Racconto di Guido Cremonese

 

Livia, vedova ancor giovane, bella di aspetto e simpatica, discorreva un giorno, nel suo elegante salotto, con l’amica Ottavia.

Questa, anch’essa giovane, piacente, aveva preso marito da due anni: un vecchio… inutile, ricco, che le aveva assicurato un avvenire migliore pel giorno in cui avrebbe trasportato i propri acciacchi in un altro mondo.

— La tua condizione di vedova mi fa un effetto così curioso… Alla tua età una donna è condannata a vivere come una suora, se non vuole che la maldicenza la schiacci sotto il suo peso.

— Tu mi sei amica… e mi dai un simile consiglio! Io ho da soffrire qualche privazione, è vero, pel mio stato anormale o quasi; ma sono padrona delle mie azioni, sono abbastanza ricca… e non vedo la necessità di sacrificar tanti privilegi al gusto di esser condotta a teatro da un uomo… per due o tre mesi, perché dopo due o tre mesi egli anderebbe a teatro senza di me o… con un’altra addirittura.

— Che pessimismo!

— Va là! Gli uomini sono tutti egualmente egoisti.

— Io non posso lagnarmi. Sono libera quanto te… e più di te.

— Lo credo! Quello non è più un uomo. Ma sempre egoista, però! Perché sposare una donna giovane, a quell’età? Pel desiderio di sacrificarla.

— In tal caso ha fatto male i suoi conti… Se c’è qualcuno di sacrificato, fra noi due… è proprio lui.

— Del resto, tu hai sempre fatto un buon affare sposando tuo marito: io, nelle condizioni presenti, non ne ho bisogno.

Come si vede, la confidenza fra le due amiche era tale da ammettere le osservazioni di carattere più intimo.

— Ad ogni modo – ribatté Ottavia – io proverei.

— Brava! Son cose che si fanno a prova, queste?

— No: parlavo seguendo una mia idea.

— E cioè?

— Metterei un avviso sul giornale… ed aspetterei i pretendenti. È un divertimento come un altro.

— Si può aver che fare con dei mascalzoni.

— Una donna come te è anche buona a metterli alla porta.

— Perché non lo fai tu? Alla fin fine, non è mica necessario sposare. Si mette l’avviso; si segue un po’ l’avventura; e poi… si chiude la porta in faccia ai pretendenti con un bel «sono maritata».

— Una truffa qualificata!

— Sia pure. Si può anche fare spasimar la gente con una disperata corrispondenza epistolare.

— Ma sai che deve esser graziosissimo?

— Lo credo anch’io. Perché non provi?

— Proprio io che son maritata?

— Corri meno pericolo di comprometterti con un nuovo matrimonio.

— Non mettermi in puntiglio: sono capace di farlo!

— Fallo!

Con birichino gesto d’impeto, Ottavia sedette davanti ad una minuscola scrivania e tracciò le seguenti parole:

«VEDOVA bellissima, giovane, ricca, sposerebbe uomo giovane, simpatico, amabile, educato, buona posizione. Scrivere A. Z. posta.»

— Educato! – esclamò Livia con voce di protesta – Ma si comprende!

— Eh, no! Non sempre.

— Sarà un bel divertimento!

— Ma pensa: chi andrà a ritirare le lettere?

— Tutte e due.

— Ti pare? Alla posta vanno le cocottes e le persone sfaccendate. Riceveremmo certo dei fastidî.

— Manda il tuo domestico.

— Brava! Per compromettermi!

— Manda la cameriera. Le diremo in che consiste lo scherzo… o glielo faremo capire.

— Mi tenti, Ottavia.

— Ma sì! Pensa quanto ci divertiremo nello sfogliare tutta quella corrispondenza! Saremo come due ministri. E che studi psicologici! Vedrai quanto io sia forte in psicologia!

E, ripromettendosi mille soddisfazioni dal birichino scherzo, le due amiche si salutarono.

Il barone Giulio Isidori è un giovane amabile, ma di una timidezza addirittura vergognosa.

Dedito agli studi archeologici – il patrimonio paterno gli permette questo lusso – egli è uno di quei sognatori che, anche nelle dottrine più positive, trovano il lato romantico e fantastico.

Del resto non si può dir che sia un archeologo nato: anzitutto, perché è poeta; poi, perché cura la propria persona; infine, perché, nelle ore di svago, non pensa all’archeologia; e soprattutto perché ama. Un buon archeologo non deve amare che Agrippina e Domitilla, o una Caja qualunque; il nostro giovane, invece, ama da molto tempo, senza osare di far un passo per la conquista dell’oggetto amato.

E l’oggetto amato è Livia: Livia che egli ha incontrato più volte in società; Livia che talora va a far visita a sua madre; Livia che è il sogno, l’incubo delle sue meditazioni archeologiche, e che si pianta, come divinità dominatrice e vendicatrice, fra un rudere ed un palinsesto, impedendogli di proseguire il lavoro.

Giulio ha un amico: un amico che, per ragioni di contrasto, egli ha scelto in una categoria di esseri opposta alla sua. Enrico Belfanti è un giovane vivace, impulsivo, rumoroso: uno di quei simpatici chiacchieroni che, una volta conosciuti, si prendono per quel che sono e si accettano come oggetti di rumoroso svago, come si farebbe con un grammofono che riuscisse a dar buoni… rumori, od uno strumento musicale meccanico non troppo fastidioso.

Enrico Belfanti è l’incubo: Giulio Isidori è il succubo.

Giulio si è lasciato sfuggire qualche parola sulle sue pene amorose: e ciò è bastato perché Belfanti, il quale si atteggia a psicologo, lo abbia tartassato fino a strappargli il segreto. Poi sono venuti i motteggi, ed in fine la commiserazione.

Belfanti ha l’idea di essere un personaggio da romanzo; lo Sherlock Holmes di Conan Doyle, il Lupin di Leblanc, il Davis di George Clarke o qualcosa del genere di questi scrittori alla Poe.

Cosicché si è messo a disposizione di Giulio, il quale, un po’ attratto dalla speranza, un po’ soverchiato dalla prepotenza dell’amico, ha finito per accettarne il patronato.

— Diamine! – dice Belfanti – una donna giovane, vedova, bella, ricca che… non ha un amante! La cosa non è naturale!

E siccome le cose non naturali eccitano la sua fantasia, costringendolo ad appurarle, ecco il nostro novello Dupin all’opera.

In verità le sue imprese sono state rapide, semplici, fortunate.

Il giorno dopo, riassumendo all’amico, con tinte romanzesche e con esuberanza di iperboli, l’opera compiuta, egli esclama:

— Che cosa avrebbe fatto qualunque persona intelligente (e, noi aggiungiamo, qualunque sfaccendato come lui) in un simile frangente?

— Ma…

— Interrogar la serva! – esclama Belfanti con espressione trionfante.

— Oh! la serva!

— Sentitelo, il barone! Credi tu che, coi pregiudizi, si possa riuscire a qualcosa? Ti sbagli, ineffabile amico! Dunque, ascoltami. Ho affrontato arditamente la posizione piantandomi davanti al palazzo della tua sfinge dagli occhi di rubino.

— Ha gli occhi neri.

— Non importa. La situazione era grave: come potevo riconoscere la cameriera della signora Livia? Mistero! Appena ho veduto uscire una donna, mi sono slanciato e l’ho affrontata. «Lei è la cameriera della signora Livia?» – «Precisamente, signore…» Capisci che occhio? Era lei! Con atto magnanimo le ho messo in mano dieci lire, di cui, fra parentesi, tu mi sei debitore. La regolarità negli affari innanzi tutto, perché io penso che…

— Non divagare, matto diabolico! Eccoti le dieci lire! Che cosa hai fatto? – chiese Giulio che, per la prima volta, forse, in vita sua, si mostrava energico.

Belfanti lo guardò un poco sorpreso; poi continuò:

— Vedo che l’amore ti fa uscir dai gangheri. Me ne compiaccio. Dunque, la donna cominciò col voler fare la diplomatica. – «Ma, signore…»

«— Niente ma! Io sono amico di un giovane che è innamoratissimo della vostra padrona».

— Oh! Tu hai detto questo!

— È naturale. La donna ha sorriso: ed in quel sorriso io ho veduto l’aureola finale del mio trionfo. Non è stata cosa facile, te lo assicuro; ma, con la penetrazione che tu ben mi conosci, son riuscito a strapparle un segreto della più alta importanza per te.

— Dimmelo subito!

— Un momento! Tu mi guasti l’effetto! La donna, dunque, dopo aver cercato di sfuggirmi, mi disse: «Preghi il suo amico di leggere i giornali». Io rimasi di stucco. Volevo saperne di più, ma quella voltò sui tacchi e… via di corsa! Non mi diedi per vinto. Intuii che qualche mistero si stava maturando e la seguii cautamente e sagacemente. Lo indovini? Andava alla Posta Centrale. A che fare? Ecco il problema!

— Ma finisci! Lascia andare i problemi e dimmi i fatti!

— Un momento! La donna – Rosina: è il nome di tutte le donne di servizio – portava un pacco di lettere ferme in posta. Ho voluto approfondire il mistero. Indovini?

— Non indovino un acc…!

— Ecco: la tua bella ha messo sul giornale un avviso matrimoniale. Erano le lettere dei pretendenti!

— Lei… Io…

Ed il povero Giulio era presso a svenire per la dolorosa emozione.

— Coraggio, perbacco! Ringrazia la Provvidenza! È il momento di farsi avanti! Sposala e non se ne parli più.

— Ma come…?

— Scrivi la tua brava lettera. Le lettere non arrossiscono e non tremano. Una lettera chiara, vibrante, convincente. Ricordati che non si tratta di archeologia.

— Ma tu… che pensi? Posso sperare?

— Eh, perbacco! Quando una donna cerca marito per mezzo dei giornali, vuol dire che il suo cuore è libero. Coraggio! Avanti alla baionetta! Ma ho un progetto… e ti aiuterò io come si conviene!

Giulio fremette, perché i progetti di Belfanti erano altrettanto inevitabili quanto pericolosi. Ma, al solito, si rassegnò.

L’indomani era il secondo giorno in cui le due amiche ricevevano la corrispondenza di contrabbando.

Era un grazioso quadretto, quello formato dalle due belle giovani, affondate tra i cuscini del divano, semicoperte di foglietti, alcuni dei quali erano anche sparsi sul tappeto.

Livia — Vediamo quest’altra… (dopo aver data un’occhiata alla missiva). Che linguaggio! Che psicologia! Questo è certamente lo scritto di una guardia di pubblica sicurezza.

Ottavia — Vediamo. (Leggendo) «Ambirei l’alto onore di essere rappresentato alla S. V. per poterci esternare l’omaggio di un inferiore ma valoroso adoratore». Che, che! Questa non è di una guardia di pubblica sicurezza. È di un sergente, piemontese per giunta. Quel poterci lo denunzia.

Livia — È lo stesso. È desolante vedere quanta volgarità e quanta prosa allignino nell’animo degli uomini.

Ottavia — Non accusiamo gli uomini, che non c’entrano. Qui si tratta di gente che va a caccia di una dote…

Livia — …per farsi mantenere. È disgustoso! Non c’è un’eccezione! L’inventore che vuole un patrimonio per guadagnare dei milioni; il genio che cerca l’editore per mezzo della dote di una donna qualsiasi; il nobile spiantato che mette all’asta il suo blasone alla peggiore, ma più ricca offerente… è tutta una serie di delusioni che abbiamo pagato…

Ottavia — …una lira…

Livia — E che potevamo risparmiarci, perché vale molto meno. Il peso di questa carta straccia rappresenta un valore molto maggiore di quello degli scriventi messi insieme. Se l’avessi saputo!

Rosina (recando una lettera su un vassoio) — Signora, hanno portato questa…

Livia — Hanno… Chi?

Rosina — Il portinaio. È venuta per la posta.

Livia — Va bene.

(Rosina se ne va; Livia apre la lettera e legge).

«Signora Livia

poiché, ammirandola discretamente ma con fervore, ho sentito venir meno a grado a grado quel po’ di coraggio che il mio amore mi ispirava, mi decido a confidare alla carta ciò che la voce non osa…» E chi diavolo è costui? (guardando la firma) Giulio Isidori? Oh! Questa è bella! Noi facciamo gli avvisi per burla… ed arrivano i mariti sul serio. Povero Giulio! È un grande bambino. Vediamo che altro dice. (Leggendo) «L’avviso matrimoniale, inserito da lei sul giornale, facendomi comprendere il suo naturale desiderio di troncare l’isolamento…» Ah, è troppo! E come sa, costui, che io… o piuttosto noi, abbiamo inserito un avviso sul giornale?

Ottavia — È un problema interessante a risolversi.

Livia — È una cosa che mi fa rabbia.

Ottavia — Bisogna che ti rassegni.

Livia — Eh, no! Voglio sapere!

Ottavia — Domandaglielo: è il modo più sicuro.

Livia — Se fosse possibile! Ma quello è un tipo tanto timido che, se mi vede, scappa senz’altro. Ma… ora che ci penso: non avrà saputo qualcosa da Rosina? (Suona il campanello).

Rosina — Comanda?

Livia — Tu conosci il barone Isidori?

Rosina — Sì, signora.

Livia — Da quanto tempo non l’hai veduto?

Rosina — Da circa un mese, quando venne qui con la baronessa per l’ultima volta.

Livia — Proprio?

Rosina — Glielo giuro, signora.

Livia — Sta bene. Va pure.

Ottavia — Deve avere della penetrazione, il tuo amico.

Livia — Amico! Un conoscente. Simpatico, dotto, serio, buono, ma di una timidezza…

Ottavia — Andiamo al fatto pratico: lasciando da parte la ricerca del come abbia saputo la cosa, rifletti che ti fa una dichiarazione. Che ne pensi?

Livia — Penso che non ho nessuna voglia di sposarmi e che quindi la sua lettera mi lascia indifferente.

Ottavia — Ne sei sicura? Non hai nessuna preferenza? Non ci hai mai pensato? Non ti sei mai accorta…?

Livia — Francamente, mi ero accorta che Giulio è innamorato di me…

Ottavia (battendo le mani) — Giulio! Benissimo! E mi fa l’indifferente!

Livia (arrossendo) — Lasciami parlare. Me n’ero accorta e…

Ottavia — E non ti dispiace.

Livia — Certo, se dovessi prender marito, lo preferirei ad un altro. Sono sicura che avrei in lui un perfetto cavaliere ed un marito docilissimo ed affezionato.

Ottavia — Meno male! Ecco un candidato che ha delle probabilità.

Rosina (col vassoio ed un biglietto da visita) — Debbo far entrare?

Livia (leggendo) — Enrico Belfanti. E chi è costui? Non lo conosco. Che cosa vuole?

Ottavia — Lo conosco io, quello scavezzacolli.

Rosina — Desidera cinque minuti di colloquio con la signora per cosa urgentissima.

Ottavia — Ricevilo. Ti assicuro che ci divertiremo.

Livia — Ma le convenienze?

Ottavia — Dà retta a me: non è pericoloso. Vedrai che tipo! Eppoi… chissà che diavoleria ha inventato. (A Rosina) Fallo entrare.

Livia — Qui? Con tutte queste carte?

Ottavia — Ma sì! È anche troppo, per lui! (Belfanti, che ignora la lettera scritta dal suo amico, entra preceduto da Rosina. Vedendo Ottavia, fa un gesto di estrema sorpresa).

Belfanti — Chi vedo! la signora Ottavia! Dio degli dei! È una cosa strabiliante! (A Livia) Signora: ho l’onore di presentarle i miei più sperticati ossequi. (Bacia la mano alle due dame).

Livia (interdetta) — Si accomodi, signore, e mi dica a che cosa devo l’onore…

Belfanti — L’onore! … Ma lei mi fa inebetire! Io sono venuto… (guardandosi attorno e sorridendo) Sono capitato a proposito! Lei sta leggendo… il frutto del suo peccato giornalistico!

Ottavia — Ecco un altro indiscreto.

Livia (seccata) — La prego di credere che io non leggo nessun frutto. Queste son lettere.

Belfanti (con una rumorosa risata) — Eh, già! Ma si rassegni, signora: so tutto!

Livia — Tutto… che cosa?

Belfanti — L’avviso, il matrimonio… E sono venuto appunto…

Livia — A perdere il suo tempo, signore!

Belfanti — Non credo.

Livia — Ma sa che lei è presuntuoso? Ringrazi i miei sensi di ospitalità e l’amicizia che ha con Ottavia; altrimenti l’avrei già messo alla porta.

Ottavia (gongolante) — Che bellezza! Così mi piace!

Belfanti — Tante grazie, signora. Quando avrò finito me ne andrò da me.

Livia (impaziente) — Finisca presto, allora!

Belfanti — Ecco: l’avviso… sul giornale ha sedotto… poniamo… un mio amico.

Livia — E lei fa questo bel mestiere?

Beffanti — Si fa quel che si può.

Livia — Ma come ha saputo, il suo amico, dell’avviso? …

Belfanti — È opera del mio spirito indagatore e penetrante. Deve sapere, illustre signora, che io sono un seguace di Vidocq, di Gaboriau, di Conan Doyle, di George Clarcke e di moltissimi altri che non nomino.

Livia — Fa bene.

Belfanti — Grazie. Illustre signora, quando…

Livia — Lasci stare l’illustre signora, e mi dica il modo come lei ha saputo i miei affari.

Belfanti — Ho visto, alla posta, una servetta che ritirava molte lettere ferme nella medesima; ho ascoltato l’indirizzo che essa mormorava all’ufficiale postale; l’ho seguita, ho letto i giornali ed ho capito che…

Livia — Fa la spia, lei?

Belfanti — Una specie. Faccio il poliziotto dilettante.

Livia — E crede, lei, che io voglia sposare un individuo simile?

Belfanti — Grazie.

Livia — E la sua penetrazione non le ha detto null’altro?

Belfanti (smarrito) — Che cosa doveva dirmi?

Livia — Che l’avviso non l’ho inserito io.

Belfanti — Oh!

Ottavia (allarmata) — Livia!

Livia — Eh, cara! Bisogna chiarir gli equivoci, perché il signore è molto petulante.

Belfanti — Non mi sono mai azzardato a petulare.

Livia — Basta, signore! Il suo spirito non fa per me. Sappia che Ottavia, non io, ha inserito l’avviso.

Belfanti — Signora Ottavia! Lei! Ma se è maritata! (Con entusiasmo) Ma allora concorro io!

Livia — Concorre… a che?

Belfanti — Al… come chiamarlo? Al matrimonio!

Ottavia — Belfanti… è stato uno scherzo. Non mi mortifichi.

Belfanti — Che, che! Intendo profittare della mia situazione! Intendo concorrere, altrimenti le faccio un ricatto! Dico tutto a suo marito!

Ottavia — Lo scherzo basta: ci ha dato sufficiente prova della sua faccia tosta, e siamo persuase che non ha l’eguale. Le basta?

Belfanti — Così così.

Livia (irritata) — Ma vuol dirmi che cosa diamine è venuto a fare in casa mia?

Belfanti — Sono venuto a patrocinare la causa di un mio amico.

Livia — Bell’avvocato. Chi è quel poveretto?

Belfanti — Quell’imbecille di Giulio.

Livia — Benone! E Giulio ha mandato lei!

Belfanti — Giulio! Lo chiama Giulio! Vittoria!

Livia — Lasciamo andare il modo in cui lo chiamo: dico che quando una persona manda a farsi patrocinare in un modo simile….

Belfanti — Prego: non mi ha mandato! Non mi faccio mandare, io! Sono venuto per mio conto.

Livia — Fa delle belle cose, lei! E le chiama trovate da persona abile, queste?

Belfanti — Spero bene che…

Livia — Non isperi nulla! Io sono indignatissima!

Belfanti — Ed io sono desolato. Povero amico mio! Speravo di avergli reso un servizio.

Livia — Bel servizio!

Belfanti — Ma chi poteva credere che l’autrice dell’avviso fosse un’altra persona?

Livia — Ecco che cosa accade a voler essere un Vidocq senza averne la stoffa! (A Ottavia) Lo chiami un divertimento, tu, questo?

Ottavia — Per me, sì! Via: fate la pace. Mi dispiacerebbe che due persone che stimo, il giorno in cui si sono conosciute, si lasciassero col broncio. Via, Belfanti: baci la mano a Livia.

Belfanti — Con entusiasmo! Ed anche a lei, signora! (Bacia con molto slancio le mani di Ottavia).

Ottavia — Ehi, dico! Non tanto calore! E d’ora in avanti si ricordi che non tutti gli avvisi matrimoniali riescono…

Belfanti — Col buco? Chissà!

Ottavia — Impertinente!

Livia — Ti sta bene!

Ottavia — Vedo che sei irritata, Livia. Ti lascio….

Belfanti — Ed io l’accompagno con entusiasmo.

Ottavia — Col solito entusiasmo.

Ottavia e Belfanti salutano Livia e se ne vanno. Belfanti, per le scale, mormora qualche parolina dolce alla povera moglie di un marito inutile; le fa delle scherzose minacce… qualche piccolo ricatto; e Ottavia si diverte un mondo.

Da quel giorno le sue visite a Livia si abbreviano, si diradano, finché cessano del tutto. Ottavia ha trovato un miglior modo di passare il suo tempo.

Livia ha compreso e non dice nulla. Ma si sente sola… sola…

L’irritazione dell’abbandono da parte dell’amica le rende ancora più gravoso l’isolamento. Quando non ne può più, scrive una lettera.

«Signore,

il modo di procedere del vostro amico Belfanti e la vostra lettera esigono delle scuse e delle spiegazioni. Pretendo le une e le altre. Vi aspetto in casa oggi. Vi saluto.

«L.»

Come un cane bastonato che aspetti nuove e maggiori busse, Giulio si presenta a Livia.

Belfanti gli ha raccontato la storia, lo ha beffato un po’ e lo ha lasciato nella disperazione.

Livia — Signore, vorrete spiegarmi, spero, la condotta del vostro amico!

Giulio — Non lo chiami amico, signora! È un traditore!

Livia — Ma voi! Sono indignatissima! Chi vi permette di scrivere delle lettere…?

Giulio — Credevo che l’avviso…

Livia — Non avevate il diritto di credere! Io non so che farne, del marito! Voi avete destata tutta la mia collera! Sono irritatissima! E per di più, mi avete fatto portar via l’amica… Perché quel poliziotto me l’ha fatta fuggire con i suoi ricatti e le sue indagini alla Vidocq.

Giulio — Le assicuro che è innocuo, malgrado le arie che si dà… Ma perdoni…

Giulio non sa più che dire, e non trova di meglio da fare che cader ginocchioni davanti a Livia.

Costei non aveva intenzione di esser troppo severa; e poiché il suo gesto… e soprattutto quello di Giulio ha oltrepassato le sue intenzioni, gli si avvicina, e, vedendolo pauroso, smarrito come un bambino che aspetta una correzione, gli prende il capo fra le mani, mormorando:

— Ma rizzati, fanciullone! Non sono mica così terribile, io! …