Racconto di Serena Parisi
(Seconda pubblicazione)
Il paesaggio scorreva veloce dal finestrino, Phoebe temeva di non riuscire ad assorbire con gli occhi ogni nuovo dettaglio come avrebbe voluto. Gli alberi, lì sembravano scheletri dalle mille braccia e mille dita rivolte al cielo, come se si fossero fermati all’improvviso mentre eseguivano una danza. I colori morbidi dell’autunno e quelli vivaci delle rare casette si mescolavano col cielo nuvoloso e immobile. Si sarebbe sicuramente pentita se non avesse nemmeno provato a fare qualche foto, anche se la cosa la annoiava mortalmente, non si sarebbe goduta il viaggio come si deve, le sarebbe venuto il mal di mare. Ma tant’è, fu vinta dagli scrupoli della turista, estrasse di mala voglia e con più di una difficoltà il telefono dalla borsa, incastrò un guanto nella chiusura, e da un secondo all’altro le pigliò il malumore.
Passò una giovane addetta a controllare i biglietti.
“Tak!” le disse sorridendo mentre le restituiva il biglietto.
“Thank you” sorrise Phoebe a sua volta. Le piacque che la prima parola che avesse capito in quella lingua fosse ‘grazie’. Guardò le poche fotografie che era riuscita a scattare, naturalmente erano tutte sfocate e cupe, e buttò di nuovo il telefono nella borsa con la ferma intenzione di non servirsene più. L’altoparlante annunciò la prossima stazione. Era la sua.
Scese dal treno, trascinata dalla valigia quasi più pesante di lei. Fu costretta a riprendere in mano il telefono per consultare googlemaps. Attivò la connessione dati. Ovviamente non ci fu nessuna connessione. “Quando imparerai a fare meno la luddista, e a stare al passo con la tecnologia del XXI secolo?” le aveva domandato Andrea un giorno. Eccola la tecnologia del XXI secolo, ti abbandonava quando più ne avevi bisogno. Si ripromise di raccontarlo ad Andrea, così, tanto per rivangare la polemica. Per fortuna si era segnata su un quadernino tutte le indicazioni stradali da seguire, e dopo aver imboccato un paio di strade sbagliate, riuscì a incamminarsi nella direzione giusta, sempre trascinata dalla valigia quasi fosse un enorme cane tenuto al guinzaglio.
Era una piccola città, a Phoebe fece l’impressione di un paesino, anzi, di un villaggio, dalle casette gialle azzurre dai tetti spioventi, fiabesche; l’aria era totalmente nuova e sconosciuta e familiare al tempo stesso. La pensione dove aveva affittato una stanza, la più economica, si trovava fuori dal centro abitato, dovette percorrere un lungo viale in pendio, case da un lato e foresta dall’altro, le une più silenziose dell’altra, anche le rare macchine che passavano sembrava quasi si dovessero muovere da sole, la presenza umana era così discreta da dare l’impressione dell’invisibilità o dell’abbandono. Camminava ormai da mezz’ora, che avesse sbagliato del tutto strada? Avvistò una donna che faceva jogging, si avvicinò, le chiese se la pensione Konventum era nei paraggi. La donna non l’aveva mai sentita nominare, Phoebe continuò a camminare per disperazione. Poi finalmente l’edificio sbucò, più isolato dell’albergo di The Shining.
Quando fu nella sua stanza, la stanchezza l’assalì tutt’a un tratto; lasciò la valigia intatta in un angolo, si tolse solo il cappotto, e, nel tepore del riscaldamento acceso, si appisolò sulle coperte.
Lo squillo del telefono la fece sussultare come un trapano che le stesse per forare il cervello. Phoebe aprì a stento gli occhi e tastò alla cieca sul comodino finché non riuscì a far cessare quel suono diabolico. Era Andrea.
“Pronto?”
“Ti sembra normale farmi stare in pensiero fino a quest’ora? Sei arrivata? Com’è andato il volo? Sei viva?” Fino a quest’ora perché, che ora era? Le undici; il pisolino era durato tre ore, e sarebbe durato più a lungo se si fosse ricordata di spegnere o mettere in modalità silenziosa quell’infausto oggetto.
“Bene, bene, tutto bene. Scusami, contavo di chiamarti appena atterrata ma non ne ho avuto il tempo per paura di perdere il treno, poi l’autobus…”
“Certo, sì, non ti preoccupare.” Odiava dover pensare una stupidaggine così stereotipata, ma quando Andrea si mostrava offeso facendo finta di non esserlo pareva proprio di essere fidanzati con una donna.
“Ci sentiamo domani allora, scusami, sono stanchissima.” Andrea attaccò senza salutare. Phoebe chiamò il numero di casa dei suoi genitori.
“Pronto?” rispose la voce del padre, il che era una cosa rara, perché era più pigro di lei quando si trattava di rispondere al telefono. Phoebe pensò che doveva essere rimasto in piedi aspettando di avere sue notizie.
“Ciao papà, sono io, scusa se vi ho svegliato. Ti volevo dire che sono arrivata, tutto a posto.”
“Hai mangiato?”
“Sì sì, ho mangiato, tutto a posto, non ti preoccupare. Salutami mamma.”
“Va bene, allora ciao.”
“Ciao, papà, buonanotte.”
“Buonanotte.”
Com’era quella citazione da La Luna e i Falò, quella che trovavi ovunque su internet? Ah, sì: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.” Phoebe il gusto di andarsene via non l’aveva nemmeno sentito, che gusto c’è ad andarsene via per tre mesi soli? Non te ne accorgi manco, il tempo di andare e venire e i tre mesi sono già passati. Che tre mesi potessero bastare per la sua ricerca, poi, era ridicolo. Avrebbe preferito rinunciare, se non altro per non perdere tempo su infinite scartoffie burocratiche, dato che il giorno in cui l’università le avrebbe rimborsato le spese apparteneva più alla dimensione mitologica che a quella della realtà. Ma poi decise di andare per consultare quell’archivio. Nello stesso edificio c’era un museo, l’impiegata la invitò a visitarlo.
Ritratti nelle foto e nelle gigantografie erano bambini, donne, uomini, le facce corrugate e precocemente invecchiate, i sorrisi rari e poco curati, gli occhi accesi, vivissimi. Erano facce di operaie e operai, a cui il museo era dedicato. Le facce, pensò Phoebe, di un mondo che non esisteva più, che lei non aveva mai visto ma che le apparteneva profondamente.
“Prova a guardarti attorno. Il personale docente delle università appartiene perlopiù alla classe media, come me e te. Quanti insegnanti o ricercatori che vengono da una famiglia di operai conosci?” Phoebe captò una conversazione in inglese fra due visitatrici all’altro lato della sala. Appizzò le orecchie.
“Forse più di quanto ne sappia, magari non lo dicono apertamente?”
“Questo è un altro punto. L’ambiente non incoraggia a parlarne apertamente. Anzi, non incoraggia a parlarne proprio per niente. Nelle università si è cominciato a parlare, e credo solo a parlare, di combattere discriminazioni di genere, etnia, orientamento sessuale… ma la classe sociale ed economica passa sotto silenzio. Come se non esistesse più ormai. Anzi, se parli di ‘classe’ ti prendono per comunista, ti ridono appresso.” continuò la prima mentre uscivano dalla sala. Phoebe non volle seguirle subito, resistette qualche minuto a gironzolare rileggendo le didascalie degli oggetti in mostra, poi cercò di rintracciarle per continuare ad ascoltare la conversazione, ma non le vide in nessuna delle sale di quel piano, lasciò perdere. L’ultima sala del museo, la più grande, era dedicata alla pittura. Ritratti di tessitrici, metalmeccanici, pescatori, vendemmiatori. Pensò con amara tenerezza che quello era il primo anno in cui avevano abbandonato la vendemmia a casa sua. Era come un rito formale che non si celebrava, perché d’altra parte nessun altro beveva vino se non suo padre, e sempre meno, ma un po’ di vino in casa si doveva tenere, una bottiglia si regala in segno di ringraziamento a qualcuno, un’altra se qualcuno ti viene a trovare all’improvviso e non sai cosa offrire. Per Phoebe era uno di quei momenti che aveva vissuto a metà, verso cui provava una nostalgia crescente pur quando se ne allontanava di sua volontà. Mentre raccoglieva l’uva, parte del cervello le diceva di far presto perché a casa l’aspettavano i compiti, poi gli esami che si avvicinavano, poi la tesi e gli articoli da finire… un piede dentro e l’altro fuori da quel mondo che sopravviveva in piccoli residui sparsi: il profumo denso del mosto che saliva dalla cantina, il tintinnio del torchio mentre si spremevano le vinacce. L’ultimo quadro nella sala si intitolava Il Disoccupato, Phoebe ebbe premura che la foto riuscisse bene, perché, si disse con amara ironia, nel film della sua vita,quella era una prolessi dell’immediato futuro.
Si era fatto mezzogiorno e le stava già venendo appetito. Prima di rinchiudersi nella biblioteca dell’archivio decise di vedere se il bar lì sotto aveva qualcosa di commestibile. Prima ancora volle togliersi il pensiero delle telefonate semi-quotidiane.
“Pronto, ma’, sono io. Come stai?”
“Bene, sto cucinando.” A Phoebe venne sotto il naso il profumo del sugo che borbottava sul gas nella cucina di casa. A lei, se le andava bene, toccava un panino con prosciutto e formaggio. Impallidì dal languore.
“Tu come stai?”
“Sto bene sto bene. E papà come sta?”
“Sta qua… Hai mangiato?”
“Sto per mangiare pure io, poi vado a studiare in biblioteca.”
“Bene, quello è il tuo lavoro. Mi raccomando.”
“Non ti preoccupare. Ci sentiamo. Buon appetito allora. Salutami papà.”
“Ti saluta pure lui. Buon appetito e buon lavoro. Ciao.”
“Ciao.”
“Pronto, Andrea, come stai?”
“Insomma…”
“E’ successo qualcosa?”
“Sono stanco, lavoro tutto il giorno, ho a malapena il tempo di riposarmi che già devo riprendere a lavorare daccapo…” Phoebe non sapeva che rispondere quando Andrea si lamentava, qualsiasi risposta poteva essere usata contro di lei, soprattutto quelle più sincere.
“Mi dispiace…”
“E poi mi manchi terribilmente.” Qui la risposta era da copione: ‘Anche tu mi manchi.’ Ma Phoebe restò a pensarci. Andrea le mancava terribilmente? Alla fine era passato a malapena un mese… Per fortuna lui non aspettò che rispondesse.
“E se venissi a trovarti?”
Phoebe impietrì.
“Oh, sarebbe bellissimo… ma come faresti poi col lavoro?”
“Ah, già… dovrei chiedere un permesso o prendere dei giorni di malattia…”
Phoebe, da carogna, sapeva che l’entusiasmo di Andrea si smontava di fronte alla prima difficoltà.
“Non vorrei che per causa mia ti venissi a trovare in qualche guaio col tuo capo… meglio aspettare che passino questi giorni così indaffarati e chiedere un permesso quando c’è meno da fare, no?”
“Forse hai ragione…”
Phoebe respirò di nuovo.
Quando tornò al suo banchetto vide che c’era qualcuno seduto nella sala consultazione, si vennero a trovare faccia a faccia. Per la prima volta l’isolamento in cui era confinata la sua ricerca veniva interrotto. Di sottecchi scrutò il viso dell’altra, le sembrava di averla già incontrata da qualche parte… sì, era una delle due visitatrici di cui aveva colto parte della conversazione, quel giorno al museo. Elena, così si chiamava, era argentina. Aveva insegnato all’università per cinque anni, dopodiché non le avevano rinnovato più il contratto e si era trovata a essere scaricata così, come un sacco di patate, da un giorno all’altro. Ora aveva vinto una nuova borsa di studio e aveva ripreso la ricerca, ma insegnare le mancava moltissimo. Phoebe disse che ricordava di averla incrociata al museo il primo giorno in cui l’aveva visitato. Non disse che aveva pure origliato la conversazione con la sua compagna e che aveva cercato di seguirle, altrimenti l’avrebbe presa per una stalker. Ma quell’argomento le interessava parecchio e cercò di riprendere il discorso.
“Anche tu ti occupi del movimento operaio?”
“No, mi occupo della storia dell’immigrazione. Anche perché è un argomento che mi coinvolge di persona. Mio nonno emigrò in Argentina dall’Italia, e io, come vedi, dall’Argentina sono arrivata qui.”
“Già.” sorrise Phoebe. Non riuscì a riportare la conversazione sull’argomento che le stava a cuore, fu come inibita nonostante sentisse di poter parlare completamente a suo agio con Elena.
Così, come aveva previsto, venne la sera del giorno prima della partenza senza che la tesi fosse avanzata di molto, con la borsa di studio che si era quasi del tutto prosciugata e il rapporto con Andrea definitivamente inaridito. Ma Phoebe uscì dalla biblioteca e si incamminò tranquilla con Elena, entrambe trascinando lentamente le biciclette tra le stradine strette e silenziose, mentre qualche serranda già si abbassava e la gente di ritorno dal lavoro si radunava nei pub. Anche Phoebe ed Elena rimasero per un po’ a bere e chiacchierare, poi Elena volle accompagnarla alla pensione, si avviarono con le ultime birre in mano. Il sole tramontava prestissimo, erano le otto e la luna era spuntata già da un pezzo. A metà del pendio che portava fuori dal centro abitato, svoltarono verso il parco forestale. Oltre la recinzione, la collina si apriva su uno spicchio di mare, non visibile dal parco perché nascosto dagli alberi. Com’era diventata loro abitudine, anche quella sera si distesero sulla terra morbida e tiepida, non scalfita dal vento.
“Questo mare ha un profumo tutto diverso. Da noi l’odore di salsedine si insinua nelle narici, sulla bocca, negli occhi, anche se sei distante e non lo vedi, ti ubriaca come il vino. Questo mare è più discreto, è ovunque ti giri ma non si impone, sei tu che devi cercarlo.” disse a un tratto Phoebe.
“Io l’odore del mare della mia città non me lo ricordo più.” sospirò Elena.
Il vento stracciava le nuvole come fossero lenzuola, anche il mare si fece più movimentato e le onde si dipinsero di inquieti raggi blu argento. Era la luna che sbucava da uno squarcio fra le nuvole-lenzuola. A Phoebe venne in mente lo “strappo nel cielo di carta” di Pirandello, quello che segna la fine delle certezze, che trasforma la tragedia d’Oreste nella tragedia d’Amleto.
“Scusa se sono indiscreta… hai deciso quando parlerai ad Andrea?” chiese in un soffio Elena.
“No, non ho deciso niente… Non sei indiscreta, figurati. Non so che dirgli, in realtà non ho niente da dirgli… Non so com’è che non l’amo più.”
Davanti alla pensione, Elena l’abbracciò all’improvviso, si salutarono con un sorriso dolce e triste insieme, senza dire una parola. Appena entrò nella sua stanza, Phoebe trovò una chiamata persa di sua sorella. L’avrebbe richiamata il giorno dopo alla stazione, ora si era fatto tardi e non voleva svegliarla.
“Mi avevi cercato ieri sera? Come va?”
“Sì, ti avevo cercato. Vedi che papà ha avuto un’altra crisi epilettica. Sta in ospedale.”
Le cadde un macigno sul petto che le impedì di respirare.
“E come sta ora?”
“Hanno fatto la tac e la macchia si è ingrandita, lo vogliono operare.”
“Quando?”
“Che ne so, quando. Quando si libera la lista d’attesa. Altrimenti bisogna rivolgersi al privato.”
Fece fatica a posare il telefono nella custodia, non aprì bene la borsa e invece di farlo scivolare dentro, lo fece cadere sulla banchina, la sua confusione e collera aumentarono, arrossì e si chinò a riprenderlo con le mani tremolanti e il cuore che batteva all’impazzata. Le gambe si erano fatte molli, c’era un cazzo di posto in cui ci si poteva sedere in quella maledetta stazione? Si trascinò verso l’uscita, mancavano tre quarti d’ora alla partenza, il treno per l’aeroporto non era ancora sui binari. Entrò in un negozio di abbigliamento, gironzolò finché poté, poi si decise a prendere una felpa. Uscì. Un groviglio di pensieri le si accalcava in testa. Mise la valigia su un gradino e si sedette al lato, con una mano teneva stretta la valigia, con l’altra la busta della felpa. Respirare le costava fatica, doveva sforzarsi di tirare l’aria dentro, invece del fiato sembrava dovesse sollevare un secchio troppo pieno da un pozzo. Poi il groppo che la soffocava si sciolse e Phoebe pianse in silenzio, immobile come in un fermo immagine.
Per tutta la durata del viaggio pensò che non aveva provato il gusto di andarsene via e nemmeno quello di ritornare; anzi, non se n’era mai andata, né per tre mesi né per un giorno. Era rimasta così, un piede dentro e l’altro fuori, come sempre. Era sul treno, sull’aereo, ed era accanto al letto del padre in ospedale, accanto alle piante accanto alla terra, che aspettavano e non dimenticavano nessuno, pazienti.
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