Racconto di Sara Spanò

(Seconda pubblicazione)

 

 

Qui a Brema, per me salire sul tram numero 6 significa andare all’aeroporto.

Ma non oggi.

Non controllo la posta tutti i giorni; solo per caso ho trovato l’invito nella buca delle lettere, poco più di un’ora prima dell’appuntamento. Meglio, mi sono detta, ho appena il tempo di assumere un aspetto presentabile e andare. Niente ansie inutili.

Chissà cosa vorranno comunicarmi. Mi sembra che sia passato un secolo, da quando ho inviato quel progetto – in preda a non so quale delirio di presunzione – e ora mi sento a disagio, al punto che vorrei quasi non parlarne più.

Per ingannare la tensione durante il tragitto, getto uno sguardo distratto al telefono. Sui social vedo molte fotografie di Luchino Visconti: oggi è il quarantacinquesimo anniversario dalla sua morte. Mi mancano quelle retrospettive d’autore al cinema.

 

Poco è cambiato, anzi nulla, dall’ultima volta che sono stata qui. Questo mi rassicura.

La costruzione dove ha sede il Consolato – sede di un’azienda di tecnologia aerospaziale – è sempre la solita torta di vetro e acciaio, tagliata da una gigantesca squadra da disegno.

Entro nell’edificio e mi annuncio alla reception; come vuole il rituale, devo fare qualche minuto di anticamera. Colgo l’occasione per togliermi la giacca, per non apparire troppo goffa in seguito.

Come da copione, compare, operoso come una formichina, Marco Eggert, il funzionario consolare.

“Per la mascherina non si preoccupi” mi rassicura, nel suo italiano dall’accento tedesco “Oggi la signora Daniela non c’è, saremo in tre. L’importante è stare ben distanziati”.

Già. Abstand halten. Mantenere la distanza. Il motto di questo tempo sospeso.

Tolgo la mascherina e la lego alla borsa, mentre Eggert mi accompagna all’interno degli uffici del Consolato, che occupano due stanze al piano terra. Quella in cui entro è dove vengo ricevuta di solito.

“Il rappresentante della Fondazione la sta aspettando qui”, sussurra Eggert, e bussa alla porta dell’altra stanza, dove non sono finora mai entrata.

Ricevuto un cenno di autorizzazione dall’interno, apre la porta, saluta con deferenza e mi annuncia.

 

Visconti aveva viaggiato per mezza Europa per trovare il giovane attore che potesse incarnare la bellezza eterea e angelica di Tadzio in Morte a Venezia.

Beh, Luchino, immagino di dirgli, a quella scrivania è seduto il tuo Tadzio, o meglio, una sua versione più matura. Se da redivivo volessi realizzare un sequel di Morte a Venezia, sapresti dove cercare.

Percepisco una musica che risuona a basso volume nella stanza. Orchestra, una voce di basso che canta in russo. Musorgskij, forse. Il carattere cupo del sottofondo musicale mi sembra coerente con personaggio. Dato che Eggert è troppo timido per presentarci, decido di battezzare il mio interlocutore “Tadzio” fino a nuova comunicazione.

“Benvenuta, dottoressa. Prego, si accomodi”.

Indovinare gli accenti nelle parlate altrui è uno dei miei giochi preferiti. L’italiano di Tadzio sembra non averne, o forse è il contrasto con il forte accento di Eggert a darmi questa percezione.

“Gradisce qualcosa?”

Ringrazio e declino l’offerta con un sorriso. In questi casi, non lo dico ad alta voce, ho le funzioni fisiologiche bloccate.

“Come desidera. Marco, saresti così gentile…?”

Eggert si congeda rapido; non ho quasi il tempo di salutarlo.

Dopo averlo seguito con lo sguardo, come chi spera che un moscone peloso esca dalla stanza senza che ci si scomodi a scacciarlo, Tadzio accenna un sorriso di circostanza. Chissà se esistono dei corsi che insegnano a guardare la gente in quel modo.

Cerco di tendere l’orecchio per identificare il componimento che continua a risuonare.

Tadzio deve aver colto che la musica ha attirato la mia attenzione, perché si affretta a schermirsi:

“In effetti, i Canti e le Danze della Morte non sono lo sfondo musicale più adatto all’occasione. Chiedo scusa”.

La musica tace. Peccato.

Ricapitoliamo: Tadzio diventa adulto, ha modi aristocratici, veste con un’eleganza d’altri tempi, rappresenta una Fondazione, ascolta Musorgskij, guarda le persone come fossero insetti molesti. Luchino, peccato che te lo stia perdendo.

“Si figuri. Musorgskij mi piace molto” mi affretto a precisare.

Sono ancora capace di una conversazione brillante, penso, per darmi coraggio.

Tadzio non sembra granché impressionato dalla mia erudizione. Non ho modo di continuare su quel tema. Qualcosa, proveniente dal portatile, lo distrae.

Colgo l’occasione per osservare cosa si trova sulla sua scrivania. Avevo già notato il portatile, una penna e una cartellina in cartoncino blu. Si direbbe il tavolo da lavoro di chi è arrivato da poco, o di chi sta per andare via dopo una permanenza temporanea. O entrambe le cose.

C’è un oggetto piuttosto singolare: un fermacarte in vetro, a forma di testolina d’angelo coronata da alucce, che tiene in ordine alcune lettere.

“Torniamo alle questioni importanti” annuncia Tadzio, chiudendo il portatile “Domando scusa per l’interruzione. Aspettavo un messaggio di conferma piuttosto importante”.

“Nessun problema. Comprendo benissimo”.

Tadzio mi getta uno sguardo silenzioso; le sue iridi trasparenti mi mettono in soggezione.

Estrae dalla cartellina un fascicolo: con buona probabilità, si tratta del mio progetto, di cui ricordo soltanto l’idea generale.

Non lo ricordavo così voluminoso, osservo tra me e me, mentre Tadzio lo sfoglia.

“Il suo progetto sul demoniaco nelle arti verrà finanziato. Congratulazioni” annuncia, senza preamboli né enfasi.

Brividi di gioia cominciano ad attraversarmi, a ondate.

Eppure, scrivo proposte di sovvenzione per mestiere, mi dicono che sono brava; dovrei esserci abituata.

“È impallidita di colpo, dottoressa. Desidera forse dell’acqua?”

Il suo garbo è quasi anacronistico; non mi stupirei se mi offrisse un cordiale.

“No, no, grazie. È che… davvero, non me l’aspettavo. Grazie”.

D’un tratto, mi sento come Gregor Samsa, o come Eggert: tramutata in uno scarafaggio, o in un moscone.

“Lei non crede nel suo valore” sentenzia, con disappunto “Sa, è molto avvilente. Vedo troppo spesso degli inetti ignoranti esplodere di boria come il rospo della favola di Esopo, e persone capaci e acculturate come lei che ritengono di valere troppo poco. È quantomeno assurdo, non trova?”.

Lo so che è assurdo, lo so bene.

Vorrei tentare di spiegare al mio severo interlocutore i fattori culturali che spiegano questo mio atteggiamento – tra questi, la lettura precoce del Manuale delle Giovani Marmotte, secondo cui una buona GM è sempre modesta e non si autoincensa mai -, ma il desiderio di smaterializzarmi prevale, e non riesco a replicare.

“D’altro canto, la capisco” sospira Tadzio, che nel frattempo ha cominciato a giocherellare con la penna “Anch’io provengo da un retroterra cattolico: la superbia è considerata la madre di tutti i peccati mortali. Lei è una cristianista, conosce bene questi temi, immagino”.

Il dottorato! Ci ho passato anni, a sgobbare su questi temi, altroché. E stavo per uscirmene con le Giovani Marmotte. Mi limito ad annuire.

Vedo la penna fermarsi di colpo.

“Allora, provi a immaginare cosa sarebbe questo mondo se Lucifero, il superbo per eccellenza, non si fosse ribellato. Se si fosse arreso ai primi fallimenti”.

La contraddizione tra le fattezze angeliche di Tadzio e il salto mortale teologico appena eseguito mi spiazza e mi affascina. La risposta che mi attraversa la mente è che senza la ribellione di Lucifero questo mondo sarebbe un noioso limbo di inconsapevolezza.

Il mio sguardo cade sulla testolina d’angelo sulla scrivania. Conto le ali: sei. Un Serafino. Si dice che anche Lucifero fosse così, ardente d’amore divino, prima di essere scaraventato giù dal cielo. Dalle fiamme celesti a quelle infernali. Il fuoco è la cifra caratteristica della sua storia; non ci avevo mai pensato.

La figura dell’angelo ribelle mi incuriosisce da tempo, per quanto lo scontro tra santi e demoni mi sia stato sempre raccontato solo da voce cristiana. Lucifero è stato sconfitto, ma non si è arreso. Tutt’altro.

Chissà, forse oggi Lucifero – o per essere più precisi, Satana – guiderebbe corsi di motivazione, scriverebbe libri e terrebbe dei TED talk sulla propria storia di fallimento e riscatto, farebbe l’impresario. O il mecenate.

“Se ho trasceso, le chiedo scusa. È che tengo molto alle persone di valore, e vorrei che fossero loro le prime a crederci. Ci risentiremo presto per le formalità, intanto le lascio il mio biglietto da visita. Ancora congratulazioni, e buon lavoro”.

Mi riscuoto dai miei pensieri, prendo il biglietto senza leggerlo, ringrazio e mi congedo; nel ripassare per la stanza principale, saluto Eggert di sfuggita ed esco.

Per smaltire le emozioni, decido di tornare a casa a piedi.

 

A casa, cerco in borsa il biglietto da visita.

Sobrio ed elegante, non c’è che dire: su una delle due facce, al centro, stampata in rilievo a secco, campeggia l’ormai a me nota testolina d’angelo con sei ali. Il pensiero del Serafino e di Lucifero, del Diavolo dalle perdute fattezze angeliche, rinfocola la mia immaginazione.

È arrivato il momento di scoprire il vero nome di Tadzio.

Non faccio in tempo a leggerlo: fulmineo, il biglietto mi sfugge di mano, in una scia di fuoco, e cade con violenza sul pavimento, poco lontano da me.

Vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore.

Non riesco nemmeno a rabbrividire; posso soltanto fissare la lingua di fuoco che avvolge il biglietto.

Il candore del cartoncino rimane inalterato.

Il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava.

Mi siedo, come un automa, senza staccare lo sguardo dal fuoco, mentre i fragili indizi contrastanti che credevo di aver afferrato si dissolvono.

Restano vuoto e silenzio.

Non sarà la ragione a darmi risposte.