Racconto di Maria Grazia Nieli
(Prima pubblicazione – 20 gennaio 2019)
L’arancia, la regina degli agrumi. Carnosa, profumata, succosa. Mentre la sbucciava, Lucia, respirava l’aroma sprigionato ad ogni strappo di buccia che le stuzzicava le narici. Ogni cosa intorno cambiava sapore. Le piaceva spicchiarla e succhiare la linfa di ogni singolo spicchio. Aveva quasi sviluppato una dipendenza verso questo agrume, come gli uomini per il vino o le belle donne. Se avesse potuto ne avrebbe riempito un tino e ci avrebbe passato l’intera giornata dentro, un po’ come la fissa che ha caratterizzato Cleopatra con i suoi bagni di latte d’asina. “Mi scorre succo d’arancia nelle vene” ripeteva a chiunque la incontrava per strada con un tarocco o una sanguinella tra le mani e un romanzo sottobraccio. Si perdeva tra quelle pagine che raccontavano l’amore e lo faceva di nascosto perché le era proibito leggere quelle fesserie che le confondevano la mente, così diceva sua madre. Ma a lei non importava, come pure a Nensi, la sua amica vicina di terrazzo. Era proprio lei la spacciatrice di romanzi del quartiere. Era l’unica a poterseli permettere e ogni mese gliene passava sempre uno ben nascosto nel cesto delle uova. E puntualmente, ogni mese, Lucia ritirava quel cesto, prelevava la merce e correva a nasconderla sotto il materasso. D’estate leggeva sotto il letto, in primavera e d’autunno in terrazzo tra una ripiegata e l’altra di panni; d’inverno, si nascondeva sotto le coperte ma con le orecchie sempre alla porta, pronta a nascondere il libro dentro la federa del cuscino o tra la rete e il materasso. Tra una lettura e l’altra Lucia cresceva.
Primavera inoltrata. Il sole batteva caldo e prepotente sulle tende ondeggianti ricamate a mano minuziosamente. Come ogni mattina, Lucia ritirava i panni stesi ad asciugare al vento e fantasticava su come sarebbe stata la sua vita, quali sorprese le avrebbe riservato e quali delusioni non le avrebbe risparmiato. Era il giorno del suo sedicesimo compleanno e in cuor suo sapeva bene che qualche pretendente si sarebbe fatto avanti per chiedere la sua mano. Molte sue vicine erano già state sistemate con qualche giovane di buon patito. Mentre rifletteva su questa possibilità fissava la sua mano sinistra e d’impeto la scrollò emettendo un gemito di disgusto strofinandola sul grembiule candido che le cingeva i fianchi dall’alba al tramonto e che le conferiva un vitino invidiabile. Era proprio bella Lucì (così la chiamavano affettuosamente). Di una bellezza che lasciava senza parole. Era l’incarnazione del Mediterraneo. I suoi ricci ribelli color ambra facevano da contorno a due grandi occhi blu, labbra vellutate come la pesca e un incarnato dorato. In molti desideravano cingere quei fianchi ma nessuno, fino ad allora, le si era mai avvicinato. Nino e Beppe, i suoi due fratelli, la seguivano dovunque andasse, accompagnandola al mercato o a fare il bucato. Proprio per questo l’idea di doversi sposare non aveva mai attecchito nella sua mente anche se, suo malgrado, il destinato era stato pianificato il giorno in cui era venuta al mondo. Ma lì, su quel terrazzo, era libera di essere se stessa. Libera da quelle assurde consuetudini e divieti. Poteva leggere, pensare, fantasticare e perfino danzare. Apriva le braccia e cominciava a girare su se stessa, vorticosamente, sempre più veloce. Adorava lasciarsi accarezzare dal vento, lo scirocco. Il tepore le sfiorava le
guance, le braccia, le caviglie. Ondeggiava le mani cavalcandone il soffio. Si lasciava guidare ora verso destra, ora verso sinistra. Chiudeva gli occhi e si abbandonava.
“Lucì?” urlava sua madre dal piano di sotto. Finiva sempre così.
“Arrivo…” rispondeva scocciata abbassando le braccia. Prendeva la cesta di vimini, la metteva sottobraccio poggiandola su un fianco e ritornava ai suoi doveri. Ma questa volta la cesta le scivolò e nel tentativo di riprenderla, per non sporcare i panni bianchi, tra un lenzuolo e un altro che svolazzavano vorticosamente intravide qualcuno che la guardava. Ne afferrò un lembo per bloccarlo e vedere chi fosse. Sentì il cuore scoppiarle dentro il petto, una sensazione così estranea a lei che la turbò e non poco. Le guance divennero di porpora e indietreggiò per nascondere l’evidente imbarazzo. Non capiva cosa le stava accadendo. Non era paura, di questo ne era certa. L’aveva sperimentata molteplici volte da bambina, rannicchiata sotto il letto per sfuggire alle mani di mamma, furiosa per la cena bruciata o per qualche macchia ostinata ancora presente sui panni puliti. Non era neanche gioia perché la viveva ogni volta che cominciava la lettura di un libro o quando scrutando nella cesta delle uova, intravedeva un nuovo titolo. E allora “cosa può essere” si chiedeva cercando una risposta. Ma la curiosità è donna e tornò a sbirciare tra le lenzuola bianche.
Totò era ancora lì, poggiato ad un ulivo con le mani in tasca. Il vento ne turbava tanto le fronde quanto la sua bruna chioma, scostandogli le lunghe ciocche adagiate sulla nuca. Le sorrise e facendole un cenno con la testa si allontanò ma voltandosi, di tanto in tanto, per assicurarsi che lo stesse seguendo con lo sguardo. Ed era proprio quello che stava facendo mentre il vento si alzava portandosi dietro l’odore del mare di cui la sua pelle profumava.
“S’è fatto proprio bello Totò, vero Lucì?” intervenne Nensi dal balcone accanto.
Non rispose, sorrise e continuò a piegare i panni. Ma non le si poteva dare contro, Totò era proprio bello assai. Lo guardavano tutte giù al porto mentre sistemava le reti a piedi scalzi e in canottiera in mezzo al mare spumoso. I capelli neri lunghi, scuri e dritti come ricci di mare, intrappolati con un laccio, facevano risaltare i suoi occhi verdi e la sua pelle scura imbrunita dalle lunghe ore esposto al sole cocente. E pensare che da bambini erano come il gatto col cane. Lui non faceva altro che farla piangere e strillare ma si ricredette quella volta che Lucia per vendicarsi dell’ennesimo dispetto gli lanciò un limone colpendolo dritto sul naso. Un timido sorriso le affiorò sul viso e
pian piano, accompagnata da quel ricordo, il cuore tornò al suo battito regolare e le guance si spensero. Le campane suonarono. Erano le dodici, meglio rincasare.
Quella visita divenne quotidiana e Lucia scoprì che in uno sguardo e in un sorriso si celavano migliaia di parole che non potevano essere dette per pudore e rispetto ma che se sapute decodificare gonfiavano il cuore. Quanto avrebbe voluto sentirsele dire. Rimaneva sveglia fino a tarda sera fantasticandoci su, con l’aiuto della flebile fiamma del lume che rendeva vive le storie narrate tra quelle pagine sfogliate di nascosto.
Le ore passavano e il vento era sempre più opprimente. Ma quelle visite, divenute ormai una costante nelle loro giornate, spianarono la strada verso qualcosa che l’avrebbe potuto renderla felice o ferirla senza rimedio.
Primavera inoltrata. Il sole batteva caldo e prepotente sulle tende ondeggianti ricamate a mano minuziosamente. Come ogni mattina, Lucia ritirava i panni stesi ad asciugare al vento e fantasticava su come sarebbe stata la sua vita, quali altre sorprese le avrebbe riservato e quali delusioni non le avrebbe risparmiato. Era il giorno del suo diciassettesimo compleanno e Totò non era lì. Non era mai mancato ad un incontro neanche quella volta che piovve come mai aveva fatto prima. La pioggia scrosciante non cessò per due giorni interi. Ma lui era sempre lì, dietro i vetri rigati dalla pioggia, zuppo come un pulcino. La vide e, come sempre, le sorrise nascondendo le labbra tremanti dal freddo mentre le ciocche umide dei capelli, appiccicate alla nuca, gli gocciolavano sulle spalle. Avvolse le lenzuola, li tuffò nella cesta e scese di corsa le scale.
“Vado a prendere l’acqua” urlò a sua madre afferrando velocemente un secchio.
Le strade sterrate d’estate erano un ammasso di polvere bianca che annebbiava la vista e seccava la gola. Affaticata, con le braccia tremanti, Lucia camminava lungo il margine del sentiero con il pesante secchio colmo d’acqua sperando di incontrarlo di ritorno dal porto. Il sole era davvero insopportabile e rendeva difficile persino tenere gli occhi aperti.
“T’aiuto” disse sbucando all’improvviso.
Non aprì bocca. Si fissarono senza muoversi come la preda e il suo cacciatore. La calura si faceva sempre più intensa. Era un crescendo. Il sudore le imperlava la fronte e le scendeva lentamente lungo la nuca sfiorata da qualche riccio, sfuggito alla pettinessa,e mosso dal vento. Seguì attentamente quel percorso mentre le si avvicinava. A pochi passi da lei si fermò e si guardò attorno. Oltre le file dei fichi d’india che splendevano sotto il sole come punta spilli verde smeraldo c’era un limoneto. Gli corse incontro e ritornò con un grosso limone tra le mani. La sete l’assalì prepotente alla vista dell’agrume. Totò prese il coltello dalla tasca posteriore dei pantaloni, lo aprì e strofinò la lama lungo i pantaloni prima di tagliarne una fetta. Gliela porse. Poggiò il secchio e si asciugò la fronte con il braccio. Poi afferrò quella fetta e delicatamente la portò alla bocca stringendola tra le labbra e la succhiò. Continuarono a guardarsi, l’uno di fronte all’altra, per qualche minuto ancora. “Grazie” rispose con una timida voce e riprese il secchio riprendendo la strada verso casa.
Comprese cos’era quella strana sensazione che la rapiva ogni volta che incrociava quegli occhi. Ormai gli era prigioniera. Ad ogni passo ripensava a quell’incontro mentre nella mano destra stringeva ciò che rimaneva di quella fetta di limone, galeotto di quell’amore.
Quasi davanti casa sentì delle forti risa intrise vino e tabacco. Un connubio che non portava nulla di buono. Tirò un sospiro, poggiò il secchio e scostò la tenda che ostruiva la porta. Neanche si accorsero che fosse tornata tanto era il vino che avevano tracannato. Tirò dritto per andare in
terrazzo ma suo padre la bloccò prontamente.
“Lucì vieni, figlia mia” le ordinò. Non poteva rifiutarsi e si voltò. C’era un giovane che non conosceva. Suo padre gli poggiò una mano sulla spalla e lo guardò con aria soddisfatta.
All’improvviso realizzò tutto e si sentì venduta al migliore offerente. “Auguri Lucì!” aggiunse il giovane acquirente felice di aver concluso l’affare.
Era questo il destino delle giovani figlie femmine: andare in spose a chi ostentasse più dote. C’erano passate tutte nel quartiere ed era toccato anche lei. Era il giorno del suo compleanno e suo padre, premuroso, le aveva fatto un orribile regalo.
Il silenzio scese come un velo nero coprendo ogni cose, anche il suo cuore. Dentro si ribellava con tutta se stessa, come il mare d’inverno, tumultuoso che sbatte sugli scogli, ma non disse nulla, non poteva, non osava. Lasciò cadere il secchio inondando tutto il pavimento e avrebbe voluto tanto urlare e piangere ma scappò via. Corse, veloce, e non si accorse di Totò che la chiamava per capire cosa fosse accaduto. Le risa che provenivano da casa di Lucia e quella reazione gli chiarirono ogni dubbio. Stava per chiedere la sua mano. La seguì lungo il sentiero che portava alla collina con il cuore frantumato. La raggiunse e ansimante le si parò davanti. Una lacrima scendeva rigandole il viso e quegli occhi rossi sembravano rimproverarlo di aver atteso troppo tempo per farsi avanti mentre i suoi le imploravano perdono. Non avevano più nulla da perdere ma si volevano bene.
Lucia alzò la mano destra e con dolcezza cominciò ad accarezzargli il volto. Ne seguì i contorni e la barba incolta le solleticava le dita. Gli sciolse i capelli e li annusò. Sapevano di sale. Poi passò alle labbra ripercorrendole con i polpastrelli quasi come a voler imprimere quell’immagine nella sua mente. Allora lui le cinse i fianchi, tondi e fragili come una giara di terracotta tra le mani del suo scultore. Si avvicinò lentamente e stettero vicini, naso contro naso, sfiorandosi le labbra e respirando ognuno il respiro dell’altro. Si accarezzavano ora ad occhi aperti ora ad occhi chiusi.
Fotografavano ogni singola parte del loro corpo con la mete. Poi le prese le mani e le strofinò al suo naso respirando il suo odore. La sua pelle era liscia e odorava di agrumi. Incuranti di tutto ciò che gli stava intorno poggiò le labbra alle sue, soffici come la panna, e si baciarono assaporandosi mentre dagli occhi chiusi sgorgavano altre lacrime. Il torrido scirocco li avvolse come un manto protettivo. Non era necessario parlare e nessuna parola era in grado di lenire la ferita che gli era stata inferta. Rimasero così fino all’imbrunire.
Primavera inoltrata. Il sole batteva caldo e prepotente sulle tende ondeggianti ricamate a mano minuziosamente. Come ogni mattina Lucia ritirava i panni stesi ad asciugare al vento e ripensava a quanto felice sarebbe potuta essere la sua vita. A quali sorprese ancora le avrebbe riservato e quali delusioni non le avrebbe risparmiato. Era il giorno del suo diciottesimo compleanno e camminando tra le lenzuola cullate dal vento sperava di intravedere quegli occhi, mentre un tenero pancino faceva capolino da quel candido grembiule che le cingeva i fianchi.
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