Racconto di Marina Sparpaglione

“RaccontiConParola-2”

 

Caro Sergio, amore mio, non ho nemmeno il coraggio di dirtelo a voce. Ti scrivo, mi è più facile, così non devo guardarti negli occhi ed affrontare il tuo sguardo intelligente che mi biasima, perché sono vile. E soprattutto non devo rischiare di incontrare una tua carezza, che vanificherebbe ogni mia buona intenzione. Lo sai che sono debole. Lo sappiamo entrambi. Quello coraggioso sei tu. Perdonami dunque, ma tra noi deve finire tutto, per i miei figli, per noi, per la vita di tutti noi, per Maria.”

Quando l’avevo trovata, avevo riconosciuto la calligrafia familiare. La busta aveva un generico “Per te” come destinatario. Avevo aperto la lettera con curiosità e leggerezza, pensando di trovare frasi scontate sul tempo, magari notizie su di noi figli piccolini. Su questioni effimere, insomma.
Dovevo mettere ordine nella casa dei miei genitori, dopo che anche la mamma se ne era andata e tra la miriade di cose accumulate nel tempo, nel fondo del cassetto della scrivania avevo visto quella lettera. Era ingiallita, la busta e la carta di qualità pregiata. Ma consunta, sgualcita. Come se fosse stata girata e rigirata tra le mani a lungo e in più occasioni. Dita piene di rimpianto o forse di incertezza, che l’avevano accarezzata troppo.

Ero stato un impudente scellerato a curiosare tra carteggi privati, senza un minimo di imbarazzo, senza rispetto per i miei genitori, che erano stati giovani ed avevano amato. Non avevo alcun diritto di sapere, anzi, proprio non avrei mai voluto sapere.

“Per te”. Questo “te” mai avrei immaginato fosse Sergio. La lettera mi tremava tra le dita, avevo chiuso gli occhi, provando una fitta al cuore. Non potevo proseguire. Dopo quelle prime frasi, inequivocabili, mi girava la testa, mi sembrava di aver vissuto una vita fasulla. La nausea mi aveva assalito. Avrei voluto vomitare per espellere il corpo estraneo che quella scoperta molesta rappresentava per me. Mi ero accasciato sulla vecchia poltrona di cuoio dello studio di casa, sentivo il sudore inzupparmi la camicia che si incollava allo schienale. Avevo visualizzato i miei genitori da giovani, cacciando via l’immagine di loro, vecchi.  Di quando noi bambini eravamo piccoli e c’era Sergio, e sembrava che la vita fosse una promessa per tutti noi. Mia madre era felice, risentivo la sua voce trillante, rivedevo i suoi vestiti civettuoli, mio padre e Sergio che la riempivano di complimenti. Le serate, soprattutto quelle estive nella casa di campagna, in cui mio padre e Sergio sembravano complici, noi bambini belli e promettenti, viziati e coccolati da tutti loro. Tutto finto dunque. O troppo vero. Avevo riaperto gli occhi, ripreso la lettera, non avevo proseguito ma ero tornato all’inizio, per assicurarmi di quello che avevo letto prima, magari non avevo capito bene, magari era uno scherzo: “Caro Sergio, amore mio…” Amore mio.

D’un tratto avevo compreso la natura malinconica di mio padre, dopo quella loro bella giovinezza. Lui era anche stato diverso, era stato allegro e divertente, ma io l’avevo dimenticato perché la vita scorre e le cose si sedimentano a poco a poco. Solo lì, seduto nel suo studio, avevo realizzato perché c’era stato un periodo prima ed un periodo dopo Sergio in casa nostra.  Una cosa banale, che forse avevo sempre percepito, ma di cui non conoscevo i reali contorni.

Lo “zio” Sergio era l’amico di famiglia, il compagno di studi dei miei genitori. Si erano laureati insieme tutti e tre. A volte mia madre scherzava e diceva che lei era stata innamorata di entrambi, durante l’università. Sergio si schermiva e arrossendo diceva “Ti prego Maria…”, mentre mio padre sorrideva sornione. Sembrava un gioco innocente ed invece nascondeva l’inganno.

Sergio con noi bambini era strepitoso, un compagno di giochi senza eguali. Quando varcava la soglia di casa era un tripudio di strilli di gioia. Portava luce e armonia. La sua fine terribile ed improvvisa ha significato anche il primo grande dolore della mia vita. Un giorno si è puntato il fucile alla testa e si è sparato. I miei genitori erano affranti, sconvolti. Non era stato facile spiegarci il perché di quella scelta. Non ricordo le parole che usarono, se furono diretti o meno, non ricordo se ho elaborato nel tempo che si era trattato di un suicidio o se l’ho capito da subito. La morte è un concetto difficile per i bambini, ma la morte cercata è tradimento ed abbandono. Il tempo e le risorse dell’infanzia avevano sistemato le cose. Quasi non si era più parlato di lui. Solo la mamma ogni tanto, commossa, lo evocava in qualche ricordo. Mio padre invece non ne aveva il coraggio, o così avevo pensato a quel tempo, e tacitava la mamma quando a lei tornavano alla mente episodi su di lui, le faceva un gesto e lei ricacciava le lacrime, rincuorando noi bambini.  Il papà l’aveva cancellato, e anche tutti noi, un po’ per volta, l’abbiamo lasciato andare.

Fino a quella lettera.

Mi era tornato alla mente quell’episodio. Una notte avevo sentito i miei genitori fare l’amore. Era già capitato e la cosa mi faceva male. Sussurravano, convinti che noi bambini stessimo dormendo. Ero sveglio invece, e cercavo di non ascoltare perché sapevo come sarebbe andata a finire. Quella notte la mamma chiedeva al papà “ma tu come fai a saperlo? che è omosessuale? l’hai visto fare qualcosa?”. Forse non aveva usato la parola ‘omosessuale’, ma un termine più rozzo, forse osceno. Il mio ricordo non era chiaro. Il papà non rispondeva, percepivo il disagio, la mamma incalzava. Poi è iniziato il tumulto dell’amplesso, mi era sembrato più affannato del solito, come se fosse disperato. Percepivo qualcosa di animalesco e di violento. Ero un bambino e dell’amore non sapevo ancora nulla, figuriamoci del sesso, ma la mia intuizione era stata nitida, sentivo che mio padre voleva che cessassero le domande, forse si era sentito braccato e scoperto, forse anche eccitato. Pensavo “non far male alla mia mamma”, mentre ficcavo la testa sotto il cuscino per non sentire. La mamma aveva smesso di domandare, il trambusto era continuato ancora un po’ e poi finalmente era stato il silenzio.

Era un bene che fossi abbastanza vecchio anch’io quando avevo ritrovato la lettera, avevo sufficiente esperienza da conoscere ed accettare le imperfezioni e le ombre della vita. Ero rimasto seduto un tempo indefinito sulla poltrona ed avevo stropicciato a lungo la lettera, sgualcendola ancora di più. Dopo lo shock iniziale mi ero calmato. Sergio aveva forse risparmiato a mio padre una decisione, gli aveva tolto il problema in modo drastico. O aveva già capito.  In fondo mio padre aveva ragione, il vile era lui, come scriveva nella lettera che era stata a riposare sul fondo di un cassetto per tutti quegli anni, e che Sergio, il suo amore, non aveva mai ricevuto.

Mi ero messo la lettera in tasca ed ero uscito di casa. L’indomani sarei andato al cimitero e l’avrei portata sulla tomba di Sergio: solo lui aveva il diritto di leggerla per intero.

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