Racconto di Alessandro Gramegna
(Prima pubblicazione)
Il sole non era ancora sorto e sulle strade illuminate dalla luce fioca dei lampioni, le prime auto risvegliavano la città.
Il netturbino era intento a pulire i bordi dei marciapiedi di una delle vie che costeggiavano i Giardini Indro Montanelli, nel quartiere di Porta Venezia a Milano.
Di colpo si fermò, fece cadere gli attrezzi di lavoro e rimase con le mani distese sul volto. Appena si riprese, recuperò il cellulare e avviò una telefonata.
“Capo, capo! Venga qui, via Manin, poco prima di via Tarchetti: una ragazza morta!”
In un paio di minuti il superiore, già nei paraggi per alcuni controlli, raggiunse il collaboratore ancora sotto shock e chiamò la polizia.
Grazie al traffico ancora ridotto, l’ispettrice Giada Vigorelli e l’agente scelto Carmine Palumbo arrivarono in breve tempo nel luogo segnalato.
La quarantenne milanese, un metro e sessantotto centimetri di audacia e fermezza, osservò il cadavere disteso sul marciapiede. Notò subito la pozza di sangue proveniente dalla testa, chinata verso destra e completamente fracassata.
Nonostante la luce ancora fievole, ipotizzò che il corpo fosse caduto da una certa altezza, a causa della posizione scomposta in cui giacevano gli arti.
Con un gesto d’istinto, spostò la sua folta chioma nera sul lato sinistro, guardò verso l’alto e si rivolse al collega:
“Palumbo, vede lassù? Tutte le finestre sono chiuse, tranne una, quella dell’ottavo piano con le luci accese. Forza, dobbiamo salire in qualche modo a verificare se c’entra qualcosa con la morte di questa ragazza.”
Nel frattempo chiamò in commissariato per velocizzare le dovute attività, dal riconoscimento della vittima al recupero degli indizi necessari da parte della scientifica.
L’ascensore era rotto, così dovettero farsi a piedi gli otto piani dello storico palazzo che si affacciava al parco del capoluogo lombardo.
Il sentore tipico dei vecchi edifici accompagnava la salita dell’ispettrice e dell’agente, dotato di lunghe leve che ne agevolavano il passo.
La porta dell’abitazione con vista sulla strada era aperta.
Appena entrati si fermarono nell’ampio soggiorno con angolo cottura, illuminato dalla luce ben visibile dal marciapiede.
L’odore di antico del palazzo aveva lasciato spazio al fresco della mattina e all’aroma di rosa proveniente da alcuni diffusori di oli essenziali.
Nel silenzio di quelle prime ore del mattino, Giada diede un’occhiata alla stanza e chiamò il collega intento a osservare l’area sul retro del divano nero in pelle ecologica.
“Palumbo venga qui, ho bisogno che appunti alcuni elementi. Credo che la vittima non fosse sola ieri sera. Li vede i due bicchierini e la bottiglia di amaro sul tavolino davanti al televisore? La scientifica non farà fatica a repertare un po’ di impronte digitali. Faccia poi qualche foto a quell’oggetto a terra.”
“Al termometro?”, chiese con ingenuità il goffo agente.
“Ma che dice? È un test di gravidanza, perlopiù risultato positivo, vede?”, rispose sconsolata l’ispettrice, mostrando il display al collega.
Giada osservò i diversi opuscoli presenti sul tavolo in legno massiccio. Erano tutti dello stesso tipo: proposte di giornate e gite “fuori porta” dopo la fine del lungo lockdown dovuto alla pandemia da coronavirus.
Si avvicinò alla finestra che si affacciava alla strada e sul pavimento grigio notò vari residui di sangue.
Girò il capo e fissò il mobile alla sua destra. Sul ripiano di fronte a lei, la collezione in metallo dei Fantastici Quattro.
Tra le riproduzioni di circa trenta centimetri dei supereroi ne mancava una: la più originale del gruppo, il personaggio dall’aspetto roccioso e dalla forza sovrumana, La Cosa.
Le informazioni utili all’indagine erano state raccolte, così Vigorelli e Palumbo terminarono il sopralluogo e rientrarono in commissariato.
I colleghi poliziotti si attivarono subito e in poche ore arrivarono le prime conclusioni.
Si stabilì non si trattasse di suicidio.
La ragazza era stata stordita da un anestetico con molta probabilità aggiunto a una bevanda, di seguito colpita da un oggetto pesante e gettata dalla finestra in stato di incoscienza o addirittura già deceduta, dettaglio da chiarire.
Grazie alla professionalità della squadra dell’ispettrice Vigorelli, fu fermato un sospettato. Sua l’ultima chiamata al cellulare della vittima, sue le telefonate più frequenti.
Si trattava di Giovanni Procopio, trentotto anni, altezza un metro e ottanta, sposato e amante della povera Irene Sanna, la cui identità venne individuata circa due ore dopo il tragico ritrovamento.
Fu l’ambiente ospedaliero a far scattare la scintilla tra l’infermiere infedele e la giovane tecnico di laboratorio.
“Ispettrice, l’ho già detto e ve lo ripeto. Ieri sera ho telefonato a Irene intorno alle otto e trenta, poco prima di iniziare il mio turno di lavoro notturno. Lo possono confermare i miei colleghi di reparto”, affermò con sicurezza Procopio.
“Sapeva che la Sanna era incinta?”, gli chiese l’ispettrice, incurante dell’alibi appena fornito.
“Ne avevo il sospetto. Intorno alle diciotto di ieri mi ha chiamato per comunicarmi il risultato del test, fatto la mattina. Avremmo dovuto incontrarci questa sera per parlare della situazione: come ben sa, ho una famiglia”, rispose l’infermiere affranto, con lo sguardo abbassato e le mani sulla testa.
“Per ora è sufficiente, può andare. Resti in ogni modo a disposizione, signor Procopio, e stia tranquillo: sulla sua relazione con la vittima da qui non uscirà niente.”
Giada si alzò e invitò Palumbo per un caffè al distributore automatico in fondo al corridoio del commissariato.
“Faccia verificare subito l’alibi di Procopio, anche se la mia impressione è che abbia detto la verità. Era davvero sconvolto. Ci vediamo tra un paio d’ore nel mio ufficio: torneremo nel palazzo per un secondo sopralluogo.”
Prima dell’uscita concordata, Palumbo aggiornò l’ispettrice: Procopio la sera dell’omicidio era in ospedale. L’ipotesi del suo coinvolgimento per non aver accettato la gravidanza della giovane amante venne di conseguenza archiviata.
Palumbo e Vigorelli raggiunsero l’edificio davanti ai Giardini di Porta Venezia. Salirono le scale e giunti al quarto piano, Giada si fermò.
“Guardi lì: non le sembra di averlo già visto da qualche altra parte?”, chiese a Palumbo, indicandogli lo zerbino, su cui era raffigurato un enorme cuore rosso, davanti alla porta dell’abitazione alla loro sinistra.
“Purtroppo non ricordo, ispettrice”, rispose l’agente, abbattuto per non essere riuscito a replicare alla superiore.
“Palumbo mannaggia! Lo zerbino è uguale a quello della casa della vittima. Per la fretta, nel primo sopralluogo non lo avevo notato. E se volesse significare qualcosa? Proviamo a suonare, magari c’è in casa qualcuno.”
Aprì la porta una ragazza dai capelli corti e scuri, il fisico curato, prosperosa e dai tipici tratti mediterranei.
“Buon giorno, siamo della polizia. Stiamo facendo delle verifiche nel palazzo”, affermò l’ispettrice dopo aver fatto le dovute presentazioni.
“Buongiorno, sono Vittoria Rossini. Prego, entrate pure.”.
Giada entrò per prima e chiese di buttare la gomma americana che masticava ormai da un po’ di tempo. Si avvicinò al lavello e aprì lo sportello in legno.
Alzò il coperchio della pattumiera e si bloccò, scioccata da ciò che vide: una fiala vuota di un noto e potente anestetico. Si mise a scavare nel contenitore e trovò la riproduzione di una massiccia gamba in metallo.
Richiuse l’anta e si rivolse alla giovane.
“Come mai una benda al braccio destro?”, le chiese mentre con un respiro profondo riconobbe il profumo di rosa che aleggiava nella casa.
Vittoria Rossini non riuscì a rispondere.
Si mise a piangere e confessò l’omicidio di Irene Sanna.
Saputo dello stato di gravidanza dell’amica e sopraffatta da un senso di gelosia nei suoi confronti, la sera che si trovarono per scegliere la destinazione di un fine settimana, di nascosto aveva sciolto l’anestetico nell’amaro, con l’intento di stordirla.
Il tentativo di discussione durò poco, a causa delle lente reazioni di Irene e della rabbia che travolse Vittoria.
La giovane si girò verso la collezione dei Magnifici Quattro, afferrò il personaggio più possente, La Cosa, e colpì più volte alla testa l’amica che presto crollò a terra, priva di movimento.
La violenza delle ripetute percosse fece staccare uno degli arti inferiori della miniatura.
Resasi conto della gravità di ciò aveva fatto, ma con l’adrenalina che ancora le scorreva nelle vene, Vittoria spostò il corpo di Irene, lo sollevò e lo gettò dalla finestra.
Travolta poi dal panico, raccolse i resti del modellino del supereroe rotto e lasciando le luci accese, rientrò nella sua abitazione.
Erano amiche del cuore.
Ciò che Vittoria provava per Irene era però molto più di una profonda amicizia e si spezzò una notte, all’ottavo piano di un palazzo nel centro di Milano.
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