Racconto di Giorgio Rinaldi
(Quinta pubblicazione – 8 novembre 2019)
Se i negri non fossero mai esistiti un caso come il mio sarebbe passato come una semplice malattia, un’eccezione, qualcosa che non avrebbe cambiato di una virgola lo stato dei fatti. E invece no, invece sono bastati sei mesi per sputtanare tutta la mia vita. Ho perso tutto per colpa loro, moglie, lavoro, casa, tutto.
Ero un uomo normale io, un professionista apprezzato, avevo una bella moglie e una casa stupenda, poi una mattina mi sveglio negro e clic, tutto svanisce.
È iniziato tutto una mattina, anzi, quella mattina tutto è precipitato con le urla di mia moglie ed il suo balzo fuori dal letto “Sei nero Bruno, tutto nero!” Con il cuscino stretto tra le braccia continuò “Guardati! Oddio guardati! Te l’avevo detto di andare dal medico!” Per un po’ la fissai cercando di mettere a fuoco la sua figura, stordito da un mal di testa che pulsava all’eco delle sue urla, poi mi tirai a sedere sul letto, sollevai la maglia e mi guardai senza comprendere. Allora scesi dal letto, mi spogliai e andai davanti allo specchio, in silenzio. Distolsi appena lo sguardo e vidi Marta che parlava con qualcuno al telefono, anzi rispondeva a delle domande “No, no. Sì, nei giorni scorsi aveva la pelle un po’ arrossata. Non lo so, non l’abbiamo misurata. Ma come in giornata, ma è urgente!” e mise giù il telefono imprecando “Maledetto! Che cazzo avrà da fare tutto il giorno? Se ne andrà in giro con il suo “Suv” pagato dai pazienti italiani! Se la sogna questa vita al paese suo!” Poi si accese una sigaretta, mi squadrò dal basso in alto e continuò con lo stesso tono “Anche te però! È un mese che hai problemi con la pelle e dovevi proprio arrivare fino a questo punto? Dovevi arrivare ad essere un… un… un negro, cazzo! Un negro!” Io stavo lì, in piedi, nudo davanti allo specchio, sorpreso nel riconoscere a Marta una certa ragione. Più mi guardavo e più le sue parole non mi suonavano così esagerate: un negro, cazzo. I capelli crespi ed il naso carnoso ci aveva pensato madre natura a regalarmeli ed ora, per completare il cerchio, anche le labbra sembravano essersi leggermente gonfiate. Poi il mio sguardo cadde sulle parti intime. Almeno lì –pensai- la cosa potrebbe rivelarsi positiva, ma mi accorsi che neanche quell’unica qualità mi era stata concessa.
“Vado a fare una doccia” dissi, con lo sguardo ancora puntato sul mio riflesso, poi raggiunsi il bagno come un automa, aprii l’acqua ed entrai sotto il getto caldo. Guardai l’acqua che scivolava sul mio corpo sperando di vederla trasformarsi in un fluido marrone che sciogliesse via questo incubo, restituendo alla mia pelle il colore originale. L’acqua rimase trasparente e l’incubo realtà. Ci riprovai con l’accappatoio, ma neanche sul tessuto rimase alcuna traccia di colore. Telefonai in ufficio per avvisare che non sarei andato, poi mi sedetti in silenzio sul divano a contare le ore in attesa del medico. La mia mente era confusa dal flusso enorme di pensieri che rimanevano incompiuti, abbozzati, e presto sparivano sostituiti immediatamente da altri. Neanche Marta parlava, ma di sicuro era già un pezzo avanti con i ragionamenti e le previsioni, che, chiaramente, non dovevano essere rosei. Le afferrai la mano mentre passava davanti al divano, lei si bloccò senza guardarmi e rimase ferma per una manciata di secondi, poi appena allentai la presa, si sfilò e proseguì verso la cucina. La mia mente associò immediatamente le due scene, quella in cui Marta balzava dal letto abbracciata al cuscino ed il momento in cui sfilava la sua mano dalla mia. Erano come due punti nello spazio e non c’era niente di più semplice che tracciare una linea retta tra le due scene, un ragionamento immediato, logico: mia moglie mi odiava perché ero negro.
Ci vollero tre ore per sentire il medico suonare al citofono, tanto quanto per accatastare sul posacenere una piramide di cicche alta venti centimetri. Marta andò ad aprire la porta e, dal tono dei convenevoli e dei primi scambi di parole sul corridoio, il Dott. Yusuf non sembrava affatto preoccupato. Quando però entrò nel salone e mi vide sul divano, trasalì davanti a qualcosa che sicuramente andava ben oltre le sue previsioni. Posò la borsa a terra, si avvicinò squadrandomi come se stesse esaminando un venusiano, poi allungò lentamente un dito per toccarmi. Ma guarda tu questo! –pensai- Ora fa pure lo schizzinoso. Allora, indispettito, spalancai l’accappatoio come un maniaco da giardinetti “Ecco qua dottore! Non abbia timore, mi tocchi pure! Sarò un infedele, è vero, ma non sono né infettivo né frocio!” L’imbarazzo del medico fu evidente ed io rimasi in quella posa soddisfatto di aver colto nel segno.
Dopo circa un’ora ed una visita apparentemente approfondita, il Dott. Yusuf annunciò la sua diagnosi: “Le condizioni generali sono ottime. Per la pelle… beh, per la pelle sembra si tratti di un melasma, stranamente diffuso a tutto il corpo. Deve fare urgentemente una visita specialistica, sa, per approfondire.” E mentre finiva di parlare iniziò a riordinare la borsa. Marta, che aveva assistito alla visita dalla poltrona, balzò in piedi “Approfondire cosa? Cos’è questo melasma?” Dalla velocità con cui il medico stava riordinando i suoi attrezzi riponendoli nella borsa di cuoio sembrava aver fretta di andarsene, ma le domande di Marta lo inchiodavano ancora lì. “Guardi signora, il melasma di solito si manifesta con macchie scure sulla pelle, ma in zone circoscritte; per suo marito sembra diffuso dappertutto e a questo io non so proprio dare risposta, mi dispiace, serve uno specialista.” A quel punto intervenni io “Grazie, dottore, grazie! Non so davvero come ringraziarla per questa diagnosi così accurata! Le chiederei un’ultima cortesia, se non sono indiscreto.” Il medico, ingannato dal tono melenso che avevo assunto di proposito, posò a terra la borsa e si mise attentamente in ascolto. “Non avrebbe da consigliarmi qualcosa che possa aiutarmi nel frattempo, che ne so, un versetto del Corano o qualche frase di Allah o del suo profeta Maometto? Tanto per tirarmi su in attesa dello specialista!” I baffetti del Dott. Yusuf iniziarono a tremare, il suo viso si deformò in un’espressione tra lo stupore e la vergogna, mentre una vena sul collo gli si gonfiò in modo così improvviso che pensai ora il muslim mi schiatta qui. Tremante si appoggiò con la mano sinistra al mobiletto vicino alla porta facendo rovesciare il cestino delle chiavi, mentre con la destra, senza guardarlo, cercava di intercettare il manico della sua borsa. Rimise goffamente a posto il cestino, ma le chiavi caddero a terra, allora si chinò, le raccolse, le rimise al loro posto e quando si rialzò mi accorsi che la sua bocca si muoveva emettendo leggeri e indecifrabili suoni gutturali, con i quali probabilmente stava chiedendo perdono al suo Dio per i miei peccati e protezione per le sue purissime orecchie. Riuscì ad afferrare la borsa, poi si precipitò alla porta ed uscì senza salutare neanche Marta, che nel frattempo lo incalzava “E non gli dà niente da prendere? Neanche una pomata? Ma non vede com’è conciato mio marito? Ma non vede che è diventato più nero di lei? Come fa eh? Come fa ad uscire per strada, come fa a lavorare?” Fu come se le ultime due domande, rimbalzando contro il finestrino del “Suv” nero che portava il Dott. Yusuf in salvo, si fossero infilate dritte nella mia testa, rivelando istantaneamente la realtà delle cose. Sarebbe stato impossibile anche affrontare il portiere del comprensorio con quel colore sulla pelle, figuriamoci entrare nel bar dove facevo sempre colazione o salire sull’autobus per andare al lavoro. Ma poi, quale lavoro? Come avrei fatto ad entrare in ufficio in queste condizioni? Impossibile. Non si è mai visto un negro in ufficio.
Lentamente il senso di oppressione aumentava, insieme alla rabbia per non sapere quanto sarebbe durato tutto questo. Mi sentivo senza via d’uscita. Mi sospesi dalla vita, ritirandomi in un mondo pensato da cui non trapelava il minimo segno di vitalità, se non una sacrosanta rabbia. Sopravvivevo sul divano e non uscii più da casa se non per le visite mediche, rigorosamente di pomeriggio tardi. Non rispondevo al telefono, alle mail, ai messaggi. Ogni tipo di rapporto con Marta rimase sospeso in attesa del miracolo, perché solo un miracolo pareva in grado di cambiare la situazione. Parlavo poco e il più delle volte lo facevo per insultare tutti i medici che seguirono il Dott. Yusuf e che più o meno confermarono quella diagnosi così approssimativa. I termini che utilizzavano più spesso erano presunti, all’apparenza, sospetto, termini che mi facevano letteralmente impazzire di rabbia. Con l’ultimo medico, un tipetto dal comportamento un po’ effeminato, finì male. Finì con Marta che, tirandomi via da quella stanza, implorava il medico di perdonarmi ed io che continuavo ad urlargli “Frocio di merda! Frocio di merda!” fino a fuori la porta dello studio.
Finì male anche con Marta quel giorno. Era stremata dall’ennesima visita, dall’ennesima diagnosi fumosa e dall’ennesima mia reazione violenta. Mi disse che era stufa di me, ma io sapevo che non era così, lo sapevo: lei era stufa di avere accanto un negro, tutto qui. Lei avrebbe continuato a sopportare tutto, il mio mutismo, la mia rabbia, anche qualche insulto e qualche schiaffo che mi è scappato ogni tanto, ma stare con un negro era troppo, ne sono certo. Tornati a casa lei si precipitò in garage, prese una valigia, tornò in camera e ci vuotò dentro parte del mio armadio. “Per le giacche ti conviene tornare un’altra volta. Avvisami però.” Dicendo così mi portò la valigia davanti al divano e andò ad aprire la porta. “Torna quando sarai di nuovo normale. Avvisami però.”
Sono bastati tre mesi da negro per perdere mia moglie. E ancora meno tempo deve essere stato sufficiente per perdere il lavoro perché, dopo un paio di mesi, non ho più visto arrivare lettere dall’ufficio.
Fuori di casa, andai avanti per un altro mese circa, dormendo in un alberghetto per puttane e mangiando in pizzeria, poi finirono i soldi e, di lì a poco, anche la dignità. Ero per strada, con una valigia piena di vestiti sporchi e una rabbia da far resuscitare un morto. La prima sera mi cacciarono dal sottopassaggio, perché non c’è niente da fare, anche per strada i negri sono malvisti, allora io aggredii il capo di quei sudici barboni, ma la mia reazione venne soffocata nella melma grigia di uno scolo d’acqua piovana, a faccia in giù.
Pochi giorni dopo uno zingaro, mentre rovistava in un cassonetto, trovò una confezione di lasagne ancora sigillata e che fece questa schifezza di essere? Me l’aprì davanti e la vuotò tutta per terra ripetendo “Per te no problemi, per te no problemi, vero amicu?” Gli afferrai il collo e strinsi più forte che potevo, fino a che un suo compare mi assestò una bastonata in testa che mi fece cadere sul marciapiede svenuto.
Solo, affamato, malandato in tutti i sensi, ecco come mi ero ridotto per colpa loro. Erano passati solo sei mesi e la mia vita si era capovolta. Ero incapace persino di trovarmi da mangiare, di allungare la mano all’angolo della strada. La mia sopravvivenza era affidata a due o tre passanti, sempre gli stessi, che vedendomi ogni giorno buttato nello stesso angolo, mi lasciavano qualcosa da mangiare.
Poi, l’altra mattina, un ragazzo mi ha svegliato dicendomi che dovevo andare via da lì perché sarebbero iniziati i lavori di sistemazione della strada. Mi sono alzato a fatica e, dolorante, mi sono diretto verso l’altro lato della strada in cerca di un angolo dove mettermi. Non mi ero più specchiato da quando ero uscito di casa, ma passando accanto ad una vetrina non ho potuto farne a meno. Mi sono guardato senza riconoscermi. La barba e lo sporco ormai nascondevano la mia pelle, i capelli lunghi, sudici e intrecciati mi coprivano il volto. Li ho sollevati per cercare i miei occhi e ho notato una zona più chiara sulla fronte. Mi sono bagnato l’indice con la lingua e l’ho passato sulla fronte una, due, tre volte, sempre più freneticamente. Un’altra rapida occhiata e ho deciso di andare a lavarmi il viso alla fontanella, nonostante il freddo e la gente che a quell’ora affollava i marciapiedi. Ce n’era una proprio dietro l’angolo, ci sono andato di corsa, mi sono lavato e sono tornato davanti alla vetrina. Mi sono guardato meglio: ero tornato bianco. Non sapevo da quando e soprattutto come, ma ero tornato normale. Inizialmente ho sentito un’euforia crescente che mi percorreva tutto il corpo come una scossa, poi la realtà mi ha fatto di nuovo raggelare. Ero tornato normale, ma nel frattempo avevo oltrepassato tutti i confini, avevo superato ogni barriera che l’orgoglio e l’amor proprio hanno sempre posto a difesa della dignità di un uomo bianco. E tutto perché sono stato negro per sei mesi. Maledetti! Non fossero mai esistiti!
Ieri sera, dopo aver rimediato qualche avanzo nel cestino di una pizzeria, mi sono sistemato al solito angolo, dietro la stazione ferroviaria. Faceva freddo e in giro non c’era anima viva. Ero riuscito quasi ad addormentarmi quando uno di loro si avvicina e si ferma davanti a me.
“Ciao, io mi chiamo Walid. Come stai?”
Ma guarda tu questo! Arriva, al calduccio nel suo bel piumino, e mi chiede pure come sto, il bastardo? Sto come mi hai ridotto tu e tutti quelli della tua razza maledetta, nella merda. Chi te l’ha data quella bella camicia bianca eh? E quel piumino nuovo nuovo, chi te l’ha comprato eh? E gli occhiali, che non sapevi nemmeno cosa fossero al tuo paese, chi te li ha procurati? Sanguisughe che non siete altro!
“Mi capisci amico? Io sono Walid e tu come ti chiami?”
Amico di chi, tuo? Non ci provare, negro bastardo che non sei altro. Non ti avvicinare. Sapete solo rubare voi, approfittate di chiunque. Mi avete già tolto tutto, che cazzo vorresti rubarmi ora, eh?
“Anche io ho vissuto per strada, come te. Poi un fratello mussulmano mi ha ospitato, mi ha aiutato a prendere il permesso di soggiorno e adesso lavoro e sono fidanzato con una ragazza di Roma. Abbiamo anche trovato casa, lo sai? E tra un mese ci trasferiamo.”
Maledetti bastardi! Siete una razza infida! Prima ci invadete con la scusa della guerra, della fame e altre cazzate simili, poi vi prendete quello che è nostro. Hai preso il mio lavoro, la mia donna, la mia casa e io dovrei stare qui a sentirti? Non ti avvicinare schifoso che non sei altro, non ti avvicinare o te la farò pagare.
“Hei, amico, mi senti? Stai bene? Ti do una mano a tirarti su, dai …”
Allora l’ho colpito. Non doveva avvicinarsi, ma si è chinato verso di me e in quel momento l’ho colpito. Si è scoperto il collo e la forchetta è affondata proprio sopra al colletto della sua bella camicia bianca. L’ho colpito ancora, una, due, tre volte, e mi è caduto sopra il bastardo.
I suoi occhi erano sbarrati e il suo sangue rosso. Ma in fondo, anche le scimmie hanno il sangue rosso.
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