Racconto di Luca Manni

(Prima pubblicazione)

 

«Mi sa che sono incinta» dice entrando in soggiorno. Proprio adesso che la Marcuzzi sta per annunciare chi sarà eliminato dalla casa.

Mi giro a guardarla.

«Cazzo dici? Hai un ritardo?»

«Ho fatto il test.»

«Vabbè a volte si sbagliano.»

Torno a sbirciare la Marcuzzi, stasera ha un vestitino da paura.

«Ne ho fatti due» dice, e si muove rapida verso la cucina. Uno sportello sbatte forte, ma il cozzo non è seguito dalle scuse che mi sarei aspettato. Ho bisogno di girarmi una sigaretta.

Ormai, per qualche strana magia, mi sveglio subito prima che la bambina inizi a piangere. Non è tanto la rottura di palle per me, io me la cavo con un paio di bestemmie, quanto per la mia ragazza, che ha enormi problemi di sonno e prende ogni sera tre o quattro schifezze diverse per riuscire a dormire. Ci mette ore per addormentarsi e quando finalmente ci riesce esplode l’allarme antiaereo. Questo, si capisce, porta a una serie di eventi a catena: il suo malumore, che va ad aggiungersi al mio, che insieme creano una miscela esplosiva che innesca conflitti su più fronti, che sono faticosi da sostenere e creano stress e diventano causa a loro volta di pensieri neri che non ci fanno dormire.

«Dai, stavolta vado io» dice.

«Ma no, ero già sveglio.»

«Ma se russavi fino a un secondo fa.»

«Quindi se mi hai sentito non dormivi neanche tu.»

«Sei pesante.»

Mi alzo. La cacca non l’ha fatta, forse ha fame. Vado a prendere il biberon e glielo ficco fra i dentini, ma lei lo rifiuta e continua a piangere. La faccio saltellare e ondeggiare in braccio su e giù, di qua e di là, mentre le canticchio la melodia di un pezzo punk anni ‘90. Niente. Fra tre ore devo essere in ufficio.

«La ginecologa dice che è raro ma non impossibile» dice infilzando con la forchetta due, tre maccheroncini come se volesse ucciderli.

«Quindi che facciamo?»

«Boh» dice, e torna alla carica picchiando sulla scodella.

«Me la immagino femmina» dico. «Forse perché vorrei una femmina.»

«Anch’io.»

«La chiamiamo Luna? Mi piace un sacco. Splendente, candida, ma anche notturna, misteriosa.»

«Sì, bello. Lunina, Lunetta…» lo dice come se l’avesse davanti. Ho un senso di vertigine, eccitante, spaventoso.

«Faccio il caffè?» chiedo.

«C’è da finire quello di stamattina.»

Che bello. Sono sempre contento quando scopro che c’è già il caffè pronto. Me lo verso e mi giro una sigaretta.

«Il problema è che è troppo figa» dico.

«Preferivi che fosse un cesso?»

«Da un lato sì dall’altro no.»

Sto cercando di spiegare al mio amico saggio, seduto di fronte a me al di là di due boccali di birra semivuoti, che provo per il ragazzo che esce con mia figlia un florilegio di sentimenti negativi, inutile cercare di elencarli, sono praticamente tutti quelli che esistono.

«L’idea che lui la veda come una preda sessuale mi fa prima di tutto vomitare, poi mi fa girare i coglioni. Chissà cos’avrà di speciale sto qua» dico.

Con lo sguardo fisso sul bicchiere, l’amico saggio alza un sopracciglio.

«Dài cazzo! Fai veramente schifo!»

«Ti fa schifo solo perché parliamo di tua figlia.»

Bevo un altro lungo sorso di birra.

«Dovrebbe importarmi solo che lei sia felice» dico. Forse inizio un po’ a biascicare. «Ma non ci riesco. Io lo so che lei deve essere libera, deve sentirsi libera, ma quando fa certe cose, quando dice certe cose, è come se mi stesse tradendo. Mi sento tradito! Ma scusa, allora cosa ho perso a fare quasi vent’anni della mia vita, ogni secondo di questi vent’anni a cercare di insegnarti le cose giuste, i principi giusti, se poi… Il fatto è che lo so che non ha senso, ma è più forte di me! Sono geloso marcio di lei! E non solo per il tipo che si scopa, ma anche perché esce in minigonna mezza nuda, ma cosa devi far vedere? A chi? Poi vabbè, le idee politiche che ha… Mi è sfuggita di mano, tipo. Vorrei tenermela tutta per me, vorrei che pensasse e facesse tutto quello che voglio io…»

«Se pensasse come te sarebbe una libertina e, a quanto pare, non ti andrebbe bene. Usciamo a fumare?» dice l’amico saggio, e passando davanti al bancone ordina altre due birre.

Il cielo è grigio, la clinica è grigia. Non fa né freddo né caldo, è un po’ umido, forse. Ho appena spento una sigaretta ma ho già voglia di fumarne un’altra. È normale che ci metta tanto? Non potrebbe almeno mandarmi un messaggio? Tutto bene, sto per uscire, la nostra libertà è salva. Qualcosa del genere.

La porta della clinica si apre lentamente ed eccola lì, la madre mancata che ha fatto di me un padre mancato. Mi sorride con uno sforzo per cercare di togliermi ogni preoccupazione, ma ci riesce solo in parte.

«Com’è stato?» chiedo.

«C’è di peggio.»

«Hai fame? Andiamo al bar?»

«Sì, voglio un caffè.»

Luna esce dalla sua stanza di fretta, si infila la giacca e lo zaino.

«Ciao Pa’, non lo so se sono a cena.»

Corre verso di me, mi dà un bacio e scappa via, tirandosi dietro il portone, ma subito la sento imprecare sul pianerottolo e mettersi a bussare piano con le unghie, chiamandomi. Mi alzo dal divano e le vado ad aprire. Si precipita dentro gridando:

«Il casco!»

Mi dà un altro bacio ed esce di nuovo, la sento correre giù per le scale.

Mi metto al PC, devo pagare un’altra rata dell’università. Che palle. Ma si può dare due esami a semestre? Eh, la danza, la moto, il ragazzo, ho capito, ma sono migliaia di euro che ci sputtaniamo ogni anno. Già che ci sono mi guardo una serie in streaming. Come si chiamava quella là ambientata in un ufficio…

Squilla il mio telefono e mi sveglia come uno schiaffo. Sullo schermo due energumeni in armatura cercano di uccidersi con i loro spadoni. Ma non stavo guardando… Il cellulare continua a cercare la mia attenzione: numero sconosciuto. Ancora quei rompicoglioni delle compagnie telefoniche… Invece no.

«Buongiorno, lei è il padre di Luna M.?» chiede una voce di donna.

«…sì»

«Salve, la chiamo dal centralino dell’ospedale S. Orsola, purtroppo sua figlia ha avuto un incidente, può venire qui subito?»

Chiudo la chiamata. Spengo il PC, mi verso un po’ di caffè avanzato, mi siedo sul divano e inizio a girarmi una sigaretta. Che bello quando c’è già il caffè pronto.