Racconto di Francesca Coppola

 

Quindici postazioni diverse, dislocate sapientemente lungo la Cattedrale.

La sedicesima era la mia preferita. Forse perché la conoscevo bene. Sapevo del piccolo foro sull’angolo sinistro della seduta. Del bordeaux scolorito coi gomiti insistenti sul poggiamano.

Ne respiravo perfettamente l’aria paterna, fatta di sigarette passate di bocca in bocca.

Era iniziata così. La preghiera mi aveva aiutato.

Non esiste, pensavo, una definizione precisa della trasgressione ma ho capito ugualmente il momento esatto in cui le viscere hanno iniziato a sanguinare.

“Non fumare che ti viene il cancro” mi ammoniva mio padre. Lui che aveva preso quel vizio a sedici anni. Erano altri tempi precisava. Non si conoscevano le conseguenze, l’ignoranza era un’amica fidata. Non mi era concesso aspirare il bordo di una sigaretta, potevo però respirare l’aria di fumo presente in casa.

“Tieniti lontana dai maschi” diceva mia madre che aveva sposato il primo uomo che le si era proposto quando la sua età si avvicinava ai sedici anni.  Gli stessi anni che aveva mia sorella quando, dopo l’ennesimo diniego, era scappata di casa.

Fu allora che i miei genitori decisero di affidarmi al parroco della Cattedrale, lui sarebbe stato il garante di una retta via.

Quando lo conobbi, padre era impegnato nell’esecuzione della messa. Dall’altare invitava i fedeli ad abbracciare la croce, allargando le braccia. Sembrava fosse dotato non solo di occhiali ma di una doppia, tripla vista. Lui fissava tutti, quasi li attraversava e, contemporaneamente chiedeva di chiudere gli occhi. Abbassare la guardia, avere fede poteva agevolare l’entrata del Signore in ogni cuore, diceva.

Quel giorno spronava tutti i presenti a raggiungere l’ara sacra. Dalle sue mani il divino avrebbe donato il corpo, bisognava ingoiare la comunione per fare pace coi peccati del mondo.

Mia madre, allora, mi spinse in avanti. Dovevo andare anche io a prendere l’ostia.

Aprii la bocca e le dita del parroco indugiarono sulla lingua. Il sapore era come di ruggine e ferro. Quando ne incontrai lo sguardo, i suoi occhi penetrarono più in fondo di qualsiasi cosa avessi ingurgitato. Lui fece sanguinare le mie viscere.

Qualche giorno dopo seguì la prima confessione, le mie mani erano di fuoco, i suoi occhi fumavano ammirazione. Non lo dissi chiaramente, eppure comprese il mio sogno più proibito: volevo essere una dea.

Mi poggiò sulle labbra la sua sigaretta, giurando che sarei diventata la preferita.

Scelsi il piedistallo numero sedici da cui essere adorata.

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