Racconto di Lucia Maddalena Tissi

(Prima pubblicazione)

 

Quarantacinque. Alcuni numeri mi si appiccicano addosso. Cerco di staccarmi, ma resto incollata. Quarantacinque scatoloni. Diciottesimo trasloco. Sesto piano. Tutti multipli di tre.

Dovrai fermarti da qualche parte, prima o poi, sussurra mia madre al telefono con una voce stanca.

Da quando Anna è morta, mia madre ha la voce prosciugata come il lago del parco in cui ci portava da piccole. Un tempo era pieno d’acqua, non secco come adesso che pare il dorso di un dromedario. Con la bella stagione facevamo i picnic sdraiate sulla riva. Mamma dispiegava una tovaglietta a quadri rossi e bianchi, io ci appoggiavo sopra il paniere con i panini farciti e Anna si toglieva le scarpe e pucciava i piedi nell’acqua. Restavamo lì per tutto il pomeriggio a spilluzzicare, schizzarci con l’acqua e raccontarci delle storie. Ma soprattutto ridevamo delle smorfie di Anna. Io ero la figlia triste, lei quella allegra. Io quella fragile, lei quella forte. Io quella scombinata e confusa, lei quella che aveva le idee chiare e sapeva cosa fare nella vita.

Da adolescente, quando una nuvola violacea mi avvolgeva, Anna saltellava nella mia cameretta, diradava la bruma con un ventaglio magico, e, anche se i miei occhi erano ancora velati, iniziava a esibirsi in balletti molto buffi e a mimare zio Alfredo, che aveva la pappagorgia, o zia Tina, che camminava come una gallina, o Adriana Deò, la mia maestra di matematica, che aveva un solchetto alla radice del naso e pareva sempre accigliata. Andava avanti finché non ero costretta ad alzare il mio sguardo imbronciato, e scoppiavo a ridere.

Sì, mamma, mi fermerò. Prima o poi.

Sollevo l’ultimo scatolone. Su ogni scatolone ho segnato con un pennarello nero un numero e il suo contenuto. Anche questo lo devo ad Anna. La sua cameretta era ordinata, mentre la mia era un groviglio di non si sa quanti oggetti. Osservavo come disponeva i quaderni, i libri di scuola e di narrativa, le bambole, e mi chiedevo se fossimo davvero sorelle. Eppure, ero io la sorella maggiore! Ho passato la vita a tentare di imitarla, a cercare di ridere come lei, di essere precisa come lei, a sforzarmi per diventare anch’io la figlia perfetta.

Chiudo lo sportello del furgone. E torno su, a salutare la casa. Solo tre mesi. Dicono che ogni trasloco sia un lutto. Come la fine di un amore. Tutte stronzate! È una parte di noi che se ne va per lasciare spazio ad altro. Perdere qualcuno è un’altra cosa. Un giorno è qui e il giorno dopo non c’è più. Un lutto non si paragona a niente, a niente.

Lancio un bacio alle stanze vuote e chiudo la porta a chiave. Metto in moto il furgone e parto.

La nuova casa è ad appena due chilometri dalla vecchia. Terzo piano, con ascensore. Da scaricare: quarantacinque scatoloni, tre librerie billy che se le smonto si sbriciolano, un tavolo, tre sedie pieghevoli, un comodino. Letto e armadio sono già lì. Dovrei cavarmela in mezza giornata. Domani aprirò gli scatoloni e inizierò a sistemare i miei oggetti: i poster, che mi trascino dal mio secondo trasloco, i libri, via via più numerosi, i souvenir dei viaggi, le foto, i vestiti. Certi vestiti me li porto dietro da non so quanto tempo, anche se sono ingrassata e i jeans di vent’anni fa non mi stanno più. C’è anche un pupazzo. Un ghiro in peluche. Un suo regalo. Perché diceva che ero pigra e che dovevo avere maggiore fiducia nelle mie capacità.

Anche se gli spazi cambiano, cerco di riprodurre la stessa disposizione dei miei oggetti. Mi conforta rivederli disposti nella stessa maniera, sapere che accompagnano i miei viaggi. Gli oggetti accarezzano la mia tristezza senza colmarla.

Arrivo davanti al portone della mia futura casa, parcheggio, spengo il motore e piango. Perché cazzo piango? Questa storia del trasloco come un lutto mi fa piangere. Sono una frignona. Se Anna fosse qui ora, cosa direbbe? Smettila di piagnucolare! Direbbe così, mi farebbe una pulcesecca sul braccio per risvegliarmi dal torpore e storcerebbe la bocca in una delle sue smorfie. Mi asciugo gli occhi con il bordo del maglione. Dei pelucchi di lana mi pizzicano le palpebre. Dietro di me gli scatoloni aspettano.

Dovrei scendere dalla macchina e iniziare a scaricare qualche scatolone. Invece sono incantata da due mosche che si inseguono in un ballo davanti al parabrezza. Il sogno di stanotte riemerge dalla mia mente offuscata: una danza di orangotanghi intorno a tanti scatoloni impilati come i mattoncini del jenga. Ballavano in cerchio, cantavano qualcosa a un ritmo crescente, un canto triste di cui non capivo le parole e più il canto si faceva triste, più gli scatoloni sparivano fino a che nel centro non restava che terra bruciata. Poi il sogno si dissolve come una fotografia antica.

A jenga ci giocavo con Anna: vinceva sempre lei. Io non sono mai stata brava con gli equilibri. Lei, invece, aveva le dita sottili che non tremavano mai. Girava attorno alla torre, stringeva gli occhi fino a formare delle piccole fessure, toglieva via con delicatezza il mattoncino giusto, e rideva.

Anna non ha mai fatto crollare la torre. Neanche una volta. Mia sorella era l’unica persona al mondo con cui mi sentivo al sicuro. Con lei le cose erano salde e tutto sembrava bello, luminoso. Ho sempre pensato che lo fosse anche lei. Non eri tu quella forte? Ero io quella malinconica, non tu! O hai finto per così tanto tempo?

Il mattoncino questa volta non era quello giusto e la tua torre è crollata.

Quarantacinque scatoloni. Come i tuoi anni.

Mi giro a guardarli. Sono ancora lì. Immobili. Aspettano.

Quarantacinque scatoloni.

Quarantacinque.

Un multiplo di tre.