Racconto di Monica Cerullo
(Terza pubblicazione)
È vero quando si dice che puoi chiudere con il passato, ma è il passato a non chiudere con te.
Tu pensi di poter riporre parte della tua vita -una parentesi- in una scatola e metterla via, fingere che non ti sia appartenuta. Ci credi sul serio. Pensi persino di averla cancellata. Poi, inaspettatamente, accade l’imprevedibile e ti ritrovi faccia a faccia proprio con quel passato che si fa beffe di te.
Guardo l’uomo che è appena entrato dalla porta e voglio solo convincermi che sia un’impressionante somiglianza la sua. Ho letto su un sito che tutti noi abbiamo almeno un sosia. E forse questa persona ne ha uno identico a qualcuno che io ho conosciuto tempo fa. Eppure, più mi concentro minori sono le speranze che io mi stia sbagliando.
La mente va quindi a ritroso e colloca quest’uomo in quella fatidica parentesi. Per la precisione, a pochi mesi dopo aver visto rivoluzionare la mia esistenza da un giorno all’altro. Quando dovetti accettare una richiesta importante che giungeva dalla mia cara e defunta sorella.
Mi sono rimboccata le maniche e ho programmato da capo la mia vita, facendo il possibile per plasmarla e adeguarla a quella dei due nipoti che mi sono stati affidati. Sono la loro tutrice, oltre che madrina di battesimo del più piccolo dei due. Quei bambini sono diventati ancor di più la mia famiglia. E anche se mi chiamano zia, io so che il mio ruolo vale un po’ di più.
Devo essere presente nella loro quotidianità, senza opprimere ma restando pur sempre un punto di riferimento. È me che guardano, che presentano agli amici o ai genitori. È a me che chiedono consigli. Sono io che rinnovo le iscrizioni ai corsi scelti in largo anticipo dalla mamma e il papà. Sono io che li accompagno nei loro spostamenti. Per loro sono cambiata. Non ha avuto molta scelta. Dovevo essere una persona all’altezza, migliore.
Quando i ragazzi sono stati lasciati a me, più di due anni fa, sono rimasta basita. Avevo ventisei anni, un primo lavoro non sufficientemente retribuito e un altro che non rispecchia il concetto di purezza. Se mia sorella lo avesse saputo, immagino che forse ci avrebbe ripensato. A quel punto la decisione si sarebbe spostata sul fratello o la sorella di mio cognato, anche lui deceduto in quel tragico incidente stradale. I nostri genitori sono venuti a mancare qualche anno prima, a poca distanza l’uno dall’altra seppur per diverse cause. Sì, è sfiorata anche a me l’idea che la mia famiglia fosse stata colpita da una qualche forma di maledizione. Poi ho semplicemente considerato che disgrazie simili, purtroppo, avvengono a chiunque.
Per cui io non ho potuto né voluto voltare le spalle a mia sorella Laura. Ho dovuto abbandonare ciò che facevo a Napoli e trasferirmi a Grosseto, in un appartamento molto più piccolo della dimora in cui vivevano i miei nipoti. Mi dispiaceva, ma non ero in grado di condurre il loro stesso tenore di vita, anche se io avevo dei soldi messi da parte. Solo che li stavo conservando con la speranza di realizzare un sogno. Desidero un ristorante tutto mio da quando ho memoria. O meglio, riaprire quello che un tempo era dei miei nonni. È in disuso da tanti anni e mi piange il cuore ogni volta che ci passo davanti. Vetri rotti, sedie ancora rovesciate su quei pochi tavoli di legno rimasti, polvere dovunque, ragnatele dai soffitti e sui piani di cucina, muffa, erbacce e piante rampicanti nate lungo i muri della struttura.
Era un locale la cui parte posteriore affaccia sul mare. Era uno dei più gettonati in città. Ma con la scomparsa del nonno le cose avevano subìto un declino. La nonna non riusciva a portare avanti quell’attività, non ne aveva la forza, e mia madre non era né portata per quel mestiere né interessata, preferiva continuare a insegnare. Furono chiuse le porte e “La pace dei sensi” cessò di esistere. A diciassette anni, io disegnai persino una bozza di come volevo farla rinascere, però quando qualche anno dopo scoprii la cifra necessaria per avviare il progetto, conobbi realmente il significato del termine sconforto. Non sapevo come fare, e a poco a poco lo avevo accantonato. Fino a quando la mia amica Serena non mi confidò del suo lavoro. Era cambiata in quel periodo. Io, intanto, come lei, avevo raggiunto i vent’anni.
Lei era sempre stata una bella ragazza, poi donna. Aveva la fortuna di essere alta, snella ma con le curve giuste, lunghi e folti capelli castani e due occhi chiari accattivanti. Era una donna attraente, piaceva ai ragazzi, agli uomini. Amava farsi fotografare e anche notare, questo va detto. Aveva partecipato a vari concorsi di bellezza e se l’era giocata bene ogni volta. Proprio durante un servizio fotografico, Serena incontrò un agente, il quale le propose di fare da accompagnatrice a un uomo per un evento importante. Lei accettò e da quel giorno entrò a far parte di una delle più importanti agenzie di Escort. Si rende disponibile per quegli uomini, alcuni scapoli altri no, che vogliono mostrarsi in pubblico, e spesso in privato, in compagnia di una donna affascinante.
Profumatamente retribuita. Certo, qualcuno osa aumentare la posta chiedendo qualcosa in più del semplice accompagnamento, e se lei vuole acconsente.
Mi confidò della sua professione quando le raccontai del mio sogno quasi impossibile, stufa delle mie lamentele. «Se te la senti, posso parlare con il mio capo e domandare se può trovarti un paio di incontri. Non ti cambieranno la vita poche occasioni, ma se ti inserisci, insieme a quanto guadagni lavorando di mattina in quella pizzeria, riuscirai a mettere da parte un gruzzoletto»
«E se qualcuno mi riconoscesse?»
«Di solito sono eventi esclusivi e riservati, molti fuori città. Nessun uomo sposato vuole farsi vedere con una donna che non sia sua moglie. Poi ci sono alcuni clienti che desiderano semplicemente essere accompagnati da una donna per viaggi di lavoro. Insomma, se temi che qualcuno possa riconoscerti, puoi chiedere di essere inserita nella lista degli eventi privati e cambiare nome»
«Si può fare?» chiesi esitante. Il solo pensiero mi faceva sentire agitata. Non avevo ancora deciso quel mattino. Volevo solo scoprire qualche dettaglio in più.
«Sì, certo. Alcune mie colleghe hanno scelto di agire così».
Fu passando di nuovo dinanzi a quel locale abbandonato che io ponderai la mia decisione. Mi sembrava l’unica possibilità in quel momento. La mia sola via d’uscita. E poi Serena mi aveva assicurato che se io non desideravo accontentare richieste particolari bastava dirlo in anticipo.
Fu così che cominciò la mia seconda attività. Avevo imparato a truccarmi e pettinarmi meglio, a vestirmi meglio, a migliorare il portamento, a valorizzare i miei punti di forza. Serena mi accompagnava nei negozi di abbigliamento che conosceva. Io la osservavo quando ci trovavamo insieme e in pochi giorni avevo appreso cosa e come fare. I primi incarichi furono decenti, accettabili.
Non mi si proponeva di fare chissà cosa, solo essere cordiale con il mio cliente e con i suoi ospiti, mostrarmi sorridente, concedere delle danze, lasciar credere di essere una coppia, accompagnarli ai convegni o, come mi aveva già annunciato Serena, nei viaggi di lavoro. Mi veniva consegnata una scheda dettagliata sul cliente in modo che io potessi usare come si deve le tattiche efficaci per non deludere.
Dopo i primi assegni, qualcosa stava cominciando a cambiare però. E con molta probabilità anch’io. Avevo scoperto che mi piaceva sentirmi desiderata, essere osservata, nonostante fossero degli sconosciuti. Mi ero resa conto che quanto più mi mostravo carina, gentile e simpatica, più la paga era generosa. Non sapevo di essere seducente, di saperlo fare, di condurre un rapporto e soddisfare oppure anticipare le intenzioni di un cliente. Io ero una donna attraente, dopotutto. Questo accresceva il mio impegno e non solo. Il mio salvadanaio si stava riempiendo nel frattempo e potevo vedere più vicino il mio sogno: il mio ristorante. Soltanto per quello lo facevo, mi dicevo.
Tuttavia, la verità è che diventa difficile tirarsene fuori poi, rifiutare un appuntamento. Ti ritrovi in quel mondo fatto di feste, cene, incontri segreti, con persone di fama, potenti, soldi, lusso. Quel velo di mistero e intrigo ammalia. Allora rispondi di sì, accetti un nuovo incarico e per quella sera, per quelle ore, ti senti importante.
Ammetto che non sempre rientravo nel mio monolocale con il sorriso sulle labbra, fiera di ciò che avevo fatto. In molte situazioni ho dovuto fingere, e tanto. Ma sono capitate anche volte in cui ho conosciuto uomini che avrei voluto rivedere in altri ambiti. Un uomo in particolare mi era rimasto impresso. Mi era stato recapitato un appuntamento diverso dal solito. La mia amica Serena aveva una relazione speciale con un uomo. Dico speciale perché il suo compagno era a conoscenza della professione di Serena e gli stava bene. Non era un tipo geloso. Amava a sua volta la libertà. Ad ogni modo, quest’uomo aveva un amico a cui desiderava presentare una donna che lo aiutasse ad uscire da un lungo momento di appannamento dovuto dalla fine del suo matrimonio. Avrei dovuto far ricredere quell’uomo nell’amore, restituire la fiducia nelle donne. Io che non avevo mai avuto una storia importante. Ironico, vero?
Quella sera, quando ci incontrammo prima tutti e quattro, poi rimanemmo soli io e lui, scoprii che avevamo un certo feeling. Innanzitutto lui era un bell’uomo. Si chiamava Riccardo. Sì, era alquanto infelice e scorato, si notava da lontano, ma aveva gran fascino. È probabile che fosse proprio quello sguardo accigliato, diffidente e severo che aumentava la sua virilità. Aveva un fisico stupendo, capelli scuri e iridi altrettante scure. Era davvero alto, molto più di me, muscoloso al punto giusto, aveva un profumo meraviglioso che solo standogli accanto mi faceva sentire accaldata e stimolava tutti i miei sensi.
Non fu una conquista facile. Capii che se volevo che la serata prendesse una piacevole svolta, dovevo essere un pochino più sincera con lui. Fu la prima volta che ammisi a qualcuno la mia scomoda verità. «Anch’io credo non ci sia l’uomo adatto per me lì fuori». Eravamo sulla stessa barca, in fondo. Lui mi fissò con intensità e insistenza.
«Lì fuori intendi? Può darsi». Indicò la porta oltre la hall e scrollò le spalle. Io sorrisi riflettendo sulla gaffe che avevo appena fatto. Non mi andava ancora di includere lui nella lista, lo avrei fatto in seguito. «Ma credo che dipenda per lo più dalla scelta del tuo lavoro, sai? Nessun uomo sano di mente vorrebbe che la propria donna si prestasse ad altri, soprattutto per soldi». Non era dello stesso parere del suo amico. E mi stava dando della prostituta. Non mi piaceva definirmi così, anche se la differenza era minima. Quel suo commento spregiudicato mi aveva ferita. Di certo molti lo pensavano, ma era anche la prima volta che qualcuno lo diceva con risoluta franchezza. Distolsi lo sguardo per una frazione di secondo ricordando come sempre a me stessa perché lo facevo.
«Per il momento devo», sussurrai. «Ma dubito che la penserei diversamente anche se non facessi questo». Accennai un sorriso, forse, sollevai il mio bicchiere e ripresi a sorseggiare. Non so se si rese conto di essersi spinto oltre, d’altronde se aveva accettato, anzi concordato l’appuntamento a pagamento, non doveva averlo considerato tanto terribile, no?
Cambiammo argomento, bevemmo insieme, continuammo a chiacchierare, ci guardammo senza mai lasciarci distrarre da ciò che ci circondava. Alle undici o giù di lì, le bollicine ci avevano rilassato e allentato quella tensione iniziale. Ci avevano avvicinati e aiutato a decidere. Salimmo in camera. E io non finsi mai, nemmeno per una frazione di secondo. Ebbi la sensazione che lui si volesse impegnare a farmi cambiare idea sulla ricerca del mio uomo se avessi smesso con quel lavoro, e io allo stesso tempo volessi fargli vedere la possibilità di concedersi un’altra chance con la donna della sua vita. Fu una serata particolare. Una sfida dopo l’altra tra me e lui. Per diverso tempo l’ho definita “strana”.
Quando il mattino dopo mi preparai per lasciare la camera, strappai un foglietto bianco dal block-notes vicino al telefono sul comodino e scrissi un biglietto. Più o meno il messaggio lo invitava a continuare la ricerca e a non arrendersi. Prima o poi avrebbe trovato la persona adatta a lui. “Abbi fede” aggiunsi.
Esitai sull’uscio prima di uscire, concedendo un ultimo sguardo all’uomo con cui avevo trascorso una notte sorprendente e che ancora dormiva. Quando me ne andai mi diedi della stupida. Non avevo preso ciò che mi spettava. Avevo rinunciato alla mia parte dell’assegno. Scappai peggio di un ladro. Scappavo da me.
Per fortuna non lo rividi più e il desiderio di avere un uomo accanto in modo stabile svanì in fretta. Non mi era concesso cercare l’amore. Non potevo far combaciare il mio lavoro con una relazione sentimentale, vera. Senza contare che frequentando quell’ambiente si erano abbassate le pretese. Non esisteva ancora quello giusto per me. Ho continuato per la mia strada. Non mancava molto al traguardo. Mi occorreva una discreta somma che avrei raccolto in breve tempo e presto avrei iniziato a realizzare il mio progetto.
Invece, al rientro da un fine settimana in montagna da marito e moglie, un bus effettua una curva più larga del consentito e manda giù dal burrone l’auto in cui viaggiavano mia sorella e Roberto nel verso opposto. Persero la vita sul colpo nonostante i soccorsi tempestivi. Di lì a poco io fui designata tutrice legale di Debora e Samuele. Lo avevano messo per iscritto. Pareva uno scherzo. Chi, io? Ebbene sì. Il destino aveva questo in serbo per me.
Io ero su tutto un altro pianeta rispetto a Laura. Lei e Roberto avevano organizzato ogni cosa, riguardo al matrimonio ma persino per i bambini, quando ancora non erano nati. Erano fatti così, loro. Io alle volte osavo prenderla in giro per quella mania di controllo. Non seguivo alcuna tabella.
Ho dovuto reinventare una nuova me, quindi. Ho cercato un altro lavoro e ho trovato impiego come receptionist in un albergo. Ma faccio anche altro se serve; allestisco la sala per la colazione, accompagno i clienti alle loro camere o trasporto i bagagli. Insomma, pur di aumentare lo stipendio mi adeguo. Soltanto di recente ho trovato il coraggio di cestinare il mio vecchio numero personale. Ricevevo ancora contatti per presenziare ad alcuni eventi o per incontri occasionali. Ma io avevo chiuso con quella vita accettando l’incarico di mia sorella. Un paio di volte mi sono lasciata prendere dalla tentazione, soprattutto all’inizio, ma ho saputo desistere. I ragazzi prima di ogni altra cosa.
Ed è appunto per amore dei miei nipoti che mi sono recata a casa del papà della migliore amica di Debby. O meglio, colei che sino a pochi giorni fa era la migliore amica. L’altro ieri ho trovato mia nipote in lacrime, in camera sua, abbracciata al suo cuscino. Ho la fortuna di avere con loro un bellissimo rapporto. Mi raccontano tutto, o quasi tutto.
Debby è un’adolescente e come tale alcuni segreti li custodisce nel suo cuore, o sul suo diario. Ma con pazienza sono riuscita a farmi rivelare cosa non andasse. Di punto in bianco Lidia ha deciso che loro due non erano più amiche. Debby aveva visto un post su Instagram in cui la sua amica era uscita con altre ragazze escludendola.
«Mi aveva detto che non potevamo vederci perché doveva andare dal dentista, invece è uscita con le altre! Quando le ho chiesto come mai si era comportata così mi ha confidato che suo padre non voleva più che io e lei ci frequentassimo. E non capisco cosa possa essere successo! L’altra sera abbiamo dormito insieme a casa sua e poi all’improvviso mi fa questo?»
«Avete avuto qualche discussione?» ho cercato di indagare. In effetti, non comprendevo nemmeno io. L’ho accompagnata tre giorni fa a casa della sua amica per il pigiama party. Le ragazze non vedevano l’ora di stare insieme. Mi faceva piacere. Debby era felicissima e anche Lidia. Quella era la prima volta che dormivano a casa del padre. Le volte precedenti ho ospitato io qui loro oppure sono andate a casa della mamma. Sapevo che i genitori di Lidia erano divorziati. Capivo che la situazione era un po’ delicata e ho fatto del mio meglio per far sentire le ragazze a loro agio. Quindi, non mi spiego cosa sia cambiato.
«No. Nessuna discussione, zia, te lo giuro! Mi ha chiusa fuori senza darmi una valida spiegazione». Io l’ho abbracciata e ho promesso in silenzio, a me stessa, che sarei andata in fondo alla questione.
Mentre Debby dormiva, io sono entrata in camera sua, ho frugato tra le sue cose e ho trovato il numero di casa del papà di Lidia. Stamattina, dopo aver accompagnato i ragazzi a scuola, ho telefonato. Volevo parlare con il signor Leonetti. Ho specificato che era urgente. Mi ha risposto una donna, la domestica, e mi ha detto che il papà di Lidia sarebbe rientrato per le due del pomeriggio. Ho atteso la fine del mio turno in albergo e mi sono recata in via Roma, una zona centrale di Grosseto. Non ero mai entrata in quella casa. Ho accompagnato mia nipote l’altra volta e ho atteso che la sua amica la accogliesse in casa, ho salutato un uomo da lontano dietro una finestra e poi sono ripartita.
Sono scesa dalla macchina pochi minuti fa, ho preso la borsa e sono andata a bussare al citofono: R. LEONETTI. La domestica ha aperto il cancelletto e mi ha fatta entrare. Ho attraversato lo stretto viale di un giardino curato con piante da frutto, un glicine, alcuni giochi per bambini, un’altalena e due bici rosa di diversa grandezza collocate sotto il patio.
Ho raggiunto la donna ferma sulla porta di ingresso. La villa non è immensa ma si erge comunque su due livelli, la facciata è di colore rosa salmone. È in buonissimo stato. Chi ci abita ha a cuore questa dimora. Perché non ha a cuore i sentimenti di due ragazze che da un giorno all’altro hanno smesso di essere amiche?
«Mi perdoni, ma il signor Leonetti non è ancora rientrato dal lavoro. Sarà qui a momenti» si era scusata.
«Non si preoccupi. Sono arrivata io con qualche minuto di anticipo. Venivo direttamente da lavoro»
«Prego, si accomodi!»
«Grazie». Mi ha lasciata passare e invitata in casa. Gli ambienti interni ancora più belli degli esterni. Ma ho declinato l’offerta della domestica, a servizio del signor Leonetti da diversi anni, di visitare la dimora. Non ero lì per quello. Mi ha fatto accomodare in soggiorno, sul divano. Mi ha offerto una tazza di caffè. Ho cercato di capire se la donna sapesse qualcosa sulla fine del rapporto tra mia nipote e la figlia del carissimo ed egregio signor Leonetti.
«Dice sul serio?» Non sapeva nulla. «Anche se avevo notato che Lidia era uscita con altre compagne senza menzionare Debby. Cosa può essere accaduto?»
«Non ne ho proprio idea. Sono confusa quanto lei. È la ragione per cui sono qui. Vorrei parlare con il papà di Lidia per capire e magari chiarire. Mia nipote ci sta malissimo».
«Certo! Capisco. Sono sicura si risolverà tutto! Sono due ragazze meravigliose. Si vogliono un gran bene. Il signor Leonetti le darà delle spiegazioni». E a proposito del signor Leonetti, pochi istanti dopo la porta d’ingresso si è aperta, ed è apparso lui con uno di quei completi da lavoro d’ufficio blu, abbinati a una camicia azzurra, e la valigetta nera che ha lasciato nell’anticamera su uno dei ripiani del mobile in legno scuro.
Mi ero alzata nello stesso momento. E ora non riesco ancora a capacitarmi. Ha scambiato delle parole con la domestica mentre si spogliava della giacca, ma io non ho ascoltato nulla. Avevo il battito del cuore talmente accelerato che mi ha impedito di accorgermi di ogni altro suono. Non può essere lui! La R sul citofono sta forse per Riccardo? Coincidenza?
Mi risveglio quando la domestica mi sventola una mano davanti al viso. Se ne sta andando. Ha finito la sua giornata di lavoro. E ora sta lasciando me da sola con quest’uomo, l’artefice della fine dell’amicizia tra mia nipote e sua figlia che mi fissa con lo stesso sguardo che aveva quell’unica volta in cui ci siamo incontrati. È come se non sapesse decidere se ricoprirmi di improperi oppure baciarmi fino a togliermi anche l’ultimo respiro.
«Se ti stai chiedendo se sono io, ebbene la risposta è sì. Incredibile ma vero; il mondo non è così grande come sembra. Ti vedo afflitta dai dubbi, Rosy. Ma non è quello il tuo nome».
Mi schiarisco la gola. Sono scomparsi i dubbi. Ora che ci faccio caso riconosco il suo profumo; fresco, ambra e legno di sandalo. E lui non è cambiato affatto. Forse ha la barba più folta, per il resto sembra che il tempo non sia passato. E io decisamente non sono la stessa di quella notte.
«No. Non è il mio nome quello» ammetto.
«Sì, lo sapevo, Veronica!» calca volutamente il nome. Si sarà informato. «La tua presenza qui è dovuta a…?» Mi raddrizzo celando la sorpresa.
«Sai benissimo perché sono qui. Hai proibito a Lidia di vedere mia nipote senza alcun motivo!» Si avvicina di due passi ma non ne accenna un ulteriore.
«Senza alcun motivo? Ragiona Veronica, il motivo lo conosci. Quando ti ho vista l’altra sera e ho scoperto che eri tu la cara e adorata zia della migliore amica di Lidia, quella che si fa in quattro per la famiglia, mi è crollato il mondo addosso. Puoi fare ciò che vuoi con tua nipote, sia chiaro, ma a mia figlia non la trascini in quel tuo mondo schifoso! »
«Debby è una ragazza eccezionale! Ha un cuore grande e tu hai osato calpestarlo per colpa dei tuoi pregiudizi! Soltanto perché hai conosciuto il mio passato non ti dà il diritto di sputare sentenze su tutti! »
«Ho visto abbastanza, sinceramente. E se Debby ha intenzione di seguire le orme di sua zia non è un’amica che può andare bene per mia figlia!» Brutto spocchioso! Serro i pugni e mi trattengo dal saltargli addosso a fargli male.
«Se parli in questo modo allora non conosci mia nipote. Io invece ho conosciuto tua figlia e sai una cosa? Non ti somiglia, per sua fortuna! Avrà preso tutto dalla madre!». Gli si accende una fiamma che non ho mai visto. Non si rende neanche conto secondo me mentre lo fa e annulla la distanza.
«Stai zitta! Non hai alcun diritto di giudicare la mia vita! Non sai un bel niente! »
«Ah no? Tu sì, però? Puoi insultarmi come ti pare e io te lo dovrei consentire? Cos’è che ti ha fatto crollare, eh Richy? La paura che avrei potuto raccontare a qualcuno di quanto hai fatto in passato? È più ripugnante quello che hai fatto tu o io?
«Non-sai-niente!» scandisce piano a una spanna dal mio viso.
«Neppure tu sai niente di me, ciononostante ti senti così schifosamente altezzoso e arrogante da pensare di avere il vantaggio di buttare fango sugli altri! »
«Ti sbagli! Io so! Hai cambiato città ma lavori sempre in un albergo, no? Magari stai continuando la tua attività qui!». Io sgrano gli occhi.
«Io…», poi rifletto un secondo di più. «Sai che c’è? Tu non ti meriti nessuna spiegazione da parte mia». Scuoto la testa e mi riprendo la borsa che avevo lasciato sul divano. «Ero venuta con delle buone intenzioni. Credevo di poter parlare con un padre che ha interrotto in modo brusco un bellissimo rapporto di amicizia. Vorrà dire che cercherò di far capire a Debby che a volte ci si può sbagliare sul parere che si ha di coloro che noi riteniamo amici. Mi dispiace per lei», lo raggiungo di nuovo, lo guardo e lo supero. «Lidia mi sembrava una bravissima ragazza, intelligente, senza malizia e pregiudizi, ma sono cose che succedono». Arrivo alla porta, la apro e mi ricordo un’ultima cosa. «Ho pensato spesso a te, sai? Ti ho augurato davvero di trovare la persona giusta. Ma guardandoti adesso vedo lo stesso vuoto di quella sera. Temo non lo colmerai mai. Sei senza speranze, caro Richy, e ti dirò che mi dispiace anche per te. Per la cronaca, tra noi due sei tu sei quello che non è cambiato e non è di certo un complimento il mio». Controllo l’ora al polso. «Beh, ora è meglio che io vada. I miei ragazzi torneranno a momenti».
«Io non dovevo cambiare nulla di me!» È più forte di lui. Fa un passo avanti e due indietro. Si avvicina come se volesse fare chissà cosa, poi mi inquadra secondo l’opinione che si è fatto di me e si allontana. Se non ci stessi male mi verrebbe da ridere.
«Tu credi? Un bagno di umiltà ti farebbe bene ogni tanto. Addio Richy!». Mi chiudo la porta alle spalle e con un magone in gola cammino di nuovo nel viale. Il cancello si apre e vado verso la mia auto. Parto e torno dai miei bambini. Un uomo che ti giudica una volta, poi una seconda, senza curarsi di guardare oltre l’apparenza, difficilmente potrà cambiare parere. E io non voglio sprecare il mio tempo per uno come lui.
Alcuni mesi dopo…
E collegandomi a un’altra citazione famosa e calzante: “volere è potere”! È vero anche questo.
Dopo quell’accesa discussione con Riccardo Leonetti, sono tornata a casa, ho abbracciato i miei ragazzi e li ho lasciati dormire con me. Non era la prima volta, soprattutto con il piccolo Sam capitava con frequenza che si intrufolasse nel mio letto nelle notti difficili.
Ho avuto una chiacchierata importante con Debby. Era ancora delusa dal comportamento della sua amica. Una parte di me si sentiva responsabile. Non volendo, ero stata io la causa principale della rottura per via delle mie scelte del passato.
Non gliene ho parlato, ovviamente. Ho tenuto per me quel segreto, ma pesava come un macigno sulla mia coscienza. Non immaginavo che un giorno mi sarei ritrovata in una situazione del genere. Non sapevo che Riccardo vivesse a Grosseto e che avesse origini napoletane come me e, anche se l’avessi saputo, dubito avrei pensato di rivederlo un domani in circostanze diverse.
Io e Debby abbiamo parlato tantissimo. L’ho spronata a non fare di quel dispiacere un caso serio. Gli amici veri ci saranno sempre, altri saranno soltanto figure di passaggio nella nostra vita. Ho asciugato le sue lacrime e qualche giorno dopo lei ha asciugato le mie.
Credevo di essere sola, e, presa da un momento di tristezza e scoraggiamento, sono scoppiata a piangere. La mia dolce nipotina si è precipitata e rannicchiata accanto a me. Siamo state in silenzio per tanti minuti. Non volevo mostrarmi fragile dinanzi a loro, ma non intendevo nemmeno fingere di non avere sentimenti.
«Non sei felice qui zia, vero?» mi aveva chiesto dopo un po’.
«Certo che sono felice di essere qui con voi!». Era una mezza verità. Amo i miei nipoti ma forse quella città non mi faceva sentire a casa. Lei se ne era accorta, tuttavia non avrei scombussolato la loro esistenza per una mia debolezza.
«Io lo so che ci vuoi bene. Che per te noi siamo importanti. Che ti sei presa una grossa responsabilità dopo quello che è accaduto a mamma e papà. Sam è ancora piccolo ma io invece capisco certe cose. So che hai rinunciato a tanto, però io e Sam vogliamo anche che tu sia felice. Una volta ci avevi parlato del ristorante dei bisnonni, che desideravi riportarlo in vita, che quello era il tuo sogno. Se vuoi tornare a Napoli, io e Sam veniamo con te, zia. Possiamo trovare nuovi amici da un’altra parte». Inutile dirlo, ripresi a piangere più a dirotto.
Non presi la decisione subito, no. Lasciai passare un po’ di tempo, tornai insieme ai ragazzi sull’argomento, trascorremmo un weekend a Napoli, dove mostrai loro quel che restava del ristorante “La pace dei sensi”. Furono due giorni meravigliosi e ricchi di emozione. I ragazzi si divertirono tantissimo. Adoravano la mia città. E io lì mi sentii meglio. Debby lo capì. Facemmo ritorno a Grosseto ma di lì a breve decidemmo tutti e tre di trasferirci. Mi accertai prima che i miei nipoti fossero convinti del grande cambiamento che stavano affrontando. E devo dire che mia nipote si è mostrata più matura di quanto mi aspettassi. Aveva salutato i suoi amici, Sam aveva fatto lo stesso. Per l’occasione avevo organizzato una piccola festa per entrambi. Ci furono diverse lacrime.
Ovviamente mi rattristava che lasciassero quella che era sempre stata la loro casa, ma Debby fu irremovibile e io non trovai più nulla a cui aggrapparmi. Non sapevo se mia sorella avrebbe approvato. Probabilmente no, ma lei mi fece notare che sua madre non c’era più, non poteva decidere per il resto dei nostri e dei loro giorni. Non era giusto per nessuno.
Abbiamo festeggiato il suo quattordicesimo compleanno, a maggio, nel nostro nuovo appartamento a Napoli, poco lontano dal ristorante e dal centro. Mi tremavano le gambe quando mi sono trovata finalmente con la copia delle chiavi del locale. C’era da rifare tutto da capo, e l’ho fatto, a modo mio. Mi sono unita per un po’ alla squadra di operai, volevo essere parte principale del progetto. I sacrifici compiuti in passato non sarebbero stati vani. Puntavano esattamente a questo.
Asciugo il sudore con l’interno del gomito e guardo fuori dalla vetrata. È un bellissimo pomeriggio di fine agosto. È quasi l’ora del tramonto. L’aria di mare entra tra queste mura ed io la respiro. Mi concedo un’occhiata abbassando lo sguardo su di me. Ho chiazze di vernice celeste e bianca dappertutto, sulla salopette e anche nei capelli, nonostante la coda alta. La schiena e le gambe mi fanno male. Ho i muscoli tesi. Sono stanca morta ma sorrido.
“La pace dei sensi” sta risorgendo. La ristrutturazione è terminata. Domani arriveranno gli arredi. Ho già contattato un cuoco che si presenterà con la sua brigata. Insieme abbiamo scritto la bozza dei menù, dobbiamo revisionarli un’ultima volta, poi in stampa. Ci siamo. Tra una settimana ci sarà l’inaugurazione. Mi auguro che vada tutto liscio.
«Zia!» Mi volto di scatto.
«Attenta Debby che è ancora sporco!». Si ferma in equilibrio sulle punte dei piedi sulla soglia della porta.
«Guarda chi è venuta a trovarmi!» grida al colmo della felicità.
«Chi?». Un istante dopo compare Lidia con sua sorella minore. E io ho un tuffo al cuore.
«Oh! Ciao Lidia. Ciao Benedetta». Le saluto. Non possono aver viaggiato da sole. Il che significa che o le ha accompagnate la madre oppure…
«Ciao». Odio che mi faccia sempre lo stesso effetto quando lo incontro. L’unica differenza è che stavolta ha qualcosa di diverso, intendo nello sguardo, nel linguaggio del corpo.
«Ciao». Non ho dimenticato le sue parole. Mi hanno strappato dal sonno alcune notti. Per cui spero non si offenda se gli riservo un atteggiamento freddo.
Debby, come fosse la padrona di casa e ignara dei trascorsi tra me e il padre della sua amica, va avanti a illustrare il ristorante, a decantare le doti, il sogno di sua zia che si è avverato. Dispensa complimenti sul mio conto che, detto con sincerità, ora non vorrei ascoltare. Soprattutto perché lui mi sta osservando, come un cucciolo ferito. Certo, un cucciolo ferito nascosto nel corpo di una pantera.
«Zia, posso presentare le mie amiche a Lidia?». Fisso mia nipote negli occhi e poi con un cenno della testa indico l’unico uomo presente tra noi.
«Devi domandare a suo padre».
«Riccardo, posso?».
«Restate nei paraggi?» chiede guardando serio le due ragazze.
«Sì sì. Siamo proprio qui di fronte».
«Portate anche Benedetta con voi».
«Ma papà…».
«Va bene! La portiamo con noi!» risponde immediatamente mia nipote. Io ne approfitto per andare a lavarmi le mani. Avrei bisogno di una doccia, ma non credevo di ricevere visite. Non di questo tipo. Rimaniamo soli, io e lui. Sbircio con la coda dell’occhio e vedo che avanza un po’ alla volta.
«E così, questo posto è tuo…».
«Adesso sì. Come ha spiegato mia nipote, tanti anni fa apparteneva ai miei nonni. Nessuno ha voluto investire soldi per farlo rinascere, né la famiglia tantomeno gli estranei. Solo io avevo a cuore il destino di questo posto. C’è voluto qualche anno, ma alla fine ci sono riuscita». Riccardo annuisce rimuginando.
«Perciò quando dicevi: per il momento devo, ti riferivi a questo?». Ricorda addirittura quello scambio di informazioni?
«Non regalano prestiti a chi non può permettersi un mutuo senza una garanzia. Avevo un lavoro saltuario, prima che mi incontrassi tu. Non era sufficiente, neanche lontanamente. Non volevo chiedere nulla a mia sorella. Volevo fare tutto da sola, così se avessi fallito non avrei potuto prendermela con nessuno se non con me stessa. Ho avuto occasione di conoscere uomini ai quali, per il loro lavoro, avrei potuto chiedere un prestito, ma sapevo che mi sarei immischiata in qualcosa da cui uscirne sarebbe stato difficile e non senza strascichi. Non mi sono abbassata a tanto. Di sicuro c’erano e ci sono modi più onesti e dignitosi per realizzare i propri progetti, lo sapevo, ma io non ne avevo, Riccardo. Ho fatto ciò che potevo».
Lui si avvicina passo dopo passo. «Ascolta Veronica, io sono venuto qui per dirti che mi dispiace. Mi dispiace per come mi sono comportato con le ragazze e con te, in particolare. Ti ho giudicato troppe volte e troppo in fretta. Mi piacevi e non riuscivo ad accettare che tu avessi fatto quella scelta. Che ti stesse bene stare in quel mondo dove contano soltanto i soldi, il sesso, l’apparenza, e molto altro ancora che cozza con i miei princìpi. Non sono stato bravo a guardare oltre. Venivo già da tante delusioni e credo non avessi voglia di illudermi. Avevi ragione tu. Ho interrotto un’amicizia importante. Lidia mi ha odiato quando mi ha detto che ve ne sareste andate, che era colpa mia. E mi sono detestato anch’io. È vero, sono diventato un uomo vuoto dentro. Attacco per difendermi, ma sbaglio sempre. Quando l’ho capito ho chiesto di voi, di te. Ho cercato la vostra posizione, ma senza lasciare intendere che saremmo venuti». Vedo che è in difficoltà. Non penso gli capiti spesso di scusarsi.
Non nego che mi fa piacere che abbia trovato il coraggio di farlo con me. Forse non avrebbe dovuto importarmene del suo pensiero, la verità è che anche lui mi era piaciuto già dalla prima volta. Persino ora che è qui mi sento intimidita come una ragazzina davanti al ragazzo per il quale ha una cotta. E le sue parole mi avevano ferito proprio perché c’era dell’attrazione.
«Non siamo andati via per colpa tua. Io e i ragazzi ci siamo confrontati e abbiamo deciso di tornare qui. Avevo i soldi a disposizione per tentare di ridare vita a questo mio sogno e ho avuto l’appoggio più importante di cui avessi bisogno». Lui annuisce continuando a fissarmi con quello sguardo intenso e profondo. Gli spunta una fossetta sulla guancia destra. Oggi il volto è privo di barba e sembra più giovane.
«Senti, io so di non essere l’uomo giusto per te, l’ho già dimostrato. Non so se tu potrai o vorrai essere la donna adatta a me, tuttavia…» si avvicina sempre più. «Stavo pensando che nel frattempo che entrambi cerchiamo la persona giusta, potremmo conoscerci meglio io e te. Stare insieme. Ricominciare dall’inizio». Io inarco le sopracciglia e accenno un sorriso. Incrocio le braccia al petto.
«Mentre la cerchiamo dici?» Incalzo.
«Sì». Conferma.
«E se uno dei due poi la trova? »
«Se la tiene stretta, ovvio! »
«Nessun dramma? »
«Assolutamente! »
«Assolutamente». Ripeto. Scrollo le spalle. Ricominciare da capo? Sarebbe bellissimo. Potrebbe funzionare, oppure no, ma tentare cosa mi costa? Forse cambierà finalmente idea su di me e anch’io potrei farlo. Magari scopro che non è arrogante come può sembrare a primo impatto. Che dietro quella corazza si nasconde ancora un uomo dolce, gentile. «Beh, perché no? »
«Ottimo!» sospira. «Grazie». Ormai è di fronte a me, alto, bello più che mai, affascinante come il suo solito.
«Aspetta, che fai?». Lo blocco appena osa fare un ulteriore passo verso di me.
«Volevo baciarti». Sorride. E io, dopo non so quanto tempo, arrossisco.
«Non mi sembra il caso. Sul serio! Sono coperta di polvere, di macchie celesti. Sono anche sudata. Faccio pena!» Arretro.
«Invece ti trovo bellissima». Non ascolta, annulla la distanza e mi accarezza una guancia.
«Bugiardo!». Lui riflette e mi regala un sorriso luminoso, immenso come il mare alle nostre spalle.
«Ok. D’accordo, confesso che mi hai lasciato senza parole la prima sera che ci siamo visti con quelle gambe da urlo, quell’abito corto che ti calzava come una seconda pelle, quegli occhioni grandi e scuri, quella bocca rosa e morbida…» e gli occhi scendono appunto sulle mie labbra.
«Già. Lo immaginavo». Entrambe le mani mi cingono il viso. Il mio cuore batte fortissimo.
«Ma ti giuro che sei bellissima anche ora, Veronica, colta di sorpresa, senza trucco, naturale». Mi perdo in quegli occhi. Mi abbandono in quel mare scuro. Le sue dita sfiorano le mie labbra. «Posso baciarti, adesso? »
«Va bene, però sbrigati, perché a momenti tornano le ragazze!». Lui ride e poi mi bacia. E lo so che poco prima mi ero lamentata. Avevo detto di essere in uno stato pietoso e che lui non doveva accostarsi, ma non resisto, allungo le braccia e lo stringo a me. Questo suo maledetto profumo mi annebbia il cervello. Sarà la mia rovina.
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