Racconto di Angela Maria Diano

(Terza pubblicazione)

 

 

Questa giornata non promette niente di buono, non solo per le nuvole che si addensano in un cielo di marzo sempre più cupo, come il mio umore, ma anche per la telefonata che sconvolge tutti i programmi.

Mi guardo attorno sperando di trovare Mirella o Roberto Gallo così da avvisarli che sarei mancata qualche ora ma le scrivanie sono vuote, saranno usciti per pranzare.  Si chiederanno dove sono ma non importa, quando rientro saprò spiegare. Prendo il cappotto e la borsa e chiudo la porta. “Studio legale Gangemi e Rende”, la targa dorata spicca sul portone di legno scuro in uno dei palazzi più antichi della città.

Non so neanche io perché ho accettato di vederla. Proprio ora che ho tante cose da fare! C’è una causa importante, con tanti documenti da esaminare e tra un’ora devo prendere Davide all’asilo. Sospiro pensando che le ore non sono abbastanza per fare tutto e mi riprometto che sarà un incontro breve, tanto so già che cosa vuole quando mi chiama. Sta iniziando a piovere e mi toccherà correre perché ho lasciato l’ombrello allo studio. Mentre affondo gli stivali nelle pozzanghere, vedo moltiplicarsi, sull’avorio del cappotto di cachemire, una miriade di macchioline scure. Maledizione!

Finalmente arrivo sotto i portici e una vetrina mi restituisce l’immagine di una donna con una coda di cavallo e una ruga verticale sulle guance che tradisce la contrarietà per quell’incontro non programmato. Solitamente ci incontravamo al bar “Virgilio” perché lei va matta per i torciglioni alla crema. Li divorava tra una richiesta di soldi e una risata nervosa, mentre io le allungavo qualche banconota ascoltando le sue bugie, fingendo un interesse che non provavo da cui derivava un senso di colpa che non mi abbandona mai.

Adesso è là, magrissima, con uno zaino militare sulle spalle e i pantaloni larghi che sfiorano il selciato. Si stringe un giubbotto che mi sembra troppo leggero per le temperature del periodo.

Mi viene incontro con una faccia strana, come se avesse ricevuto un castigo per una marachella, gli occhi bassi e la bocca serrata. Le dò un bacio veloce. Non siamo mai riuscite ad abbracciarci veramente, neanche da bambine. Come un gattino cercava carezze ma io la consideravo una piccola rompiscatole e la mandavo via per continuare i miei giochi. Anche adesso che Laura non è più una bambina ha lo stesso sguardo da gattino in cerca di coccole, il volto pallido e le mani tremanti stropicciano il maglione.

«Che succede?»

«Niente, ho bisogno di qualcuno».

«Un qualcuno qualsiasi? Hai tanti amici a cui puoi rivolgerti. Potevi chiamare Andrea o Sergio o Carolina, perché vuoi vedere proprio me che ho tanto da fare, che sono uscita dallo studio senza neanche avvisare? Perché mi crei sempre problemi?»

«Va bene, non fa niente, scusami. Torna al tuo lavoro.»

«Eh no cara mia! Adesso che mi hai fatto venire qui mi dici quello che vuoi, cazzo!»

Non faccio in tempo ad afferrarla che schizza via dentro la stazione mentre la pioggia comincia a scendere fitta e gelida. La inseguo e mi accorgo che la sua corsa non è spedita e non faccio fatica a raggiungerla.

Eravamo abituate alla corsa, soprattutto lei. Laura arrivava sempre prima nelle gare, io invece arrancavo dietro alle altre riuscendo a tagliare il traguardo sempre in ultima posizione e mi prendevo i rimproveri di papà che attribuiva alla mancanza di allenamento i miei insuccessi. In effetti io preferivo studiare mentre Laura non ne voleva sapere e le piste di atletica erano la sua seconda casa. E poi correva sempre. Non solo fisicamente. La sua corsa era diventata una scelta di vita, bruciava le tappe lanciandosi in avventure assurde da cui tornava frustrata.

Ogni tanto scompariva. Mancava due giorni da casa e poi rientrava tranquillamente, come se fosse una cosa normale.

Mamma non accettava questo suo modo di fare e si sfogava con me:

«Tua sorella mi farà ammattire. La vedi come fa? Prende e va via, così…senza dire niente».

«Ma dove va?»

«E che ne so? Segue il cuore probabilmente. È uno spirito libero, mi ha detto. Devo lasciarla vivere. Così mi ha detto…»

Brontolava sempre ma, quando tornava, l’accoglieva a braccia aperte. Lei si accucciava, si prendeva carezze e attenzioni.

«Mamma, sei tu che la vizi, così non la farai mai crescere. Non sarà mai responsabile della sua vita.»

Io non sopportavo quel suo modo di fare o forse non sopportavo che lei avesse quello che io non avevo. Era veramente bella e chiunque l’avvicinasse ne rimaneva affascinato. Otteneva tutto senza sforzo, a parte le gare che erano l’unico campo in cui si impegnava, probabilmente perché voleva accaparrarsi l’amore e l’orgoglio di nostro padre.

Io invece avevo rinunciato a gareggiare in tutti i sensi e quando lui mi sventolava in faccia le medaglie di Laura andavo nella mia stanza e riprendevo a studiare.

Due strade e due destini diversi che, in cuor mio, speravo non si incrociassero più. Il lavoro e il matrimonio mi impegnano tanto e invece sono diventata il suo riferimento da quando mamma non c’è più. Sempre ed esclusivamente per tirarla fuori dai guai. Adesso basta… Non se ne parla proprio! Ma non posso lasciarla andar via senza rendermi conto della situazione. Starei male tutta la giornata.

Riesco ad afferrarla per le spalle prima che salga sul vagone e, con tutta la rabbia che ho in corpo, la costringo a voltarsi verso di me. Fisso il suo sguardo perso e sfuggente.

«Che cosa ti succede? Cosa hai combinato questa volta?»

Nella lacrima che scende lentamente è racchiuso il mistero della sua vita che è diventato anche il mio.

Ma io non voglio essere un rifugio, una consolazione temporanea. O ci sono sempre o niente!

Mi scivola tra le braccia accartocciandosi a terra con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani. Continua a piangere e i capelli le coprono il volto.

Dio mio come sono lunghi e lucenti sotto la luce che filtra tra le vetrate appannate!

Mi accovaccio accanto a lei scostandole i capelli e rimango inorridita da quello che vedo: un livido nero e rigonfio le circonda l’orecchio e arriva fin sotto il mento.

«Gesù che hai fatto?»

I singhiozzi la scuotono e si aggrappa a me con forza. Rimango di sasso a pensare. Capisco di aver sbagliato la domanda.

«Chi è stato?»

«Andrea».

«Lo sapevo, non mi è mai piaciuto quel bastardo! Che cosa vuoi fare?»

«Lo voglio denunciare».

«Lo faremo, se ti fidi di me.»

«Mi fido, il tuo studio è rinomato per questo tipo di denunce. Non posso più continuare così.»

Mi sembra di vederla per la prima volta. Coraggiosa e decisa a mettere nelle mie mani la sua vita.

E io finalmente sono qui per lei.

Usciamo dalla stazione, correndo, mentre la pioggia scorre sui capelli, sui vestiti, schizza da ogni parte al nostro passaggio e diventa neve, soffice e leggera, come noi che ridiamo tenendoci per mano.