Racconto di Serena Penni

(Terza pubblicazione)

 

Stasera sei più bella che mai. La luce delle candele si riflette nei tuoi occhi castani. Dalla finestra aperta entra l’aria profumata dell’estate appena iniziata. Il prato di fronte a casa è illuminato dalla luce della luna. Sei stata gentile ad accettare il mio invito. Deve esserci una sagra in paese, la musica della banda arriva fino a qui. Ci facciamo un salto? No, preferisci non andare, lo capisco. Hai bevuto troppo, sei stanca. Il vino ci è sempre piaciuto. Solo che io lo reggo meglio di te. Tu ogni tanto quando bevi dici cose di cui poi ti penti. Una volta, per esempio, ai tempi del liceo, mi hai messa in ridicolo con i compagni. Hai descritto la mia biancheria intima, poco sexy, da bambina, e tutti hanno riso. Ma è acqua passata.

Rouge, il gatto, ti gira intorno e tu, stranamente, lo ignori. Lo hai sempre amato. Avete gli occhi dello stesso colore. Hai amato tutti i miei gatti. Da piccola non hai mai potuto tenerne uno, tua madre li detestava. Hai avuto una madre anaffettiva, fredda. Ti compativo per questo, e ti invitavo spesso a casa mia: con me e la mia famiglia stavi volentieri. Anche i miei genitori si erano affezionati a te. Ti ricordi di quando ci divertivamo a cercare di scoprire se i miei gatti capivano il loro nome? Sembra ieri che eravamo ragazzine.

In questi giorni fa un caldo infernale. Si sta bene solo di sera. Ti dispiace se fumo una sigaretta? Va bene, mi giro verso la finestra. La luna piena mi rende questa serata meno amara. Mi sembra che niente di ciò che è accaduto sia vero. È tutto talmente bianco. Una settimana fa abbiamo festeggiato il mio compleanno, proprio qui, nella casa di campagna che ho ereditato dai miei genitori. Ormai sono undici anni che se ne sono andati, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. Era meravigliosa la torta, vero? Con la panna e la glassa rosa. Forse era una torta da bambina, come un tempo lo è stata la mia biancheria. Ma che importa? Tu non l’hai nemmeno assaggiata, ci tieni alla linea. Avrei voluto che ci fossero i miei genitori. Mio figlio invece non lo volevo. Ora te lo posso confessare: non lo amo. L’ho amato un tempo, o forse ho amato solo l’idea di avere un figlio, chi lo sa. Ma sono domande senza senso, è come chiedersi se amo questa luna o i miei occhi che mi permettono di vederla. In realtà, non volevo avere figli. L’ho fatto per Raffaele, lui ci teneva. Lo so, sei stupita. Sei addirittura turbata; te ne vorresti andare, lo intuisco. Sei sempre scappata quando ti faceva comodo. Persino dai figli: neanche tu ne volevi, e infatti hai abortito due volte. Con tuo marito hai finto che fosse capitato naturalmente. “Sarà il nostro segreto”, mi hai detto in taxi, con la faccia ancora stravolta dai crampi alla pancia. E lo sarà, credimi.

La sera del mio compleanno, Raffaele è arrivato in ritardo. Tutti si domandavano dove fosse e io sudavo freddo per la preoccupazione e l’imbarazzo.

Rouge si struscia contro di te e ti guarda incuriosito, perplesso. Poi guarda me. Forse si chiede cosa ci stiamo raccontando. Di solito è con lui che parlo, la sera, quando non ho voglia di andare a letto, quando Raffaele tarda a rincasare, quando il bambino dorme e io mi metto alla finestra a guardare il paesaggio e a fumare. Solo che stasera ci sei tu con me, la mia amica di sempre. Ne abbiamo passate tante insieme, ed è per questo che ti ho chiesto di venire: mi sentivo sola e avevo voglia di parlare un po’. Ma no, c’è anche un altro motivo, e la tua espressione mi dice che già lo immagini. Torniamo a quella sera, la festa dei miei quarant’anni. Quando Raffaele è arrivato, è corso ad abbracciarmi. Stringeva un mazzo di rose rosse ma aveva l’aria stanca. Aveva un’espressione preoccupata e io allora mi sono preoccupata a mia volta. Ho passato tutta la sera a osservarlo e ad avere paura. Il mio quarantesimo compleanno è andato in fumo. È stata una brutta serata, decisamente la più brutta della mia vita. Anche peggiore di quella in cui sono andata a trovare mio padre e l’ho trovato morto sul tappeto con un libro di poesie di Rilke stretto nella mano destra e ai piedi le scarpe gialle che usava per correre.

Raffaele era anni luce lontano da me. Mentre mi abbracciava, mentre soffiavo le candeline, mentre mi baciava facendomi gli auguri, cercavo i suoi occhi e i suoi occhi fuggivano. Così, non ho prestato attenzione né ai grilli che frinivano, né alla carta colorata dei regali inutili e generosi, né al profumo di citronella e di fiori, né ai complimenti ipocriti e ridondanti. Tu ti davi da fare come se fossi stata la mia mamma, la mia cameriera. Salutavi gli ospiti, offrivi da bere, affettavi la torta. Io non ho mai perso d’occhio Raffaele, sempre più stanco e annoiato via via che passavano le ore. C’eri anche tu quando l’ho conosciuto. Eravamo a cena da Ilaria. Erano i tempi dell’università. La casa era piccola e le persone continuavano ad arrivare. Lui è venuto verso la fine. È così strano che non te ne ricordi, perché io invece di te mi ricordo benissimo. Di te com’eri quella sera, intendo. Con i capelli legati e il maglione azzurro. Ti ho sempre ammirata. Forse dovremmo dormire, hai l’aria assonnata. Eppure ci sono delle cose che ti devo dire. Ho lasciato il bambino da Monica apposta per stare da sola con te. Raffaele è via per lavoro, o almeno così mi ha detto. Vorrei che fossimo spensierate per un’ultima volta, ma stasera tutto mi sembra diverso. Nell’aria c’è una malinconia che si appiccica alle cose e non ne vuole sapere di lasciarci in pace. Persino il gatto è mogio: osserva la tavola apparecchiata e sembra chiedersi perché non abbiamo mangiato nulla. La pizza che avevo comprato ormai si è raffreddata. Mi torna in mente quel pomeriggio di tanti anni fa in cui mangiammo pizza fredda sulla spiaggia e poi all’improvviso tu ti mettesti a piangere immaginando la mia morte. E pensare che forse nemmeno di questo ti ricordi. Ma la mia ultima festa di compleanno, quella no, non puoi averla dimenticata. A un tratto, mentre la musica alta mi spaccava i timpani e le luci psichedeliche mi accecavano, mentre osservavo la gente ballare scalza sull’erba come un branco di animali impazziti, mi sono guardata intorno e ho visto che Raffaele non c’era più. Si era volatilizzato come un insetto. Allora ti ho cercata per piangere con te. Qualcosa però non tornava: anche tu eri sparita, e non era nel tuo stile. Sono entrata in casa, ho fatto le scale senza neppure accendere la luce e mi sono avvicinata a quello che un tempo era lo studio di mio padre. La porta era socchiusa. Eravate distesi per terra, sul grande tappeto persiano che copriva quasi tutto il pavimento. Tu gli tenevi la mano. Come stasera, la luna filtrava crudele e bianca dalle finestre. Il resto lo sai. Ho voluto incontrarti per dirti che vi ho visti. Per dirti che la cosa che mi ha fatto più male non è stata capire che avevate fatto l’amore, ma sentire che Raffaele con te parlava, si confidava. Sono stata quasi mezz’ora ad ascoltarvi, e ho sentito la storia dei debiti, dei conti in rosso, delle firme falsificate. Ho sentito una storia che io, cosa credi, già sapevo da tempo. Ma volevo aspettare che fosse Raffaele a raccontarmela, invece lui ha preferito te. L’amica fedele. L’amante puttana. Quando vi siete alzati, mi sono mossa a mia volta – già, ero io quel rumore. “Sarà stato il vento”, hai detto tu, e intanto io versavo in silenzio lacrime di disperazione e scivolavo piano in una vita nuova. Quando, nel pomeriggio, ero andata a ritirare la mia torta di compleanno, non avrei mai pensato che quelle sarebbero state le mie ultime ore di felicità, anzi, non sapevo nemmeno di essere felice. Ti ho sempre ammirata e ti ho sempre invidiata. No, non per la tua bellezza. Non sei così bella come credi. Nemmeno per la tua simpatia o per la tua intelligenza. Sono più simpatica e più intelligente di te. Ti ho invidiata per la tua capacità di apparire sempre quella che non eri, di dare agli altri sempre quello che volevano, di rispecchiare nei tuoi occhi anonimi l’immagine di ogni persona che ti guarda e restituirla migliore. Lo hai fatto con me, per anni: sei stata la sorella che non ho avuto, la madre che se n’è andata troppo presto. Lo hai fatto anche con Raffaele. Ormai non ti credo più. Vorresti dirmi che ti dispiace ma io ti blocco per dirti che ti perdono. Perché in fondo le cose succedono a chi se le merita. A me non resta che raccogliere i cocci e farmi da parte. Domani Raffaele ti troverà qui; lo aspetterai, del resto non hai scelta. Vedi, ho fatto bene a non buttare gli oppiacei che prendeva mia madre, alla fine. È bastato metterne qualche goccia nel tuo calice. Tu non ti sei accorta di nulla. Hai detto che il vino era buonissimo, che sapeva di spezie e di sottobosco. Già, sottobosco è l’ultima parola che hai pronunciato, poi ti sei addormentata. Di vini non ci hai mai capito nulla, eri un bluff anche in questo. L’idea di fare ciò che poi ho fatto mi è venuta solo in quel momento. O forse no, l’ho sempre avuta. Ho usato il coltello più affilato che avevo. Hai emesso dei gemiti, un grugnito. Le tue mani si sono mosse senza criterio. I tuoi occhi erano aperti ma non vedevano già più nulla di questo mondo. Non so se ti sei resa conto di cosa è successo. Non so se hai sofferto. Tagliare, dividere, districare è stato più complicato di quanto pensassi. Pettino i tuoi capelli biondi, che non sono mai stati tanto luminosi come stasera. Sei sul divano e con quel copriletto sistemato a regola d’arte sembri esserti messa a riposare. Devo occuparmi di quello che resta di te, devo mettermi in salvo. Ma prima di iniziare, prendo un panno bagnato e ti pulisco la faccia, poi ti metto un filo di rossetto e un po’ di mascara. Voglio che Raffaele ti veda al meglio, domani, quando vi incontrerete. Ci metterà qualche istante prima di rendersi conto del tuo ultimo inganno, prima di scoprire che ormai non sei altro che una testa tagliata, e non puoi servirgli più a nulla.

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