Racconto di Maria Teresa Innocente

(Terza pubblicazione)

 

È sabato mattina, la nebbia lascia intravedere solo le sagome delle case vicine. La poca luce diffusa è incolore e tutto appare grigio e senza sfumature. Ho freddo. Antonio mi fa salire in auto nel bagagliaio.

«Andiamo, sali e stai fermo» mi ordina.

Sono arrivato a casa di Antonio un mese fa, due settimane prima di Natale. Mi ha presentato al suo bambino e alla moglie come “un regalo speciale”.

Portavo in giro per la casa qualunque oggetto trovassi: ciabatte, scarpe, calzini, nascondevo ogni cosa per poi farla ritrovare. Mordicchiavo un po’ tutto: gli angoli del divano, le gambe delle sedie, i giochi del bambino seminati in ogni angolo della casa. Quello che mi divertiva di più era saltare sui letti e correre da una stanza all’altra. L’albero di Natale era stata la novità più bella, una giostra con tante palline da far dondolare.

Avevo capito che i bisogni dovevo farli fuori casa, che dovevo dormire in un angolo nella mia morbida cuccia, che non dovevo leccare il bambino né prendere il cibo che lasciavano sopra il tavolo in cucina. Avevo imparato a trattenere la pipì per ore fino al momento della passeggiata serale, anche se tre giorni fa mi è successo di farne qualche goccia in casa.

È passata almeno un’ora, credo. L’auto si ferma, siamo arrivati in campagna per passeggiare in libertà, in mezzo alla natura.

Antonio mi fa scendere e io non resisto, mi metto a saltare di qua e di là. Voglio giocare, gli mordicchio la giacca, abbaio, corro. Lui non mi guarda, lega il guinzaglio per farmi stare fermo. Il luogo dove siamo arrivati è spoglio, non ci sono alberi. Dal parcheggio intravedo un ampio cortile in cui si affaccia una costruzione alta al massimo un metro e mezzo e lunga almeno quanto due case unite. Assomiglia a un biscione di cubi addossati l’uno all’altro, con ognuno una porta al centro, chiusa con un chiavistello.

Si avvicina una donna. Alzo lo sguardo e incrocio i suoi occhi severi.

«Buongiorno, sono Antonio Filippi, ci siamo sentiti ieri, questo è il cucciolo di cui le ho parlato».

Mi fissa con l’atteggiamento di una esaminatrice, si avvicina, mi alza le orecchie per controllare non so cosa, mi apre la bocca con le mani, guarda i denti e poi mi fa fare un giro in cerchio attorno ad Antonio.

«D’accordo, può restare. Ha i documenti con sé? È vaccinato?».

«È tutto a posto» risponde il mio umano porgendo una cartellina alla donna.

La donna accorcia il guinzaglio e mi trascina verso l’edificio. Io mi oppongo, punto le zampe, guaisco, abbaio, cerco di saltare, voglio stare con Antonio. Lui si gira verso il parcheggio, cammina velocemente, non mi saluta, non mi guarda, se ne va.

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