Racconto di Gianluca Conocchiari
(Prima pubblicazione)
Il tempo scorreva lento, i meccanismi degli orologi ticchettavano costanti; più pesanti del giorno prima e più leggeri del giorno dopo. La notte s’illuminava di un buio incerto e inquieto. La luna vegliava, stanca e con due crateri sotto agli occhi simili a delle borse cariche di materia extra terrena e malinconia.
Una falena dipinta di ogni sfumatura di colori freddi e scuri aveva smarrito la via ed errando s’appoggiò confusa sulla nuca di un uomo seduto su di una panchina vecchia e arrugginita posta nel punto più tetro del parco, sotto a rami spogli sorretti da tronchi rinsecchiti e vecchi, saggi si direbbe, certamente tristi.
Il tempo si fermò. La bottiglia di birra che l’uomo teneva in mano cadde a terra disintegrandosi. La falena volò via. Il silenzio s’impossessò prepotentemente di quel presente e annullò i colori e le immagini. Rimase solo il fioco bagliore di quel satellite scheggiato, appeso su di un cielo instabile.
Era una notte in cui dormivano tutti, tranne lui, e poche altre entità sfuggite alla ragnatela ermetica e inquietante dei sogni. Una di quelle notti in cui si aspetta solo che i raggi del sole scaldino la terra bagnata e rinnovino la speranza per un giorno ancora. Il nascere del sole rappresentava per lui la rediviva opportunità di andare al bar alla solita ora, che poi era pure l’ora di lei.
Ogni giorno ci andava e ogni giorno la vedeva arrivare, con i suoi lunghi capelli corvini e con quel cappotto rosso carminio che le donava un’aria da star. Quell’uomo dalle scarpe sporche e appiccicose di birra era impaurito dalla bellezza di quella donna. E… anche la donna, sovente, sembrava rabbrividire dinanzi alla sua stessa bellezza, lo si capiva dal colletto del cappotto ben alzato fino ad arrivarle quasi agli occhi, fino a coprirle le orecchie che lui immaginava fossero piccole e delicate… lo si capiva dal fatto che non aveva coraggio di abbassarlo quel colletto e stare a viso scoperto tra la gente.
E se lo nasconde una con un volto così puro, allora in un qualche modo deve averne una paura terrificante. Pensava lui.
Era una di quelle donne dall’aura nobile e dannata. Poteva tranquillamente essere protagonista di un romanzo di Oscar Wilde. Eppure quella sua anima bifolca, la occultava bene, come odiasse davvero essere guardata. Come se la difendesse. Come se fosse gelosa di quella bellezza oscura, non degna degli occhi di comuni mortali. Un fascino che faceva paura, un alone che appannava la luce.
Lui era ubriaco di lei, innamorato come un artista lo è della propria idea di opera; anche senza averla progettata, anche senza averla creata. Innamorato senza aver bisogno di conoscerla.
Lui la osservava con tanta attenzione e scrupolo al punto che conoscerla davvero era solo un dettaglio inutile. Sapeva esattamente, dalla prima volta in cui l’aveva vista entrare, cosa le avrebbe detto se solo lei avesse abbassato quel colletto, lasciato sul tavolo la tazzina di caffè e lo avesse guardato. Anche una sola volta. Anche un solo istante, di quelli che durano in eterno e sembrano stoppare il proseguo dei differenti percorsi di cui è composta la vita. In quel caso lui avrebbe indossato la sua espressione più elegante, avrebbe sepolto le occhiaie frutto dell’insonnia cronica e avrebbe giocato con le metafore più dolci, paragonando gli occhi di lei alle opere d’arte più evocative. Avrebbe aperto i cassetti della propria mente, ed estratto le note messe da parte nelle notti di sbronze sotto le stelle. Avrebbe suonato con esse una melodia in grado di descrivere la musicalità di quel corpo perfetto e sinuoso. Lui avrebbe solo voluto toglierle quel cappotto, appoggiarlo delicatamente sulla sedia e morire di paura, far morire di paura tutti i presenti. Liberare quella bellezza terrificante. Arrestare battiti e pensieri non omologati per resistere a tanto fascino. Sì, lui sapeva tutto, era pronto, la conosceva ma… non la raggiungeva mai. Lei non lo guardava mai. Gli occhi non imboccavano mai il medesimo viale. E lui non aveva quel coraggio che impone anche il fatto di farla girare con sfacciataggine per dirle tutte quelle cose. Neanche ubriaco di sonno e alcol, di cui le sue vene erano sempre abbondantemente fornite, avrebbe trovato quel coraggio. Dentro di sé ripeteva come un mantra frasi brevi e semplici invocando una minima torsione, convocando a lui le pupille di lei ma, il boato della vita era più forte di quei pensieri. I tuoni del mondo scuotevano quel mantra che di colpo diventava incerto e incomprensibile. Il terremoto della realtà sbriciolava i sogni. Le cose non vanno quasi mai come vorremmo. Talvolta non siamo bravi neanche a sognare.
Poi lei si alzava di scatto, pagava il conto velocemente e usciva. Come sempre.
Il treno sarebbe ripassato il giorno successivo, eppure in lui c’era la certezza di perderlo ancora e ancora e… ancora. Binari paralleli che non possono incontrarsi. L’illusione di un incrocio.
La falena tornò il giorno dopo, si posò sui vetri infranti e guardò la luna. Sembrava potesse cadere da un momento all’altro quella palla luminosa.
Chissà se cadendo si sarebbe rotta e avrebbe inondato di luce il domani. Il domani che diventando presente avrebbe realizzato tutti i sogni. Dato colore alle falene e fatto incrociare i binari.
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