Racconto di Francesca Erriu Di Tucci

(Seconda pubblicazione)

 

 

Nicola

La stanza era al buio, leggermente rischiarata soltanto dalla luce di un lampione che filtrava attraverso le tapparelle semichiuse. Alle dieci in punto la sveglia iniziò a suonare, crudele e ostinata come sempre. Nel tentativo di spegnerla, Nicola la colpì facendola cadere per terra. Lanciò cinque o sei anatemi alla sveglia, al mondo e a sé stesso. Svegliarsi bestemmiando era il massimo per cominciare bene la giornata. Anzi, la nottata. Riuscì ad alzarsi, trascinandosi controvoglia fino al mobile con le luci e il grande specchio. Accese le lampadine e l’immagine che vide gli ricordò in qualche modo la “notte dei morti viventi”. Era pallido come uno zombie e la sbronza del giorno prima gli ronzava ancora nella testa. Delle occhiaie simili si sarebbero avvistate persino sul Raccordo Anulare. Cercando di pensare ad altro, andò ad accendere lo stereo e lasciò che i primi accordi di una canzone rock riempissero la stanza. Prima di andare in bagno, voleva pensare a cosa mettersi, per non perdere tempo dopo. Aprì l’armadio e cominciò a guardare tra gli abiti femminili. Prese una gonna corta e una maglietta bianca scollata.

La banda

In un garage metropolitano di periferia si era riunita la banda. Il nome farebbe pensare a qualcosa di serio, ma in realtà non si vedeva una banda così scalcinata dai tempi dei Soliti Ignoti. Con la differenza che questi non erano così simpatici. Per dare un’idea, il capo, o quello che si autoproclamava tale, era soprannominato il Pezzo; era il nome ereditato dal padre, un poliziotto morto eroicamente durante una retata antidroga, passata alla storia come Operazione “Borotalco”. Mentre massacrava un ragazzo a colpi di manganello, per sbaglio un colpo di pistola era partito dalla mano tremante di un suo collega, che si era girato a guardare una prostituta che passeggiava. Non gli fecero nemmeno i funerali di Stato, ma comunque niente sarebbe servito a cancellare il soprannome che si era sempre portato appresso: pezzo di merda.

Stella

Nicola aveva indossato la gonna corta e la maglietta. La sua figura apparve ancora più alta e slanciata quando infilò gli stivali neri. Solo le spalle erano un po’ larghe, ma non gli dispiaceva poi tanto. Si mise allo specchio per truccarsi; per fortuna la doccia e i tre caffè l’avevano rimesso un po’ in sesto. Quel giorno non era proprio in forma, sarebbe andato giusto a fare un giro per vedere se riusciva a piazzare quell’orologio che aveva trovato. In realtà, già da un po’ di tempo le cose non andavano per il verso giusto. Era sempre distratto, non gliene importava più niente del lavoro, dei clienti, poteva anche cascargli il mondo addosso che non se ne sarebbe accorto. Prima non era così. Era da quando lui se n’era andato. Lui, non voleva neanche nominarlo! Ma perché ci pensava ancora? Ormai erano sei mesi che era tornato dalla moglie, basta, doveva mettersi l’anima in pace. Se n’era andato così, di punto in bianco. Lasciando un bigliettino: “Mi dispiace, devo tornare da mia moglie”. Devo?! Glielo aveva prescritto il medico? Tutte scuse. La verità era: “voglio tornare da mia moglie”. Vai vai, aveva pensato lui, tanto non ti apro neanche se torni strisciando.

Il Pezzo sapeva di essere il migliore in quel gruppo, gli altri erano quasi tutti degli smidollati, che non valevano niente senza di lui. Ma per fortuna sapeva farsi rispettare, come suo padre. E aveva deciso di continuare la missione del genitore, senza però indossare la divisa: a lui non interessava servire lo Stato, meglio farsi giustizia da soli. Aveva un forte senso della giustizia, lui; a volte si sentiva il Giustiziere della Notte. Certo non era facile gestire una banda composta da individui come quelli che aveva davanti in quel momento. Due erano cugini, Chiodo e Martello: due nomi, due opposte realtà. Martello, noto per le sue qualità amatorie e per l’instancabile devozione alle donne; l’altro invece non batteva chiodo neppure in quelle serate propizie tipo l’otto marzo. Poi c’era il Piccolo, solo perché era il più piccolo di tutti; quando gli avevano dato il soprannome non erano in un momento creativo. C’erano loro quattro nel garage metropolitano di periferia: per la missione di quella notte, era il numero perfetto. Dovevano recuperare un oggetto prezioso, un orologio che il Pezzo aveva perso durante l’ultimo scontro post-derby e che per sbaglio era finito nelle mani di un travestito, uno detto Stella, secondo fonti sicure. Al Pezzo faceva schifo solo l’idea che uno di quelli avesse preso il suo orologio e non aspettava altro che mettergli le mani addosso. Era una di quelle sere in cui si sentiva più che mai Giustiziere. Ma non sapeva che gli altri continuavano a considerarlo il solito Pezzo di.

Dopo essersi passato il rossetto, Nicola si guardò un’ultima volta allo specchio. Ora più che a uno zombie, assomigliava a Frankenstein in pensione: dal bianco era passato al grigio. Si provò almeno dieci tipi di sciarpe e foulard, mentre dalla radio arrivava la voce calda di un dj.

“Salve gente della notte, che aspettate a cominciare il vostro giorno? Se state andando a lavorare, se una dura giornata sta per finire, o se state vivendo momenti di estasiante piacere, noi siamo qui a farvi compagnia. E ricordatevi amici, stanotte scatta l’ora legale, quindi forse perderemo un’ora di vita, o forse la recupereremo un’altra volta, chissà.”

Aveva scelto la sciarpa azzurrina. Poi fu la volta della parrucca: non quella blu, avrebbe fatto troppo Fata Turchina, meglio quella semplice, biondo platino. Prese la borsetta e un prezioso orologio che infilò nella tasca del giubbotto bianco. Spense tutto e uscì.

Loris

Loris accese la radio e restò ad ascoltare la voce di un dj.

“Ci sono delle notti strane e questa è una notte così. Ricordiamoci di guardare la luna stanotte. Forse vedremo The dark side of the moon”.

Le note della canzone partirono e Loris poggiò la testa allo schienale della poltrona. Perché si doveva sempre mettere nei casini? Non ne combinava una giusta. Si era anche sposato, pensando di mettere la testa a posto, ma niente da fare. Anzi, peggio che mai. Adesso sarebbe rimasto solo tutta la notte, mentre la moglie faceva il turno in ospedale. E già gli prendeva l’ansia. Un altro si sarebbe seduto tranquillo sul divano, davanti alla sua bella televisione. Al massimo sarebbe andato al bar all’angolo a fare due chiacchiere. La verità era che se ne voleva andare. Ma come faceva a dirglielo? Avrebbe dovuto dirle come stavano le cose, che c’era un’altra persona, una persona che non riusciva a togliersi dalla testa neanche se la sbatteva al muro. E anche in quel caso era stato un vigliacco. Lo era sempre stato, avrebbe mai avuto il coraggio di fare qualcosa che non fosse vigliacco? Di prendere una decisione giusta? Sì, forse stavolta c’era una decisione giusta.

Nicola camminava lungo i muri dello stradone illuminato da pochi lampioni e dai fari delle auto che passavano rallentando un po’. Qua e là erano accesi dei piccoli fuochi, alcune prostitute sedute in cerchio lo salutavano. Tutti lo chiamavano Stella. Lui si fermava ogni tanto per mostrare un orologio bellissimo che aveva in tasca, ma nessuno era interessato. Non gli rimaneva che andare più in là, dove stavano gli spacciatori e i papponi. Sicuramente quelli avrebbero sganciato qualcosa. Aveva appena iniziato a camminare in un vicolo un po’ buio, quando sentì un rumore alle spalle. Non fece neanche in tempo ad accelerare il passo, che qualcuno sbucò dal buio e lo strattonò cercando di colpirlo. Ma lui riuscì a divincolarsi, piantò la punta dello stivale nello stinco dell’aggressore, poi si mise a correre lasciandolo a terra dolorante. Nel trambusto aveva fatto cadere la borsetta e ormai non poteva più recuperarla. Continuò a correre senza voltarsi, finché trovò un portone aperto. Entrò e si nascose attaccandosi bene al muro, sotto la rampa di scale. Sentì dei passi scendere i gradini; da quella posizione l’avrebbero notato per forza. Una signora molto robusta comparve sugli ultimi scalini, teneva in mano il sacchetto della spazzatura. Nicola fece l’indifferente e si chinò ad aggiustarsi le calze nello stretto pianerottolo. La donna lo guardò dall’alto in basso, poi uscì scuotendo la testa. Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo. Non voleva che la donna vedesse i suoi occhi luccicare per la rabbia. Se non fosse stato vestito così non sarebbe scappato, li avrebbe affrontati faccia a faccia. Ma con quelli era sempre una lotta impari, perché andavano in giro con i coltelli e le loro schifose catene. Con animali così non c’era niente da fare e, se ti acchiappavano, era finita. Controllò nella tasca del giaccone: c’era ancora l’orologio. La borsetta ormai era persa, ma poco importava.

La banda si era riunita nel solito garage metropolitano di periferia. Le moto erano parcheggiate ai lati, tutto lì dentro trasudava olio e carburante. Il Pezzo aveva appena sparso la refurtiva per terra, gli altri lo guardavano in attesa della terribile reazione. Il capo cominciò a urlare, le bestemmie risuonarono in tutti i garage della zona.

“Tutto qui? Una stupida borsetta?”

Il Pezzo prese il rossetto, lo specchietto e altri oggetti e li scagliò contro il muro.

“Lo sapevo che non servite a niente! Io vi chiedo un orologio e voi mi portate un rossetto e cose da femmina!”

“Ma capo” ebbe il coraggio di dire Chiodo, “non c’era nessun orologio, l’abbiamo perquisito…”

“Perquisito? Siete la polizia, forse? Non mi avete portato neanche la parrucca, che prove ho che l’avete fermato? La verità è che ve lo siete fatti scappare!”

Erano tutti mortificati, il Pezzo stavolta non li avrebbe perdonati. Ma c’era un’altra possibilità: beccare l’essere immondo nella piazzetta del quartiere, dove dopo mezzanotte si riunivano tutti i suoi simili. Sarebbero andati lì, a dargli una bella lezione.

Era uscito dal portone, evitando di incrociare lo sguardo della signora col sacchetto. Si era messo a camminare per i vicoli mal illuminati. L’unica cosa a cui doveva pensare adesso era mettersi al sicuro. Con quelli c’era poco da scherzare. Se avevano capito chi era, anche tornare a casa sarebbe stato rischioso. Avrebbe potuto cercare la sua amica Mila, ma non era sicuro di trovarla, e poi meglio evitare quelli dell’ambiente. Aveva sentito pronunciare la parola “orologio”, durante la colluttazione: evidentemente l’oggetto doveva essere prezioso come aveva pensato. Non l’avrebbe ceduto neanche morto.

Loris si alzò dalla poltrona e aprì un cassetto del comodino. La foto era ancora lì, dove l’aveva lasciata. Nascosta bene in mezzo a un libro, in fondo. L’unica che aveva osato tenere. Era solo l’anno scorso, in quell’albergo con Nicola. L’aveva preso alla sprovvista mentre si guardava allo specchio. E nello specchio si vedeva anche lui, che scattava. Restò seduto sul letto a guardarla. Gli vennero in mente quelle parole, “…se per caso avevi ancora quella foto, in cui tu sorridevi e non parlavi…”, una canzone che ascoltavano in quei giorni. Sorrise. Poi si alzò, mise la foto in una tasca della giacca, prese le chiavi della macchina e uscì.

Attraversata la circonvallazione, era arrivato dietro il campo del cimitero. Certo aveva quasi rischiato di morire, ma non poteva mettersi a fare l’autostop vestito così. Non sarebbe passato inosservato. Iniziò a camminare in un campo deserto e da lontano già vedeva le sagome dei treni abbandonati. Faceva fresco e aveva iniziato a piovere un po’. Affrettò il passo, mentre sotto i suoi piedi la terra diventava fango. Entrò di corsa in uno dei vagoni. Era un posto deserto, silenzioso, buio. Andò a sedersi in un sedile sgualcito e quasi poteva immaginarsi di viaggiare. Quello era il posto dove rifugiarsi quando ne aveva bisogno. Come quella notte di tanti anni prima. Strano che gli fosse tornata in mente. Pensava di averla dimenticata.

Quella notte era lì, come tutte le notti. Sotto la luce gialla del lampione. Insieme a quelli che come lui si vendevano per niente. Era giovane, aveva ancora i riccioli di capelli lunghi sulla fronte e questo lo faceva sentire un ribelle. Non si vestiva ancora come adesso e quell’apparente innocenza lo rendeva già più che desiderabile. Quella notte faceva tanto freddo che non si vedeva un cane per strada e certo non si sarebbe immaginato di fare quell’incontro. Non si sarebbe aspettato nessun tipo di incontro, figuriamoci sua madre! Eppure era lì, dentro quella macchina dove l’aveva fatto salire a tradimento, facendolo abbordare dall’ultimo arrivato che si autodefiniva suo padre. Ma come aveva fatto a trovarlo? Era seduta nel sedile posteriore e piangeva come una fontana, avendo finalmente ottenuto conferma che suo figlio era ormai perso, che non c’erano più speranze di recupero, che il suo ‘Nicolino’ si avviava ormai a una vita sbandata eccetera eccetera. Nel buio della macchina vedeva soltanto il vapore uscire dalla sua bocca mentre parlava, e meno male. Sua madre sapeva fare certe espressioni di dolore che ad Anna Magnani le faceva un baffo. Insomma, per farla breve, era sceso dalla macchina senza neanche salutarla. Era sceso e si era messo a camminare sotto il cavalcavia. Indifferente ai compagni che lo chiamavano, con la testa vuota e piena contemporaneamente, guardava dritto e camminava, camminava. A un certo punto la luce dei lampioni si era confusa con le sue lacrime. Non gli aveva dato fastidio tutto quello sproloquio, quanto il fatto che continuasse a chiamarlo ‘Nicolino’! Sì, mamma – pensò – non sono più il tuo Nicolino, sono cresciuto. Forse ho premuto troppo l’acceleratore e sono caduto. Ma non inseguivo una libellula in un prato.

Le moto si fermarono vicino al muro del cimitero. In quel campo si vedeva appena. I quattro avevano in testa il cappuccio del giubbotto per ripararsi dalla pioggia, sembrava il ritorno del Ku Klux Klan.

“Sicuramente sono nascosti in quella stazione di cui parlavi” disse il Pezzo. Stava implicitamente ammettendo che il Piccolo aveva ragione. Non c’era dubbio: era stato lui ad avere la giusta intuizione. Recuperata l’agendina dalla borsetta di Stella, avevano rintracciato l’amica Mila e l’avevano beccata sul posto di lavoro, la famigerata piazzetta. Non erano servite molte minacce per farle dire dove poteva essere nascosto l’amico. Il Piccolo aveva dimostrato di saperci fare, forse gli avrebbero anche cambiato il soprannome per questo. Ma ci avrebbero pensato dopo; ora l’unica cosa che rimaneva da fare era andare in quella maledetta vecchia stazione.

La luce di un tuono lo fece risvegliare. Si era addormentato nel vagone silenzioso, solo il monotono cadere della pioggia gli faceva compagnia. Pensò che forse avrebbe potuto raggiungere Mila e le altre. Ormai il pericolo doveva essere passato. Si avvicinò alla porta del vagone e guardò il cielo. Le nuvole si stavano allontanando e in quel momento si scopriva anche un pezzo di luna. Ebbe come la sensazione di una luce che si avvicinava. Ma non era la luna, erano i fari di due motociclette.

Loris suonò insistentemente il campanello del palazzo di Nicola. Si maledisse per non aver tenuto le chiavi, ora sarebbe stato tutto più semplice. Lo rattristò non trovarlo in casa. Probabilmente aveva ricominciato a lavorare di notte. Se si poteva chiamare lavorare! Ma ora non voleva pensare a questo, voleva soltanto incontrarlo e parlargli. Lo avrebbe aspettato, sicuramente per l’alba sarebbe tornato. Infreddolito, rientrò in macchina e chiuse bene i finestrini e le portiere. Accese lo stereo e appoggiò la testa allo schienale, chiudendo gli occhi.

La luce non c’era più. Era di nuovo buio, non sentiva più nemmeno il rumore della pioggia. Da quanto tempo era lì? Forse da sempre. Non sentiva niente, solo il dolore accecante, come se gli avessero spezzato tutte le ossa. Perché tanto odio? C’è chi vuole essere qualcuno, c’è chi vuole essere migliore… Lui voleva essere, e basta. Non pensava che potesse dare fastidio. A qualcuno, forse sì. A chi l’aveva cercato quella notte, fino a quel posto abbandonato, dove ci si poteva perdere nei sensi di colpa. Forse era stato troppo fragile, troppo distratto, per accorgersi del pericolo. E con il trucco sfatto sulla faccia, dovevano averlo scambiato per un personaggio di qualche musical rock. L’avevano chiamato, mentre si avvicinavano, “Hey, Stella!” – come Marlon Brando in quel film del tram. “Te le facciamo vedere noi le stelle”, facevano anche i simpatici. Alla terza battuta si era reso conto di non riuscire più a muoversi, perché l’avevano già bloccato. Ora non c’era più nessuno, l’avevano lasciato solo, neanche qualcuno che gli cantasse una canzone, che so, com’era quella… Don’t dream it, be it… Non sognatelo, siatelo. Oppure qualcosa di David Bowie, bello come nel poster della sua cameretta. Forse era stato lui a farlo innamorare, il poster galeotto. Quante volte aveva sognato di essere un Rock’n’ roll Suicide… Ma gli era andata molto peggio. Nella canzone almeno c’era la sigaretta, qui nemmeno quella. E nemmeno David Bowie a salvarlo. Aveva in testa troppe cose. Ma non riusciva a parlare, né ad aprire gli occhi. Come quando da piccolo gli cantavano quella filastrocca per addormentarsi e lui si abbandonava… Com’era? Stella Stellina, la notte si avvicina…

Loris si svegliò dentro l’auto, cullato dalle note di una canzone che amava. Poi dalle casse si udì la voce di un dj.

“Buongiorno, ben svegliati a tutti. E per chi ha lavorato fino a adesso, buonanotte! Forse stamattina vi sentirete più stanchi del solito, sarà perché avete dormito un’ora in meno? Io ero sveglio e ho avuto la sensazione che il tempo si sia fermato per un attimo… come se avessi perso… un’ora di vita”.

L’alba colora il cielo sopra la Stazione Vecchia. Il silenzio avvolge il campo, apparentemente deserto. Ma dentro uno di quei vagoni qualcuno giace in una pozza di sangue. Alcuni diranno che si chiamava Nicola, molti altri riconosceranno Stella. Per terra c’è un orologio mezzo rotto, le lancette sono ferme. Segnano ancora le due.

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