Racconto di Michele Canalini

(Prima pubblicazione)

 

Gurke era un omone biondo dalle spalle massicce.

«Voilà, l’insalata per mia moglie è pronta!».

Il caldo era ammorbante e Gurke aveva voluto preparare, per il rientro della moglie in serata, un piatto fresco ma non frugale.

Aveva rovistato tra dispensa e frigo, in cerca di verdure e spezie varie. Le sue mani pallide, coi tendini in rilievo, avevano spalancato sportelli, rovesciato vaschette di alluminio, scombussolato i cassetti con le posate.

«Lattuga, pomodori, olive, basilico, mais…», ma l’uomo non si sentiva soddisfatto.

Alla fine aprì l’anta del mobiletto sopra il ripiano dei fornelli e vi trovò, con sua sorpresa, un barattolo lucente di cetrioli sottaceto.

L’aria era afosa e opprimente, Gurke poteva sentire sopra la sua testa l’odore rancido della frutta andata a male. Gli ricordava il campeggio estivo, quando lui era un ragazzo e la fame era il primo istinto da appagare.

 

«Eccoli… voi aspettavate proprio me!», esplose in una grassa risata l’uomo, mentre contemplava con postura amletica i cetrioli sul palmo della mano.

Prese quella confezione e si dilungò a rimirarla con compiacimento, come una medaglia.

Iniziò a girare il coperchio ma non riuscì ad aprirla. I tendini delle mani spiccarono ancora di più sul dorso esangue, affannato nella morsa di quel barattolo.

Afferrò una spugna, ci avvolse le dita per avere maggiore aderenza e riprese a ruotare il polso con ancora più convinzione.

Niente, quel maledetto vasetto non si apriva.

Gurke allargò le narici e gonfiò il petto, poi ci riprovò.

Niente, il coperchio non si muoveva. Inchiodato al vetro come un basamento al contrario.

«Maledizione… vado da Pepino, lui ha un sacco di attrezzi da cucina…».

Pepino era l’amico sullo stesso pianerottolo. Gurke si precipitò da lui lungo l’androne appena lucidato, correndo sui marmi policromi del corridoio del palazzo.

Se fosse scivolato, nella foga avrebbe sfondato il portone dell’appartamento dell’amico con un tackle da difensore di squadra da calcio, pattinando sul fondoschiena.

Per fortuna sua e dell’ingresso di Pepino, per puro miracolo rimase in piedi.

Il suo dirimpettaio accolse Gurke con un sopracciglio innalzato.

Le generose scampanellate dall’altra parte del portone lo avevano infastidito non poco, ma un amico che ha bisogno di un aiuto resta pur sempre un amico.

«Lascia fare a me», aveva risposto subito l’altro uomo.

Pepino era un magazziniere di origini portoghesi che era abituato agli sforzi ciclopici. I capelli erano lunghi mentre i suoi occhi apparivano di frequente socchiusi. La pelle era punteggiata di lentiggini mentre la testa, incassata sulle spalle, affiorava in avanti con un aspetto da tartaruga curiosa.

Pepino afferrò con impeto il barattolo dei cetrioli e incominciò a roteare. Prima il polso, poi il braccio, infine tutto il torso.

Il bicipite del coinquilino di Gurke s’inturgidì come un pallone ma il barattolo non ne volle sapere di aprirsi.

L’uomo iniziò a sperticarsi in una serie di improperi pronunciati nella lingua madre, prima di avere un’intuizione. Con movimenti da bufalo si mosse verso l’armadio del ripostiglio e ne estrasse uno strano forchettone dalla forma non facilmente catalogabile. Incise con quegli strani rebbi gli interstizi inferiori dell’esecrato coperchio e riprese a girare con le mani.

Il tramonto s’era fatto limpido e veloce, e le prime penombre avanzavano tra i muri quasi spogli di quell’appartamento da uomo solitario.

Le vene di Pepino pompavano con energia sul braccio ma il coperchio non ne volle di nuovo sapere di aprirsi.

Per la rabbia, il magazziniere portoghese non riuscì a dissimulare un certo tremore.

«Scendiamo da Salatalik!», disse poi a Gurke che lo guardava sconsolato.

Salatalik era un camionista turco che abitava al primo piano.

Era un individuo voluminoso che si espandeva in tutte le direzioni mentre la testa appariva come un trofeo collocato su quella massicciata di muscoli e nervi.

Li accolse con una irridente sghignazzata.

Dal corridoio giungeva un profumo di basilico e passata di pomodoro in padella, mentre alle orecchie dei tre uomini arrivano dalle altre abitazioni i jingle dei quiz televisivi che precedevano i telegiornali.

«Date qua…», sbottò Salatalik con una smorfia di sprezzo sulla soglia del suo appartamento. I suoi occhi sembravano voler scimmiottare gli sforzi dei suoi due amici. Erano vividi di un azzurro celeste ma cerchiati di rosso.

Poi la carotide del camionista incominciò a pulsare mentre il viso da paonazzo iniziò a farsi livido quando il barattolo di vetro, con un inconsulto guizzo, scivolò dalle mani del gigante turco.

Per uno strano mistero, toccando terra, il barattolo non si frantumò ma s’avviò a rimbalzare per gli scalini e si fermò sull’ingresso del condominio, al piano terra, espellendo alla fine della sua rovinosa caduta il proprio ermetico coperchio.

Nel salto finale, il barattolo sputò pure dalle sue viscere un solo cetriolino, di colore verdognolo e con minuscoli aculei nivei, che rotolò sino ai sandali di una donna che era ferma sulla soglia dell’atrio del palazzo.

Il rumore del vetro che aveva rimbalzato con cadenza ritmica su tutti quei gradini era rimbombato lungo la tromba delle scale, su, su, sino in alto, sino alle mansarde. Dove c’erano appunto gli appartamenti di Pepino e di Gurke.

I tre uomini avevano seguito, con un affanno crescente sul loro volto, il barattolo nella sua serpentina palleggiante per le scale ma si erano alfine inchiodati sul pianerottolo di fronte all’entrata.

«E questo di chi è?», formulò la donna, a ciglio asciutto ma con sguardo indagatore.

Era la moglie di Gurke. Aveva raccolto con le dita il cetriolo transfuga.

Il suo sguardo aveva preso a interrogare i visi dei tre uomini che si erano arrestati, quasi che si fossero trovati di fronte a un plotone d’esecuzione.

Nonostante le tenebre oramai prevalenti, una iridescente lama di luce dall’esterno sembrò irraggiare le smorfie dei tre individui, congelati dall’imbarazzo.

Nessuno è in grado di testimoniare che in quel momento avvenne una fulminea catena di trasferimenti di ioni e di neurotrasmissioni di fronte al silenzio di attesa di quella donna che non lesinava di fissare i tre marcantoni nelle rispettive pupille. Ma quella catena di sinapsi si accese, eccome.

Solo alla fine di quell’invisibile ma inconfutabile processo neuronale, le bocche emisero un suono secco che si condensò in un’unica parola.

Gurke guardò Pepino che guardò Salatalik che guardò Gurke.

«Suo!» – «Suo!» – «Suo!».