Racconto di Silvio Fazio

(Ottava pubblicazione)

 

Verso la fine degli anni Novanta, la multinazionale per la quale lavoravo già si occupava della realizzazione di prodotti multimediali per l’arte e la cultura, sfruttando anche programmi e tecnologie di Intelligenza Artificiale.

Nel maggio del 1997 fui mandato a Palermo per coordinare e partecipare alla realizzazione di una grande mostra su un fondo archivistico di antiche pergamene, codici e sigilli recentemente ritrovati in Spagna, ma che riguardavano Messina e la Sicilia. A Palermo, dove tornavo sempre volentieri perché potevo rivedere mia madre che ancora lì abitava, frequentai gli uffici del comune e dell’assessorato ai beni culturali e strinsi amicizia con l’allora sindaco. Avevo stabilito rapporti così buoni che nel pomeriggio del 12 maggio 1997 un messo comunale recapitò a casa di mia madre due biglietti d’invito per la serata inaugurale di riapertura del Teatro Massimo, dove Franco Mannino e Claudio Abbado avrebbero diretto i Berliner Philarmoniker.  Il teatro era stato chiuso per restauri nel 1974 e finalmente potevo rivederlo nel suo splendore: era chiamato Massimo perché era tra i tre più grandi d’Europa.

Quella sera potei apprezzare di nuovo la sua acustica perfetta e stupirmi di quella volta a cupola sopra la platea realizzata con undici spicchi affrescati che, con particolari meccanismi e funi, potevano aprirsi come petali di fiori, lasciando intravvedere il cielo. L’indomani andai in Comune per ringraziare e, approfittando dell’occasione, chiesi se fosse possibile visitare le Grotte dell’Addaura e i suoi graffiti preistorici. Era una richiesta difficile da esaudire, ma tentai. Le grotte, infatti, erano chiuse al pubblico da decenni perché pericolanti e negli anni non si erano trovati mai i fondi per metterle in sicurezza e consentire le visite. Contenevano incisioni rupestri risalenti al periodo precedente al Mesolitico (quattordicimila anni fa), particolarmente importanti perché erano tra le poche scoperte di quel tipo che rappresentavano figure umane. Non ero mai riuscito a visitarle, vi accedevano solo studiosi ed esperti. L’assessore decise di accontentarmi e mi disse di trovarmi alle 14.00 del giorno dopo davanti all’ingresso della grotta dove avrei incontrato il signor Ferrara, che mi avrebbe aperto il cancello di protezione e accompagnato nella visita.

L’indomani arrivai all’orario preciso all’appuntamento, senza però trovare nessuno ad attendermi. Il sole era già caldo nonostante fosse maggio e picchiava forte sulla mia testa. Dopo mezz’ora di attesa, quando stavo per andarmene, vidi una ragazza avvicinarsi di corsa verso di me, agitando una mano. Indossava una gonna variopinta, una maglietta bianca ed uno strano zainetto dietro le spalle. Mi colpì subito la sua particolare bellezza: i suoi capelli, il suo viso, i suoi occhi, il colore della sua pelle riassumevano le caratteristiche arabe, normanne, greche, di tutte le varie dominazioni che avevano attraversato la Sicilia. Un miscuglio dolce e selvatico.

“Mi scusi” mi disse “il signor Ferrara si è ammalato e hanno mandato me ad aprire, mi hanno avvertito solo all’ultimo e sono corsa subito”.

“Mi chiamo Koreia” aggiunse allungando la mano verso di me. Ricambiai il saluto, un po’ frastornato dalla luminosità del suo porgersi e dal suo sguardo. Poi entrammo.

Il sito si componeva di tre grotte, in una delle quali si trovava un vasto e ricco complesso d’incisioni raffiguranti uomini ed animali. In mezzo ad una moltitudine di bovidi, cavalli selvatici e cervi c’era una scena dominata dalla presenza di figure umane: un gruppo di personaggi, disposti in circolo, che circondavano due figure centrali con il capo coperto ed il corpo fortemente inarcato all’indietro. Erano ben visibili un daino rampante e un cacciatore nudo dai lunghi capelli con una strana maschera sul volto e una lunga asta, e una figura femminile con un voluminoso oggetto sulle spalle. Quei graffiti erano la testimonianza delle tribù di cacciatori che vivevano nel luogo ed erano stati tracciati con uno stile molto realistico. Osservavo tutto in silenzio, cercando di immaginare chi li avesse disegnati, quando e perché. Ad un tratto, sentii la voce di Koreia che mi spiegava: “Sono bellissimi, incantevoli. Ancora gli esperti non sono concordi se si tratta di rappresentazioni di riti sacrificali, iniziatici, erotici o propiziatori per la caccia; a me piace pensare che queste figure semplicemente danzino, seguendo una qualche musica. Alcuni studiosi credono che molti siti simili a questo, come quello di Altamura o di Lascaux, siano stati scelti dagli uomini di allora anche per l’acustica e che fossero luoghi adatti per cantare in coro e ballare”.

Koreia prese la mia mano e l’appoggiò alla parete sulla figura di un danzatore, premendo la sua mano sulla mia. Sentii subito un calore pervadermi, prima il corpo, e l’anima subito dopo. Mi ritrovai scagliato indietro nel tempo di quattordicimila anni a danzare intorno al fuoco in quella grotta. In un primo momento persi i contorni di ogni cosa, come avvolto in una nebbia di sabbia opaca. Poi, pian piano, la scena tornò nitida, folgorante: fuochi ardevano e illuminavano la grotta dipingendone le pareti all’oscillare delle fiamme e profumando l’aria di resine odorose e inebrianti. Gli occhi di Koreia, verdi come smeraldi liquidi, brillavano riflettendo i carboni rosso arancio del fuoco. Bastoni, sassi e conchiglie producevano percussioni a ritmi ossessivi, io mi muovevo libero insieme a tutti gli altri. I nostri corpi nudi, agili e potenti erano ricoperti di tatuaggi e cicatrici, segni di caccia e di orgogliose ferite. Koreia mi danzava vicino, facendo fluttuare i suoi lunghi capelli di oro antico e di rame, le sue mani mi sfioravano. Ballavo, ma contemporaneamente era come se guardassi da spettatore. Al vorticare frenetico della danza si sovrapponevano altre scene che mi arrivavano chiarissime come immagini frantumate, spezzoni di film. All’improvviso, tutto divenne immobile e silenzioso e mi trovai all’aperto, lontano dalle grotte. E vissi gli appostamenti notturni, poco prima del levarsi del sole, le ombre degli animali da cacciare, stagliate contro un cielo pallidissimo, il profumo della terra e delle piante cosparse di rugiada, le rozze lance nelle mie mani e in quelle dei compagni, l’odore delle prede, l’immobilità apparente della natura. Poi, di nuovo dentro la caverna, tornarono le percussioni e i ritmi delle danze in un continuo alternarsi con i silenzi dei luoghi di caccia. Tutto il mio essere cercava solo cibo per la mia fame e un corpo per il mio desiderio. Koreia mi invitava con gesti e canti come promesse, splendeva tra le nuvole di polvere illuminate dal fuoco e un miscuglio di miele e di lava mi scorreva nelle vene. La seguii e mi persi.

Non so come mi ritrovai fuori dalla grotta, confuso dal sole abbagliante e stordito da quanto avevo vissuto. Avevo ancora negli occhi, nelle mani, nella mente la voglia di continuare la danza e la caccia. Mi guardai intorno alla ricerca di un segno, un appiglio, una conferma. Nulla, di Koreia nessuna traccia, forse solo una piccola vena di profumo nel vento. Il cancello delle grotte era chiuso. La cercai tutto intorno, dovunque, ma senza successo. Aspettai di tornare completamente in me, poi mi avviai verso casa. Mia madre mi accolse dicendomi che dal comune mi avevano telefonato più volte. Richiamai, si scusarono per l’appuntamento mancato: il signor Ferrara si era sentito male, mi proponevano di fissarne un altro. Replicai dicendo che una ragazza mandata da loro era venuta, dissi che si chiamava Koreia, la descrissi, ma nessuno la conosceva e nessuno aveva mai sentito il suo nome.

Nei pochi giorni che rimasi ancora a Palermo, prima di rientrare a Milano, cercai di indagare per scoprire qualcosa di più su Koreia, se qualcuno la conoscesse, ma sembrava fosse comparsa dal nulla e nel nulla era tornata. Non riuscivo a togliermela dai pensieri. E mentre preparavo i bagagli per tornare a Milano, prendendo il biglietto dell’aereo appoggiato sulla libreria dove mia madre conservava ancora i miei vecchi libri di ragazzo, la mia attenzione fu attratta dalla copertina del testo sui lirici greci che utilizzavo al liceo. Ad un tratto capii: Koreia era … χορεία che in greco antico significava ballo e danza insieme alla musica.

Continuo ancora oggi a cercarla, anche se solo nella mia mente: accendo fuochi, suono tamburi, adorno il capo di piume di struzzo, mi dipingo il volto di ocra e porpora, i fianchi e le spalle di bianco e di nero, sento la sua mano, il suo odore, vedo il suo corpo che danza e io le giro intorno e ballo, canto, urlo.

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