Racconto di Anna Maria Pipolo
(Prima pubblicazione)
«Naneeetto! Naneeetto!» Faluccio si sentiva sfottere da quei figli di puttana dei compagni che all’uscita da scuola lo seguivano, lanciandogli ciottoli sulle spalle, ridendo e poi scappando via veloci. Si era impegnato come sempre nell’inutile tentativo di salutare il maestro: un tirare e torcersi dei muscoli del collo, fino a fargli tremare la bocca, per cacciare un difficile e spezzato «Bbu… bbuo… gg… gg…», tra le risate di quelli, che ora continuavano per le vie. Lui faceva finta di niente, tirava avanti e cercava di spegnere una vampa più grande di lui che gli saliva in faccia e nella testa. Qualche volta meditava di rispondere a tono, atteggiando il collo e la lingua alla maniera giusta per sputare dritta un’invettiva: «… Ffi…ggli…di», ma non gli riusciva.
«Che hai, Falù?» gli chiedeva allora mamma Felicetta, vedendolo arrivare con la faccia arrabbiata. Lui alzava le spalle ogni volta, per mesi, fino al giorno in cui buttò il quaderno a terra, lo pestò sotto i piedi e cacciò dalla bocca un suono che somigliava a: «Io non ci vado più!».
Sua madre era già preparata, con mille pensieri fatti da anni.
Faluccio, alla nascita, non era diverso dagli altri bambini. Stava quieto nella culla e piangeva ogni tre ore, quando lei doveva attaccarlo al petto o, se succhiava a vuoto, dargli un po’ di latte della capra. Quella era l’eredità che gli aveva lasciato suo marito: il figlio, la capra e un desco da ciabattino nell’unica stanza della casa, in cima a una scalinata. C’era anche un piccolo orto di sotto, con un cancello sulla via.
Eppure, nonostante il latte e le cure, Faluccio non cresceva, non rideva, non giocava, né imparava a parlare. Quando lei lo metteva di fronte a sé, per fargli imitare i movimenti e i suoni della bocca, lui la guardava e abbassava il mento. Quella volta che lo aveva sentito pronunciare spontaneamente un «… bbo… bba» diretto alla capra, aveva giunto le mani e alzato gli occhi al cielo, con una fiammella di speranza accesa nel cuore. Ma la fiammella si era smorzata nel tempo, come si smorzavano le strambe sillabe nella gola del figlio. Anche nel fisico Faluccio era rimasto basso, coi capelli crespi sulla testa e il naso schiacciato, molto più basso di quei ragazzi che lo deridevano a scuola.
Soddisfatto di aver stracciato il quaderno, destinati i fogli ad accendere il fuoco, Faluccio era contento di restare a casa, aiutare a pulire e rassettare. Lui stesso passava ogni giorno la ramazza sul pavimento dello stanzone, dove tutto era a portata di mano: una catasta di legna, un sacco con le patate e uno con la farina, uno stipo nero, bidoni, secchi, scarpe e suole. Aiutava sua madre a stendere la pasta e tagliarla con la rotella, per cucinarla con le patate e con tanto formaggio della nuova capra, Rosina. Con Rosina parlava, quando scendeva nell’orto per mungere e vedere il latte schiumare nel secchio, e quella sembrava capirlo, perché si girava con gli occhi calmi e lo guardava masticando fili d’erba.
Con lei al seguito partiva ogni mattina, con una carriola e un’accetta, per intraprendere col fresco un sentiero e arrivare in cima alla collina, a spezzare ginestre giganti e tagliare rami da portare a casa. Mentre Rosina strappava e rosicchiava ginestre, lui sedeva a guardare le case sparse, il campanile e le montagne lontane.
Da lì sopra, quand’era festa nel paese, due volte all’anno, sentiva le note della banda, vedeva i musicanti fermi in piazza, pronti a fare il giro per le vie. Allora rinunciava a far legna e tornava giù lesto, in tempo per veder sfilare le divise, gli strumenti poggiati sulle pance e tenuti dalle cinghie, sentire l’attacco dei suoni che, vicini, gli scoppiavano nella testa e gli facevano brividi sulla pelle. Quelle sere scendeva con la madre a sedere sugli scalini opposti al palco, a guardare e sentire trombe e tromboni, violini, piatti e grancasse che producevano in accordo un gran frastuono, fino al baccano grandioso del finale: com’era contento! Gli piaceva il baccano.
A trent’anni Faluccio era ancora piccolo di statura, ma aveva fama di gran ciabattino. La gente diceva: «È diventato più bravo del padre, però… che carattere! E del resto… poverino!».
Mamma Felicetta era pensierosa, quando dentro casa lo osservava seduto al banchetto e concentrato, intento a scegliere viti, chiodi, colle e suglie nelle celle del legno, tutte in ordine. Vicino teneva l’attrezzo di ferro a forma di piede e su quello batteva e ribatteva col martelluccio piccolo o con quello più grande, per affinare e fissare le suole, prima di incollare e cucire, fino a far diventare nuove le scarpe vecchie. A volte batteva più del necessario, anche quando non c’era bisogno, a vuoto sul ferro o su un barattolo vicino. «Basta!», lo rimproverava allora, quando esagerava.
Lo rimproverava anche per un’altra cosa: «Tu non devi essere scontroso con la gente! Non devi tirare le scarpe addosso a quelli che vengono a ritirare, se no vanno via e non ci pagano!». Era lei stessa a farsi vicina alla porta per rimediare, prendere le monete e fare un po’ di sconto.
Faceva un gran caldo, un pomeriggio d’estate, ma Faluccio non se ne curava, percorrendo il sentiero in pieno sole, non al mattino come al solito, solo con la carriola e il martello, senza Rosina al seguito. Cercava uno spiazzo in alto e un muricciolo basso su cui sedersi: non doveva far legna, doveva solo ribaltare la carriola ai suoi piedi, tenerla ferma e su quella picchiare col martello, lungamente, a cadenza, dosare i colpi perché rimbombassero forti nell’aria. A tratti alzava lo sguardo oltre i cespugli, in direzione del cimitero, dove avevano appena seppellito sua madre. Aveva seguito la bara, il vestito bianco del prete e il crocifisso tenuto alto e, prima che la sotterrassero, aveva visto gocce d’acqua scrollate sul coperchio. Lungo la via del ritorno aveva sentito qualcuno mormorare «Poverino!» alle sue spalle, ma quella parola non gli dava fastidio.
Forse quella parola l’aiutava, perché donne e vecchietti, o ragazzi in due, venivano ancora a portargli pianelle e scarponi davanti alla porta, insieme a una moneta, chiamando dagli ultimi gradini, senza arrivare in cima e bussare.
Lui si dedicava alle scarpe dopo aver fatto tutto il resto. Le teneva buttate in un angolo, alla rinfusa, e non sempre ricordava chi era venuto prima e chi dopo. Sceglieva quelle che gli aggradava di aggiustare e le metteva da parte. Quando sentiva gridare dagli scalini «Falù, so’ pronte le mie?» apriva la porta e gliele lanciava appresso appaiate, se erano pronte, con un sorriso di vittoria sulla faccia a vederli scappare e incespicare in fondo alla scala. Se non erano pronte usciva e li liquidava con un gesto imperioso della mano, unito al suono mozzo della gola che – avevano imparato – significava domani, o dopodomani. Avevano imparato anche i nuovi orari, perché dopo una certa ora la porta si chiudeva ed era inutile chiamare «Falù! Falù!», che tanto non si riapriva.
Faluccio aveva un nuovo impegno ogni sera, all’ora del Vespro: il sentiero, la pietra al solito posto, la carriola – o un secchio di ferro – e l’accetta. Col cozzo di questa, su quelli, iniziava a battere i colpi, a lungo e a ritmo, perché si sentissero per tutta la collina e arrivassero a sua madre nel cimitero di fronte, più forti dei rintocchi appena suonati dal campanile.
«Poverino. Sembra il padrone della collina», riferivano gli anziani di ritorno dal bosco a donne e nipoti, avvertendo di non andare mai in tal posto, che lì c’era Faluccio e con quello non si sa…
Ma alcuni ragazzi in gruppo si azzardavano lo stesso, a prova di coraggio. Si appostavano dietro ai cespugli, lontano abbastanza da vederlo e abbastanza da scappare. Uno di loro doveva fare una piccola corsa allo scoperto, gridargli alle spalle «Falù!» e rientrare svelto, prima della sua reazione.
Cuore in gola, sudore in fronte e gambe levate, subito dopo, per correre con gli altri giù in paese a raccontare che l’accetta scagliata si era fermata a pochi centimetri dai piedi: «Giuro!».
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