Racconto di Nadia Anna Renzi
(Prima pubblicazione – 5 luglio 2019)
Un’immagine ho spesso davanti a miei occhi, quella di mio zio Giovanni, mentre cammina con la sua giacchetta dimessa ed i pantaloni troppo larghi, nella cui tasca risuonano gli spiccioli, le 5 e 10 lire che tocca per farle tintinnare, così, per gioco. Qualche volta, quando la sua giacca era appesa in bagno (la casa era molto piccola), io prendevo qualche spiccioletto con il suo tacito e benevolo assenso (lui sapeva e ridacchiava), poi, mentre andavo a scuola, ci compravo le liquirizie dal “nonnetto”, il banchetto di dolcetti vicino al Parco di Villa dei Gordiani.
Era il nostro gioco. Solo il nostro.
Non è stato facile vivere tutti insieme in una casa piccolissima: mio zio, mio padre che era suo fratello maggiore, mia madre, mia sorella ed io.
Ogni tanto mio zio armava un casino fino a discutere concitatamente con papà. Quando litigavano io piangevo e ricordo che una sera scongiurai mio padre, abbracciandogli le gambe, di non cacciare di casa mio zio. Non sopportavo l’idea che lui andasse da solo in giro di notte. Ne ero angosciata.
Mio padre non mi diede retta ed io stetti malissimo, con un senso di colpa enorme. Lo stesso senso di colpa verso mio zio che mi porterò dietro per tanti anni.
Mio padre lo fece tornare il giorno dopo. Per qualche tempo andò tutto bene. Lui era tranquillo ed io pure.
La nostra famiglia fu l’unica che lo accolse, gli altri parenti mettevano sempre scuse enormi, forse anche vere, non so.
Erano gli anni 50-60, le persone come lui finivano in manicomio se non c’era una famiglia che le ospitava. A Roma primeggiava il Santa Maria della Pietà con i suoi stanzoni enormi, le sbarre alle finestre e le urla disperate dei malati che si sentivano fin dal giardino. Meno male che mio zio, lì, in quel posto orribile, non ci andò mai; già la sua infanzia in collegio, come orfano, era stata terribile. Era piccolo, si faceva la pipì addosso e per questo veniva punito in modo crudele: di notte gli tiravano i capelli e di giorno lo rinchiudevano dentro sgabuzzini e gabinetti, al buio, da solo, nei quali, ci raccontava, di aver visto apparire il diavolo.
Quegli anni lo segnarono per sempre.
A mio zio ero molto affezionata anche se provavo un disagio enorme, un dualismo di emozioni contrastanti.
Lo ammiravo perché conosceva tutte le strade di Roma a memoria, ricordando perfettamente verso quale direzione andassero i numeri dispari o pari di ciascuna via. A volte lo chiamavano per piccoli lavoretti, affidandogli, in genere, la pubblicizzazione dei volantini da mettere nelle cassette delle lettere perché conosceva a menadito le strade; li diffondeva dovunque, con le sue gambe e gli autobus.
Era sugli autobus che passava le sue giornate, osservando tutta la città. Era così che trascorreva molto del suo tempo.
A lui, lo zio “mattacchione”, devo la mia passione per la musica classica.
Stava al buio nella cameretta (multifunzione come succedeva allora), ascoltando per ore gli LP delle sinfonie.
Io sbirciavo dal buco della serratura e lo vedevo seduto su questo piccolo seggiolino con il capo tra le mani.
Non ho mai capito perché stesse con le dita fra i suoi capelli lisci e bianchi. Sembrava come se dovesse schiacciare qualcosa o qualcuno dentro la sua testa.
Anche in collegio, quando veniva punito, stava da solo e al buio; chissà se la musica l’aiutasse a cacciare i fantasmi che fin da quel luogo, malsano e crudele, lo perseguitavano. A volte mi permetteva di entrare.
Mi sedevo in terra, emozionata per questa concessione e lui mi elencava i nomi degli strumenti che, di volta in volta, entravano per gli assoli; poi mi indicava il Piano, Pianissimo, Allegro etc etc. Ma come faceva ?!
Non era analfabeta ma quasi. Non so se lui fosse cosciente di queste sue capacità. So solo che, ancora prima della Legge 180, tanto voluta da Basaglia, io bambina sapevo che mio zio, pur essendo un po’ “strano”, era anche una persona con capacità notevoli.
Tutti i giorni questi aspetti geniali sono davanti agli occhi dei familiari di persone come mio zio.
Il guaio è che, spesso, non si conosce la chiave per comprendere quello che accade e poter così apprezzare queste “genialità”, importanti quanto le “stranezze”.
Quando viene meno questa consapevolezza è come se le genialità alimentassero solo la parte malata.
Si diventa succubi dei disagi, tantissimi, che imperversano su una quotidianità imbevuta di pregiudizi.
Quei disagi e quei pregiudizi che non risparmiano né il cosiddetto “strano” né il cosiddetto “normale”, diventando artigli che strappano via qualsiasi emozione positiva.
Tutto questo diventa insormontabile se si aggiunge la “solitudine” che troppo spesso impera nelle famiglie come fu la mia. Non è facile, sapete? Anzi, è difficilissimo!
Una volta, faceva molto caldo, siamo andati tutti al mare o al lago, non ricordo bene! Mio zio indossava un cappotto lungo lungo e passeggiava sulla spiaggia, stupendosi di chi lo guardava con curiosità, ridendo di loro.
Era agosto, quasi 40 gradi e lui indossava il cappotto.
Eppure, per mio zio, “gli strani” erano loro, gli altri, quelli che lo guardavano insistentemente.
I miei genitori, quel giorno, erano proprio a disagio ed io quella volta mi vergognai molto di lui.
Quando in classe qualcuno parlava dei “matti” provavo un misto tra vergogna e rabbia.
Mio zio aveva anche un odore strano, a volte non buono, non di sudore, ma non so neanche cosa fosse.
Non l’ho mai capito e non l’ho mai più sentito.
Fino a qualche anno fa non mi ero proprio resa conto di quanto potessero essere stati pesanti, per me, quei dieci anni della mia infanzia. Dieci lunghi anni.
Forse perché consideravo mio zio una persona e quindi lo accettavo in tutti i suoi aspetti?
Oppure perché alla fine ci si abitua a tutto? Boh, non lo so. Certo, ce ne ha combinate di tutti i colori.
Era dispettoso, cattivello e quando sapeva che c’era qualcosa che infastidiva, lui la faceva apposta.
Quando raggiungeva il suo scopo mostrava un’espressione che non mi piaceva, quasi un ghigno.
Io ci soffrivo, perché poi tutto diventava difficile e la tensione in casa si tagliava con il coltello.
Volevo bene a questo zio così “strano” anche se mi metteva a disagio quando mi chiedeva, sottovoce, chi fosse entrato in casa quel giorno.
Era gelosissimo di noi e non voleva che nessuno ci frequentasse.
Sapeva mettere zizzania tra noi ed i parenti, tirando fuori tutte le sue capacità, quasi diaboliche, per inventarsi frasi che non erano state pronunciate da nessuno.
I miei non gli credevano, ma gli altri parenti abboccavano e fu così che dopo la morte di mio padre, quando mio zio dovette andare a vivere altrove, lui si vendicò e riuscì a farci litigare.
Solo ora mi rendo conto che forse si era sentito abbandonato e voleva punirci. Intorno a noi si creò il vuoto ed io persi mio padre con tutti i suoi parenti che erano anche i miei ed ai quali volevo bene. Persi anche lui, mio zio.
Non lo rividi più perché successivamente andò a vivere da solo, tagliando, a poco a poco, i ponti con tutti, noi e gli altri.
E tutti tagliarono i ponti con lui e con noi, come se l’unico punto di unione tra tutti fosse proprio lui, mio zio, lo “strano”.
Lui ci lasciò portandosi via una gran parte dei miei affetti! Averlo accolto in casa per più di dieci lunghi anni non bastò. Dopo che se ne andò, morì in casa. Solo.
Lo trovarono dopo giorni. Sporco. Abbandonato. Un pezzo di me se n’era andato via per sempre. Non avevo salutato mio zio né lui salutò me.
Il solito senso di colpa nei suoi confronti mi perseguitava.
Sicuramente, in molti momenti difficili, avrò desiderato che lui se ne andasse di casa e questo mi ha fatto sentire responsabile delle sue sofferenze e della sua brutta fine. Oppure mi sono caricata dei sensi di colpa di chi mi stava intorno??
O tutte e due le cose?
È terribile come un bambino debba sempre, sempre, sentirsi colpevole!
Solo con il tempo mi sono resa conto che, allora, ero piccola e non potevo fare nulla per mio zio.
Le nostre emozioni sono imprevedibili, anarchiche, vulcani pronti ad eruttare e sommergerci.
Non ho più ascoltato con lui le sinfonie, non gli ho più rubacchiato gli spiccioletti e non abbiamo più ridacchiato insieme dei comportamenti, secondo lui, “strani”, degli altri.
Si, perché per mio zio, gli “ strani”, erano gli “altri”.
Era simpatico, scomodo, ostinato, ironico, permaloso, dispettoso, geniale, tignoso, cattivello, parlottava e bofonchiava pure tra sé e sé.
Mi faceva gli scherzetti.
Era proprio “strano”, mio zio. Ma io gli volevo bene.
Era lo zio mattacchione, che tra una sua stranezza e l’altra, ascoltava con me, in silenzio ed al buio, le sinfonie.
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