopra, dunque, risuonavano piacevolmente delle loro esternazioni comunicative; difficilmente le persone che rientravano nella loro cerchia e che gli “capitavano a tiro” riuscivano a sfuggire o evitare quei messaggi lanciati a bocca sorridente ed occhi molto aperti. Ciò si esplicava fuori, nell’ambito degli incontri brevi con amici e conoscenti; all’interno delle mura domestiche e non solo, per contro, si generavano altri discorsi, altri scenari. Quando la figlia di Ernesto Vicinanza parlava, intanto e dovunque si trovasse, argomentava, chiacchierava, in più occasioni “a schiovere”, saltando come un canguro da un qualsiasi tema ad un altro, poco o per niente collegato, in maniera disordinata. Faceva una “mmescafrancesca” di parole, poco coerenti e lineari in contesti e situazioni di ogni genere. E per sovrammercato, si disorganizzava pure nella gestione della propria magione, comportandosi più da “casalinga che fa disperare” che da “casalinga disperata”. Le sue risate erano corte, sonore e scattanti, a scoppiettio, provocate e messe in atto da un latente squilibrio nervoso; un abituale o casuale interlocutore le poteva subire e sentire rimbombanti nei timpani.
La donna, per deduzione conclusiva, menava e conduceva la sua esistenza in bilico oltremodo precario sul filo del raziocinio e della logica. E così avvenne che, per una serie di vari motivi accumulati, una cugina di suo cognato trovò un’ispirazione e contrassegnò Anna Vicinanza con l’appellativo-soprannome “ ‘a scumbinata”. Le rimase tale definizione come un chiaro segno identificativo e, si è certi, nell’ambito di chi la conosceva, che risultò quantomeno appropriato.
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