Racconto di Barbara Rendina

(Prima pubblicazione)

 

Il primo tuffo è sempre il peggiore, per via del freddo. Marta ha respinto l’acqua facendo uscire l’aria dalla bocca e ha iniziato a muovere gambe e braccia. Arrivata a fine vasca, ha appoggiato i gomiti sul bordo di cemento, fatto uscire l’acqua che era entrata negli occhialini, e ripreso fiato. Ha guardato il cronometro appeso alla parete per sapere quando le sarebbe toccato ripartire, ha rimesso gli occhialini sul naso, riempito d’aria i polmoni e ricominciato a nuotare, l’odore acre e pungente del cloro che le invadeva la gola. I corpi che la circondavano sembravano tutti uguali, privi di sostanza, e lei insieme a loro. Forse prima o poi ci si abitua, ha pensato in quell’istante, come faceva spesso durante il tragitto da scuola alla piscina, quando, passando davanti alla lavanderia a gettoni all’angolo della strada, si rendeva conto di non avere più molto tempo prima di doversi svestire e buttare in acqua.

Dopo tre anni, però, non è ancora riuscita ad abituarsi alla voce dell’istruttore, e il suo gridare è un’eco che la segue per tutti i cinquanta minuti che trascorre in acqua. La agita la vista dei suoi piedi a bordo vasca, quando volta la testa nella bracciata a stile libero, e passa l’ora di allenamento, una vasca dopo l’altra, facendo del suo meglio per evitare quelle urla. E il vociare continuo, lo strusciare delle ciabatte, il rimbombo delle tavolette lasciate cadere per terra la infastidiscono ancora come il primo giorno.

Durante l’ultima vasca ha coordinato i movimenti sapendo che, se l’avesse eseguita in modo corretto, l’allenatore non gliene avrebbe aggiunte altre. E quando finalmente è arrivata alla fine, si è immersa sott’acqua per lavare via la tensione dell’allenamento appena terminato. Ha chiuso gli occhi e buttato fuori l’aria lentamente. Per qualche secondo, in mezzo ai suoni ovattati, tutto è rimasto immobile. Poi ha riaperto gli occhi e ha guardato la corsia accanto alla sua. Il ragazzo con la cuffia verde brillante era lì, sott’acqua come lei, il corpo lungo e magro che cercava di resistere alla pressione. Per settimane, di fronte allo scaffale delle scarpe appena fuori dallo spogliatoio, aveva cercato una scusa per parlargli. Forse perché le sue mani esitavano quanto quelle di Marta nell’infilare le ciabatte prima di accedere agli spogliatoi, e come lei restava spesso zitto in mezzo ai compagni di squadra, che parlavano e ridevano forte mentre riponevano le scarpe sui ripiani per entrare in vasca il più in fretta possibile.

I loro occhi si sono incontrati dietro la plastica scura degli occhialini.

«Ciao», ha detto lei, ma dalla bocca è uscita soltanto una scia di bolle. Lui l’ha salutata con la mano.

«Come ti chiami?», ha proseguito Marta, muovendo le gambe.

Lui ha mosso le labbra. «Alberto», le è parso di capire, «E tu?».

Col fiato che rimaneva loro, hanno mosso piano le braccia, si sono avvicinati al delimitatore di corsia e si sono sfiorati un piede. Ma forse è stato solo un caso. Comunque, tra gli altri che si affannavano per raggiungere il lato opposto della vasca, i loro corpi, tesi nello sforzo dell’immobilità, sembravano perfetti. Marta ha continuato a muovere le gambe, poi ha coperto le orecchie con le mani, premendo forte. Era ciò che di più vicino al silenzio in quel momento potesse immaginare. E, in quell’assenza di rumore, lo ha guardato davvero.

Lui ha annuito sorridendo, lei ha ricambiato, poi è dovuta risalire. Appena riemersa, ha ripreso fiato aggrappata al delimitatore. Era sicura di trovarlo lì, ma già la sua cuffia si muoveva a delfino in direzione opposta alla sua, raccogliendo con le braccia quanto più azzurro possibile.