Racconto di Fabrizia Zampaglione

(Prima pubblicazione)

 

Ho un posto comodo nel parcheggio sotterraneo del supermercato, con vista privilegiata: la carcassa di un’automobile. Sì, è priva di ruote, motore e sportelli, ma io adoro infilare le unghie nell’imbottitura dei sedili posteriori. Strip-Strip. Un salto e mi acciambello sulla cappelliera, il muso schiacciato contro il lunotto.

Il tempo delle fusa si è concluso molti anni fa, ora gli umani sono per me soltanto un passatempo, personaggi di un film che conferma la necessità di stare a distanza di sicurezza da una simile specie.

E il mio cinema privato apre alle 8,30, quando io ho già zampettato per tutto il quartiere, ingaggiando contese furiose per appetiti di vario genere, e faccio ritorno nella mia tana.

La solita voce gracchia dall’altoparlante e le porte automatiche entrano in funzione, la donna arriva e si ferma lì davanti. Il suo nome è Dana. Non che abbia mai sentito qualcuno chiamarla, lei lavora da sola come me, ma, quando una moneta viene infilata nel bicchiere di plastica che tiene in mano, dice sempre “Dana ringrazia e prega per te”. Poco tempo passa e inizia a battere i piedi sul pavimento in resina, un clack-clack a ritmo regolare che mi ha incuriosito fin da subito, poi ho capito: io graffierei anche l’aria se dovessi rimanere nella stessa posizione per tanto tempo, e come fa a sorridere a chi entra ed esce senza vederla?

Ed ecco il moretto. Cammina rasente i muri, scivola tra le colonne e i tubi d’acciaio che delimitano i posti, scompare dietro le automobili parcheggiate. Il suo lavoro è seguire i clienti, quando aprono il bagagliaio per sistemare le buste della spesa, lui cerca i loro occhi e spera. Non apre bocca. Certo, conosce qualche parola della lingua locale ma ha imparato che non serve a nulla, sa che chi vuole lasciargli la moneta del carrello ha già deciso. Si muove in silenzio, come me, guardingo.

La banda arriva intorno alle dieci. Potrebbe essere il colpo di scena del film, se non lo avessi già visto tante volte. Le voci alte o impastate, i movimenti legati oppure lenti, gli sguardi di fuoco o di nebbia. Una bottiglia li tiene insieme. Un italiano, un francese e un tedesco, e no, non è una barzelletta. Si piazzano accanto alla fila di carrelli incastrati uno dietro l’altro, chiedono monete con insistenza, fanno i simpatici con i clienti.

Il via vai cresce fino all’ora di punta, adesso sono migliaia le monete a spasso su quattro rotelle. Il sorriso di Dana è un fermo immagine su una smorfia, il moretto si fa più audace, la banda perde il controllo del territorio. L’aria è carica di urgenze e di anidride carbonica. Clacson, sgommate, frenate stridule, poi la tensione scema, io drizzo le orecchie e assisto al finale del primo spettacolo.

“Negro di merda! Devi andare, qui stiamo noi!”

È il tedesco a parlare e l’italiano si spiega meglio: “Negro di merda! Torna al tuo paese!”. Il francese non si regge in piedi, ha solo la forza di sputare per terra, tra le ciabatte del moretto che cerca con gli occhi un’eventuale via di fuga. È passato molto tempo dall’ultima volta che lo hanno aggredito, sanno che la polizia arriverebbe subito e sarebbero guai per tutti, forse anche per me. Si ritirano, contano quanto racimolato e comprano un paio di bottiglie.

Dana lascia riposare il sorriso e addenta il panino che le ha dato una cliente. Conosco la signora bionda, viene tutti i giorni, ad orari diversi. Ha unghie invidiabili, che detto da me rende l’idea. Curioso esemplare di umana, tanto che un giorno ho deciso di zampettarle dietro. Lavora alla sede centrale dell’Inps, a poca distanza dal supermercato, durante la pausa viene a fare la spesa e si accompagna sempre a qualcuno, un gruppetto di donne o un uomo. Nel primo caso passa davanti a Dana tenendosi a distanza, gli occhi da un’altra parte; nel secondo le si avvicina e mostra compassione, guarda attraverso il moretto e accelera il passo, scuote i capelli e spinge il petto in fuori quando la banda la segue per restare con la mano tesa e vuota.

Oggi era con un uomo e quel panino tira fuori la voce del moretto.

“Zingara! Brutta zingara!” Non grida, sta a un passo da Dana, non troppo vicino ma quanto basta perché lei possa sentire. Una volta ci ha provato a fregarle il posto, ma Dana è robusta e affamata e con una spinta lo ha catapultato contro il muro, perciò ora lo fissa e continua a masticare.

Uhm… Sì, strana specie, gerarchia sociale incomprensibile. Nelle relazioni con i miei simili io bado al portamento, allo sguardo, all’odore, non mi lascio distrarre da differenze cromatiche. E con le femmine, poi, occhio! Il potere, lo hanno loro, si sa che la natura ha così disposto. Ah, le femmine! C’è qualcosa di più bello in queste brevi sette vite?

Giro le orecchie di scatto. La musica è vintage, l’auto, senza tempo, il guidatore, di età incerta. “Se bruciasse la città, da te, da te, da te io correr…”, spegne il motore di un Duetto bianco dai sedili nero lucido e si avvia alla porta scorrevole. Ha una falcata da trentenne, un vestito di lino chiaro profumato di muschio, i capelli argento in stile finto trasandato e al bicchiere di Dana risponde con un gesto di stizza.

Esce poco dopo, sacchetto di carta sottobraccio e due bottiglie di prosecco tra le mani grandi, come piccole clave. Un colpo secco e il bicchiere di Dana vola, piroetta, sparge le monete. Il moretto rimane immobile, la banda si tiene alla larga. Una sgommata e il parcheggio ripiomba nella calma del primo pomeriggio.

Mangio mezza coscia di pollo che nella notte ho conquistato davanti a un cassonetto in una lotta feroce, mi lecco, sgranchisco le zampe e torno al mio cinema privato. Che vita da cani, direte voi. E no, intanto non ho nulla a che vedere con quella specie e poi, credetemi, non tornerei indietro per nessun motivo. Sono molto bello, ho vinto spesso il primo premio ai concorsi dove la mia umana mi portava chiuso dentro un cestino. Mi viziava, almeno così diceva, croccantini e pappe succose, spazzole morbide ed erba gatta a volontà, lettiera e cuscini sempre puliti, e coccole e grattini. Un giorno, poi, mi ha messo un cappottino e un guinzaglio, mi ha portato a spasso, tutta contenta, mi ha anche mostrato lo studio del veterinario che presto mi avrebbe castrato. Sono scappato la notte stessa, via, via, lontano da quel quartiere elegante, e non è stato facile rifarmi una vita. Qui, al momento, non ho rivali. Mi è costato mezzo naso e un paio di cicatrici, ma va bene così, sono sempre bello e ho ancora molto successo con le femmine.

Alle quattro del pomeriggio il parcheggio è già pieno per metà. I protagonisti del solito film seguono il copione fino a sera, a volte li guardo solo per non perdermi un’eventuale novità che non accade neppure oggi. La banda ha le budella inzuppate di birra e gin, il tedesco si aggrappa all’italiano trascinato dal francese fino all’uscita. Il moretto sparisce in silenzio, Dana si nasconde in un’intercapedine in fondo ai bagni. Le porte automatiche si fermano, i cancelli vengono sbarrati, le luci si spengono.

Dana esce nell’oscurità quando ogni rumore di questo cosmo si è placato. Sotto la carcassa della mia automobile tiene un cartone e una coperta, che stende con cura sull’altro lato del parcheggio. Sopra di lei, in strada, il tratto che separa due griglie, a volte cade la pioggia ma è da lì che entra l’aria. Stanotte si sta bene, non fa freddo, non fa caldo.

È un click-click a svegliarmi. In sottofondo, un lamento. Anche Dana lo sente, balza a sedere, io annuso l’aria e mi avvicino. Viene da una griglia, puntiamo insieme lo sguardo sulla sagoma disegnata dalla luce dei lampioni. Un ciuffo di capelli d’argento penzola tra le maglie di metallo, un filo di bava cola lento e un anello continua a cercare aiuto.

A me è bastato il suo profumo, ma anche Dana lo ha riconosciuto. Forse è stato aggredito o ha avuto un malore, magari due bottiglie di prosecco sono troppe alla sua età, comunque non sono affari miei.

E invece Dana entra in agitazione, “Signore! Signore!” ripete, infila le sue piccole dita nella griglia per cercare di scuoterlo. Mi guarda, io resto a distanza di sicurezza. Le volto le spalle e mi allontano, passo tra le sbarre dei cancelli, faccio il giro dell’isolato e raggiungo l’uomo. È da lì che sento la voce di Dana, stupida umana! Tiene nascosto il cellulare, se la gente lo vedesse non le darebbe una moneta ed è grazie a quelle che ogni tanto Dana può chiamare la famiglia al suo paese, dice loro che fa la badante e ha una stanza tutta per sé, che presto andrà a trovarli. Ed è stupida, stupida, stupida! Ha chiamato il 112, forse i poliziotti salveranno l’uomo ma scopriranno che lei dorme nel parcheggio sotterraneo, che è una clandestina, e faranno pulizia, porteranno via anche la mia tana.

Le sirene sono sempre più vicine. Accosto il muso alla griglia e guardo gli occhi da preda di Dana per l’ultima volta, poi faccio quello che va fatto. Tiro fuori gli artigli e lascio un ricordo indelebile sul bel viso dell’uomo senza età.