Racconto di Silvio Fazio

(Settima pubblicazione)

 

Con un tono sempre affettuoso, ma da ultimatum, sua figlia gli aveva detto: “Papà, vedi questa volta di fartela andare bene. Non so più dove trovare un’altra donna che soddisfi le tue esigenze. Per la prima ti lamentavi che non parlava in italiano e mangiava tanto, un’altra era sporca e faceva cattivo odore, l’ultima cucinava malissimo e beveva di nascosto. La donna perfetta per te non esiste e poi credo che tu non voglia nessuno. Pensi di essere autonomo e per certe cose lo sei, ma lasci i fornelli accesi e dimentichi l’acqua aperta che scorre e allaga tutto. Non posso lasciarti solo, fammi stare tranquilla, ti prego. Mi sono rivolta ad una nuova agenzia, sembrano proprio specializzati e dicono di avere solo personale altamente qualificato. La signora arriverà già domani”.

Certo, sua figlia aveva ragione, qualche guaio l’aveva combinato, ma erano piccole cose alle quali, per fortuna, si era rimediato. Il vero problema era che lui non poteva accettare questo stato di cose. Fino a poco tempo prima la lettura, la musica, anche il dipingere, seppure con mano sempre meno ferma, lo avevano accompagnato durante la giornata, ma ora erano molte le cose che non riusciva più a fare. La stanchezza dovuta all’età e qualche problemino al cuore l’avevano costretto a fare sempre meno. Anche gli occhi gli si affaticavano e gli impedivano di leggere e dipingere quanto avrebbe voluto. Le occasioni per le quali si vedeva con gli amici, solo per due chiacchiere e un caffè, si erano diradate. Era pur vero che i progressi della tecnologia potevano aiutarlo. Le possibilità di socializzazione e condivisione a distanza si erano evolute enormemente: attraverso lo schermo del computer o della televisione tutto il mondo entrava in ogni casa. Lui aveva sempre diffidato di queste applicazioni, preferiva il contatto diretto, il viaggio vero, scrivere una lettera con la penna stilografica e attaccare un francobollo piuttosto che digitare su una tastiera e premere “invio”. Lo pervadeva una sensazione mista di rabbia, malinconia, impotenza e nostalgia perché aveva ancora grandissima la voglia di condividere, di raccontare e ascoltare, ma era sempre più difficile uscire, incontrare persone, amici. Sua figlia veniva spesso a trovarlo, ma aveva la propria vita, la propria famiglia.

La nuova badante si chiamava Vera. Con lei il suo atteggiamento iniziale era stato quello di sempre, usato con tutte le precedenti: stava in silenzio, brontolava, non mangiava, era irascibile, nervoso, burbero e scostante. Non gli andava mai bene niente. Le reazioni di Vera però erano state per lui una sorpresa. Vera era sempre gentile, sempre con il sorriso, non si offendeva mai, la sua disponibilità era infinita e la pazienza sembrava la sua dote principale. Vestiva sempre in modo semplice e curato, i capelli sempre a posto, poco trucco. La sua presenza si avvertiva appena, per nulla invadente, non occupava mai posto a tavola con lui, era discreta e silenziosa. Inoltre, cucinava bene, sapeva indovinare i suoi piatti preferiti e profumava sempre di un misto di primavera e spezie orientali.

Umberto, così si chiamava l’anziano professore, dopo un po’ di tempo si rassegnò a non trovare nulla da ridire: voleva accontentare sua figlia alla quale voleva molto bene e che spesso veniva a trovarlo per informarsi su come andassero le cose. Ma il carattere è il carattere e così sottopose Vera ad altro tipo di esami.

Cominciò a chiederle di leggere per lui. Così, come un rito. Ogni pomeriggio nel salotto bello, Vera aveva il permesso di sedersi accanto a lui e leggeva fino al tramonto. Inizialmente era lui che le indicava i libri da leggere, scegliendo maliziosamente saggi di letteratura anziché romanzi, per metterla in difficoltà. Poi passò alla filosofia, alla storia, alla poesia, brani con problemi di comprensione, pronuncia che richiedevano sempre più cultura e intelligenza. Vera superava facilmente tutti gli esami, non si scomponeva mai, non si perdeva nelle frasi particolarmente contorte e nemmeno nei nomi difficili dei personaggi, anzi: dopo un po’ cominciò lei a proporre titoli attinenti a quello appena letto o scritti dello stesso autore. A volte era lei, di ritorno dalle commissioni, a portargli nuovi libri che Umberto non sempre conosceva.

Il vecchio professore era stupito, piacevolmente stupito, e non riusciva a rendersi conto come quella badante dell’est o di qualche altra parte del mondo potesse, ignorante come pensava che fosse, riuscire non solo a disquisire con lui sui contenuti dei libri, ma anche a trattare i temi che questi proponevano come riflessione. Sì, perché dalla semplice lettura si era passati a scambiare commenti, giudizi, impressioni, alla scelta di qualche brano di musica adatto all’atmosfera del libro.

Vera chiedeva dei suoi quadri, dimostrava una competenza approfondita anche nella musica, un gusto speciale e soprattutto una memoria eccezionale: a volte Umberto aveva infatti l’impressione che proseguisse nella lettura senza sfogliare la pagina o che continuasse a leggere anche se le ombre della sera erano calate da qualche tempo nella stanza. Inoltre, Umberto non riusciva ad accettare che ora le sue giornate fossero scandite dai momenti di relazione con Vera: dall’ora di colazione, al pranzo, alla lettura, alla buonanotte prima di dormire, alla somministrazione delle pillole, al suo sorriso e al suo profumo.

No, non era innamorato, non può innamorarsi un vecchietto di quell’età, ma stare con Vera gli donava benessere, pace, bellezza, emozione. Riusciva a nasconderlo, certo, ma la cosa si faceva sempre più difficile. Anche Vera, con lo scorrere del tempo, aveva avvertito qualcosa che non aveva mai provato nelle precedenti esperienze. Conosceva già tutti i libri che Umberto aveva voluto che leggesse per lui e anche molti, molti di più, ma era successo che, addentrandosi nei commenti e nell’affrontare poi i temi più generali, le apparisse il vero significato dei racconti, i mondi che sottintendevano, i sentimenti e i pensieri che ne erano stati l’ispirazione e la genesi. Era cambiato anche il suo modo di approcciarsi a Umberto: all’inizio era per lei solo un essere da accudire e da curare, ma poi era diventato un soggetto più complesso, ricco di sentimenti, di saggezza, umanità, a volte un maestro da seguire per imparare i significati profondi della vita. Sempre di più riusciva a cogliere dalle espressioni del viso, dal corrucciarsi o illuminarsi degli occhi, dal tono della voce quello che al professore piacesse o disdegnasse. La cosa più bella era che era riuscita a fargli riprendere in mano se non i colori, almeno le matite colorate.

Umberto si era aperto a lei e aveva ultimamente accantonato la lettura dei libri per raccontarle qualcosa della propria vita, alcuni ricordi, qualche suo pensiero. Si era lasciato andare a qualche confidenza e nelle loro conversazioni, sempre più spesso, era nato il sorriso, l’ironia, la complicità.

Questo pomeriggio, seduti nel salotto, Umberto ha finalmente libera l’anima da rancori e tristezze. È contento del suo presente. Guarda il suo passato solo con serenità e racconta alcuni dei momenti più belli vissuti e, parlando, scopre anche nuovi aspetti di sé stesso che aveva dimenticato. È commosso, a volte la voce s’inceppa, poi si ferma del tutto.

È scesa intanto la sera, Vera si alza dal divano per accendere la lampada. “No, le dice Umberto, aspetta.”

La luce della lampada Tiffany illumina il volto del professore. Qualche lacrima è scesa dai suoi occhi, alcune sono state trattenute dalle pieghe del suo viso e le sue mani cercano ora frettolosamente di asciugarle, di nasconderle. Vera lo sorprende imbarazzato, confuso e allora sente l’impulso di fare una cosa che non avrebbe mai concepito di fare: si alza, gli si avvicina e con una carezza gli asciuga le lacrime, ripete la carezza sulla fronte e sui capelli, ritorna a carezzargli il viso, ancora, in silenzio, lentamente. Poi torna a sedersi. Si guardano, sembrano una fotografia, un fermo immagine di un film. L’unico rumore è quello che viene dalla strada.

Anche Vera percepisce una strana cosa scendere sul proprio viso. Si alza lentamente, va nella sua stanza. C’è qualcosa che lei non riesce a capire, qualcosa di mai provato, una stretta alla gola, una forza dentro che sembra voler esplodere e che le ha bagnato gli occhi. Forse qualcosa non funziona. Va davanti allo specchio, si guarda attentamente. Poi, con gesti precisi, toglie la preziosa parrucca, porta le mani dietro la nuca, spinge due punti con le dita. La sua testa si apre in due parti con un movimento lento e preciso.

Vera guarda e analizza i suoi circuiti, i chips, i microprocessori, le sinapsi artificiali che compongono il suo cervello e controllano il suo corpo, anch’esso artificiale. Con mosse esperte, lancia alcuni sistemi di autodiagnosi. Sembra tutto a posto, tutto uguale a prima. Sa di essere un esperimento e conosce perfettamente tutte le sue funzioni. Ma allora, perché non sapeva di poter piangere, anzi, di poter provare il bisogno di piangere?