Racconto di Silvia Andrea Russo

(Prima pubblicazione)

 

«Quando il prossimo appuntamento?»

«Non so se ci sarà.»

Tossisco. Scivolo sempre nella sua nube di fumo, quando mi cammina a un palmo e stringe tra le labbra la solita sigaretta.

«Pensavo fossi innamorata.»

«Dopo così poco?»

«Vuoi un tiro?»

«Se soffoco, come fai senza di me?»

«Mmm.»

Quando fa quello strano mugolio di rassegnazione ha un che di maledettamente curioso e al contempo tremendamente tenero. Mi piace spiazzarlo, a volte.

Saliamo in macchina. Stessa routine. Giocherella con le chiavi, ascolta il rombo del motore.

«Signorina, dove ti porto?»

«Decidi tu.»

«Complicato.»

I suoi occhi divertiti hanno striature grigie.

«Al mare.»

Fendiamo la sera bruna agli angoli del cielo e la città alta degrada fino a farsi una striscia di casupole addossate alla spiaggia. Ci piace parlare senza guardarci negli occhi, non serve vedere che ci siamo per sapere di non essere da soli. Ci basta sentirci. Avvertirci.

Conversiamo di frammenti di vita, con la leggerezza di uno scherzo, con la serietà del segreto.

Lui sfida la terra e il vento, mi indica con il capo gli ulivi e le strade e i paeselli che punteggiano la collina e con puerile entusiasmo contempla l’irregolarità vaporosa della luna. Allestisce siparietti, poi torna a parlare di sé, a chiedermi di me.

«Ridillo ancora, signorina.»

«Perché?»

«Mi piace come dici il mio nome.»

La notte è frizzante, al suo fianco, scoppiettano le stelle.

Raggiungiamo il parcheggio di un lungomare brulicante di vita minuta, ordinaria.

«Stai qua, scendo io. E chiuditi dentro.»

Lo osservo dal finestrino armeggiare al bancone, sventolare le mani, far roteare il portafoglio.

«Ho preso una margherita e una con le patatine, ovviamente. E due lattine di coca cola.»

Mangiamo pizza al buio, ginocchio contro ginocchio, la sua giacca è un tutt’uno con i sedili e le pareti e la notte.

«Chissà cosa staranno pensando di noi.» Ridacchia con le guanciotte rimpinzate di pizza.

«Dicono che abbiamo qualche segreto.»

E ci riconoscono il potere di saperla solo noi, la verità. Quale, non lo so.

«Aspetta, che hai qui?»

«Eh?»

Si pulisce le punte delle dita sul tovagliolo di carta e me le passa nell’interno coscia. Ha un tocco aggraziato, audacemente timido. Ma lo sento e mi prende un certo teporuccio.

«Ti si sono rotti i collant.»

«Ieri mi hanno chiesto come riesca a sopportarti.»

Lui fa spallucce. Finge sempre che non gliene importi.

«Perché tu, insomma…»

«E cosa hai risposto?»

Volta appena il capo verso di me. Occhi stretti, sorriso furbo, sguardo indagatore.

E il suo odore, da ogni centimetro del suo corpo, un odore che non ho mai capito che odore sia. Sa di buono, di carne, sa di bianco, di latte, quasi, di umano, e non so nemmeno se sia un odore, ecco, o un sapore, ho la vaga impressione di aver trattenuto questi suoi stessi ormoni sulla bocca, di aver accolto il suo fiato odoroso quella sera che, per gioco, per finzione, forse, conobbi la morbidezza del suo labbro.

«Che non ti conoscono abbastanza.»

«Mmm.»

Con forza infila la cannuccia nella lattina di coca cola.

«E il tuo racconto?»

«Va.»

«Quando lo pubblicherai?»

«Presto, spero.»

«Di che parla?»

«No.»

«Dai!»

«No.»

Lancia un’occhiata afflitta sopra la mia testa e divarica le gambe contro la mia minigonna in pelle. Rumorosissimo sorso di coca cola. Ruttino.

«Io voglio solo aiutarti.»

«A fare cosa?»

Pilucca qualche patatina. Ha la maledetta abitudine di assaporare la sospensione delle cose. E ogni volta mi pervade un senso di incompiutezza che sa della nostalgia del non ancora.

«A fare cosa?»

«Io voglio poter andare oltre.»

Mi batte contro il petto il mignolino, l’unico dito salvo dall’unto del cibo. Gli si sono allungate le labbra in un sorriso ammiccante.

«Non mangi?»

*

Squarciamo la notte di velluto, alla mia sinistra si srotola un mare che si sfalda ai confini del cielo. Inseguiamo il vuoto, come nostro solito, per donarci il tempo di un pensiero in più. Di una parola in più.

«Non canti questa canzone?»

Lui ha il profilo tagliato con le forbici dalla punta arrotondata, lungo, sbarbato, come quella sera, me lo ritrovai contro il petto e fui costretta a decidere che fare della mia reticenza incrostata. Che fare delle promesse che mi ero sussurrata, della pelle spessa della quale mi ero rivestita, di quelle crepettine che ancora odoravano di disincanto.

«Cantamela tu.»

Fu come se in quella manciata di secondi si fosse giocata la mia sorte, in quell’attimo che precedette le mie dita tra i suoi capelli corvini firmai il lasciapassare per la mia salvezza. O per una dolceamara condanna.

«Cambia, scegline un’altra.» Metto la prima canzone che capita.

«Bella, questa.»

E forse mi sono costretta io, a scegliere, e ogni volta che si spalancano i suoi occhi di lupo, si rinnova la chiamata contro l’ignavia dei sensi. È la labilità, la fugacità dei giorni.

«Mi ricorda la sera che ci siamo incontrati.» Mi scoprii ancora viva.

«Fermati.»

E com’era dannatamente speciale.

«Stai male?»

La musica si spegne, la spiaggia si è fatta di sassi barbari e tronchi spezzati.

«Accosta da qualche parte.»

«Cos’hai?»

Ci intrufoliamo ai margini di una boscaglia di sterpaglie.

Frugo nella borsa e tiro fuori un ritaglio di carta spiegazzata, a quadretti.

«Tu mi fai impazzire.» biascica. La mano sul capo.

«Lo so.»

Mugolio. Occhi al cielo.

«Leggilo.»

«Non lo voglio, mi hai fatto prendere un infarto.»

Ha gli occhi pungenti, come quando mi parla, con la prevedibilità di un copione ritrito, delle ragazze carine che incontra in giro e poi mi scruta, attento, sperando in una mia micro espressione del volto che gli faccia esclamare, ridendo:

«Quanto sei gelosa!»

«Bene, allora significa che non ti interessa davvero.»

Devo avere il mio solito faccino da bimba offesa, quello che a lui piace canzonare.

«Che fai? Sto scherzando!»

Fa scivolare la sua mano sulla mia guancia. Mi sfiora le labbra con il pollice.

«Scemo.»

«Permalosetta.»

«Leggilo.»

Sospira. Con una mano afferra il foglio, con l’altra, lunga sopra il capo chino, giocherella alla cieca con la luce della macchina.

«Ad alta voce.»

Sguardo ancora di sfida, occhi grandi.

«Come dici tu, signorina.»

*

Me ne andavo in giro, nella notte della città, e una volta ho visto due ragazzini baciarsi le labbra.

La perplessità si muove come le sue sopracciglia, che si alzano, mentre si chiude il mento nella mano e fa cadere lo sguardo in basso, perso. Ma forse non è nemmeno perplessità.

«Cosa?»

«Niente.»

Contro il nostro stesso muro, sai, quello stinto di rosa antico, dove le nostre ombre avevano imparato a sussurrarsi “dormi bene” e a sfiorarsi, piano.

Le ho viste, creature fatate, giocare all’amore, come bambini, e conoscersi, e saltare, in punta di piedi, e farsi tutte di corpi volatili, impalpabili e sottili, e poi ondeggiare, restare sospese nell’attimo fragile in cui si cuce il tempo. Un eterno ora. Forse un po’ ti ho pensato, e ho sorriso, tu, che mi annusi i capelli e mi fai ciao da lontano.

Nella notte della città, poi, quei ragazzini non li ho visti più. Se li è presi il buio, burloni, li hanno soffiati via, nell’aria, i miei fanali accesi.

Perché tu hai il mare che ti tremola negli occhi. E della notte, tu, hai paura.

*

Aleggia un vuoto pungente che spiana l’acqua e che carica d’affanno il respiro del mare. La vita si è fatta rada, rara, remota, dietro alle palme, tra l’erba sfilacciata, al di qua dei muretti.

Guarda dritto, fissa oltre il vetro, dove la strada si perde nel buio. Ha gli occhi di perla di quando mi fece per la prima volta il dono di piccoli pezzetti della sua anima in subbuglio. Ha gli occhi di perla di quando ebbi l’ardire di dirgli tutto, troppo, forse, e poi mi sentii nuda come non mai. Ha gli occhi di perla di quella notte d’inverno, quando temette che non mi sarei più avvicinata, e allora mi ricorse con l’auto solo per sapermi accanto al suo finestrino, con la sua mano aperta contro il vetro.

«Quando il prossimo appuntamento?»

Sospira a stento parole di gola. Lente. La luce di un fanale fa dei suoi lineamenti, per un istante, solchi bruni, di una serietà incisa con lo scalpello.

«Non lo rivedrò.»

Abbassa il finestrino, inspira la notte, la sabbia e il sale. Poi mi guarda, ancora.

Ha gli occhi di perla e, quando ha gli occhi di perla, mi pare di capire tutto. E mi pare di non capire niente.

*

Cerchiamo la città alta, nel silenzio tardo di una notte stanca, stanchi gli ulivi e le strade e i paeselli. Non me li indica più.

«Tu mi somigli.» bisbiglia, la voce chiusa. Gli occhi di perla gli brillano sotto ciglia fitte.

«Lo so.»

È tutto di cristallo, qui attorno, l’aria.

«Te l’avevo già detto?»

Respiro una fragilità che immobilizza.

«No.»

Eppure vorrei frantumarla. Liberare. Lui abbozza un sorriso, una nostalgia vaga.

«Bella, quella tua storia.»

La macchina avanza a fatica tra gli scheletri di vegetazione dormiente. Non basta l’inerzia dei pensieri taciuti. Finiamo per trovarci fermi a un incrocio. Non passa nessuno.

«Io voglio poter andare oltre.»

Espiro e non so nemmeno se abbia parlato, il mio fiato, o se mi sia rimasto tutto tra il cuore e la lingua. Ma lui mugola, nell’ovattato che ci sommerge, si passa le dita agli angoli degli occhi e poi me li dona, ma solo per un istante.

«Tu vuoi certezze,» è tornato a fissare la luce opaca del semaforo. Sa di una dolcezza antica, ancestrale, rassegnata, e le perle sono lucide «ma non sempre potrai averle.»

*

«Buonanotte.»

«Dormi bene.»

Scendo dalla macchina, nella notte che tace.

«Aspetta un attimo!» soffia.

Non ho ancora chiuso la portiera.

«Ti devo dire una cosa.»

Prima del terremoto, i muri tremano, tremano di una vibrazione che è moto d’aria, e di terra, e di una vita che freme dal profondo. È la vita che ha fame di vita, che ha fame di tempo, che ha fame di carne.

«Dimmi.»

Mi si agita qualcosa in petto, l’attesa, e pure lui, trema. Gli trema la mano, con la quale se ne sta appoggiato al passeggero, e dalla mano la vita gli fugge nel braccio, e poi nel petto, nel collo, nel volto. E gli tremano gli occhi, che sono perla, che sono acqua, che sono anima, che sono mare.

«Ho ancora fame.»

*

Nel buio pesto del primo mattino, tutto è elastico. Tutto è intatto. Tutto dorme, anche la vita.

«Stai attento.»

Sulla porta, me ne sto, la sommità del capo umida delle sue labbra, il naso intriso del suo odore, lo osservo allontanarsi lungo la strada alberata, e poi si fa piccola piccola, la macchina, finché non li smarrisco, lui, i suoi fanali, la sua ombra, i suoi occhi, nella notte della città.

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