Racconto di Salvatore Di Giacomo

 

Settembre 1886.

Tre giorni fa, in una scura e fetida vanella d’un palazzo in via Tribunali, d’un subito, qualcosa cadde con un tonfo sordo, e spaventò i sorci che frugavano tra i cocci sparsi e le immondizie e i rifiuti di quelle famiglie borghesi dalle quali escono continuamente, a turbare i pranzi delle immonde bestie, le improperie delle serve e i pianti dei piccini permalosi.

Cadde dunque qualcosa. I sorci fuggirono con gran terrore e si rintanarono. Era caduto il corpo d’una giovinetta: una bionda.

Esso rimase lì, prono, la faccia nel fango, un braccio teso, le gambe stese. Una fine caviglia spuntava di sotto alla gonnella, un piccolo piede arcuato, una calza bianca….

Quella ragazza s’era buttata da un terrazzo al quarto piano, ove era salita per sciorinare i panni.

Si chiamava Antonietta Canserano, aveva diciotto anni, era molto bellina. Quel corpo inerte rimase lì tre ore. A poco a poco le bestie immonde riapparivano. De’ piccoli musetti, dei piccoli occhietti spauriti spuntarono pei buchi. La ragazza rimaneva immobile.

Finalmente si seppe il fatto. La vanella si empì di gridi femminili. L’orrore era grande, e il sangue! … Quanto sangue laggiù, tra i cocci e i rifiuti, nel fango, su per la nera poltiglia luccicante….

Arrivò un medico, arrivarono le guardie, il pretore, un delegato, curiosi da ogni parte. Il corpo dell’Antonietta fu tolto di lì, adagiato in una vettura, e trasportato all’ospedale degli incurabili. La poverina era ancora viva. Respirava, lentamente, a fatica, e aveva gli occhi, socchiusi, pieni di lacrime….

La storia di questa fanciulla è breve ed è la solita storia.

Antonietta Canserano, orfana di madre, ha il padre in America. Era stata affidata a una zia che le voleva un bene del cuore e con la zia se ne stava, al quarto piano del palazzo numero 105 in via Tribunali.

A diciassett’anni aveva conosciuto un piccolo marinaio, bruno e atticciato. Si chiamava Vincenzino. Un cuor d’oro. Il marinaio a momenti avrebbe terminata la sua ferma, sarebbe tornato a Napoli, l’avrebbe sposata. Glielo aveva promesso da un anno; quando giurava si metteva la mano nera sul petto e gli occhi lucevano. Ella era così felice, così felice di quel piccolo uomo arso dal sole, delle parole sue tanto calde, tanto sincere! E aspettava.

Quattro mesi fa Antonietta chiese in grazia alla zia che le facesse pigliare un po’ d’aria. L’usignuolo s’annoiava in gabbia. E come la zia non poteva accompagnarla ella uscì sola a passeggiare. Se ne andò alla Villa. Lì, non si sa come, le si accostò un furiere di linea. Si mise a chiacchierare con lei, la tentò, e seppe abusare della poverina. Questo succede assai spesso. Una rovina in un attimo. Dopo, il furiere, come tutti gli uomini senz’anima e senza rimorsi, abbandonò Antonietta.

Ella tornò, sola, a casa della zia. Per la strada del Chiatamone, un marinaio amico del suo marinaio l’aveva incontrata.

— Come! Sola! Se lo sapesse Vincenzino! Lasciate che v’accompagni.

Ella tremava come una foglia. Non rispose una sola parola.

— Se scrivo a Vincenzino volete che gli dica che v’ho incontrata?

Ella rispose:

— No…. per carità!

Il marinaio la guardò, fece spallucce. E continuarono a camminare, in silenzio….

Napoli, 18 luglio 86.

Mio caro Potito

ti scrivo queste poche riche ti fo conoscere che io sto bene di salute e così spero di sentire di te. Dunque Mio caro Potito, dopo due mesi e tredici giorni mi ho azzardato di scriverti innascosta dei mie parenti; perché dopo tanti mie pianti mi ho sognato una donna e mi ha detto così – figlia mia Antonietta non piangete più che il mio figlio vi deve venire a sposare pregherò ia a Dio che gli dà buoni pensieri e ti prego fatelo una lettera; ecco mio care queste semplice parole mi à detto e mi sono svegliato ed ia ti sono scritta non aveva inchiostro e ti sono scritto con un lapis.

Dunque mio caro ricordati di mè che mi sei levato l’onor mio così che io quella sera ero una stupita non capiva che cosa era il mondo e tu ti ni approfittasti di mè così si deve approfittare i Dio di tè se ti sei negato infaccio ai miei parenti non può negarlo innazi al tribunale di Dio perchè io come tu mi sei lasciato così io sto! nessun altro si ni è approfittato di mè – non fa niente deve arrivare una lacrima avanti a Dio che ti deve pagare perchè ia non sone una cattiva giovane; che vi credete che ia mi ho dato a cattive strade nè questo non lo farò mai mio caro non fa niente che mi sei levato l’onor mio o fatto ridere ai miei parenti i Dio mi aiuterà perchè ia sono orfane di madre mio padre sta in america e non ni sà niente di questo misfatto che si lo sapesse quello mi viene ad ucidere – il mese entrante parto da Napoli e vado a trani mi accompagnano i mie parenti e vado in casa della madre della zia e là o la dota di mia madre che mi possa maritare che ho anni diciotto ho ancora se tu tieni coscienza se tu hai cuore vieni dal mia zia a Napoli e venitemi ad onorare se poi non credete fate come ti piace e ti prego di non dir niente ai miei parenti di questa lettera vi saluto e sono tua

Aff.ma
Andonietta.

Questa lettera fu sequestrata presso una signora amica dell’Antonietta. Ella doveva spedirla al furiere di linea. Come non gliela spedì? Era scritta col lapis. Niente di più umano, di più anima, di più cuore di questa lettera d’una quasi analfabeta.

Ma certo il signor Potito, se l’avesse ricevuta, ne avrebbe riso coi compagni, per gli errori di grammatica. Un furiere è istruito.

Ieri l’altro la Canserano si precipitò dalla terrazza.

Oggi doveva arrivare Vincenzino il marinaio….