Racconto di Annarita Campagnolo
(Seconda pubblicazione – 26 febbraio 2020)
Calerà il silenzio sulle storie
e l’oscurità coprirà i rimpianti.
Poi le lacrime laveranno le strade
perché a volte la pioggia non basta
e rotoleranno i visi
negli angoli più nascosti del mondo
nei vicoli ciechi dedicati all’oblio.
Figlio mio, ti racconto la mia verità. Ma, bada bene, è una delle tante.
Col tempo ho capito che la verità è condizionata e filtrata dagli occhi e dal cuore. Dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dagli stereotipi.
Oggettivamente possiamo anche avere una visione comune delle cose che ci circondano ma, perlopiù, ognuno ci mette del suo. Ed è tutto ragionevolmente certo.
Chi può dimostrare a un povero derelitto che non è vero che la fortuna è cieca? Che la sua vita è frutto di scelte sbagliate, magari non fatte da lui?
Come si fa e con quali argomenti puoi convincere quell’uomo che è la sua verità a rendergli più tollerabile l’esistenza, ma che è una verità di comodo?
E come potrà dormire sotto i ponti, mendicare per una bottiglia di vino che possa fargli perdere conoscenza per un’altra notte, se non raccontandosi la sua verità? Se tu o io andassimo da lui a dirgli che la sua esistenza è il frutto di un tiro di dadi sbagliato, non sarebbe ancora più crudele?
Ho camminato a lungo questa notte, tanto che mi fanno male i piedi. Ho camminato scalzo, per non ferire la mia anima. Quando percorri i sentieri che portano al centro di te stesso devi essere delicato.
Eppure non ci sono ancora arrivato, al centro di me stesso, intendo.
Se solo potessi raccontarti i paesaggi che ho visto, i colori, i suoni; vale la pena, credimi, vale davvero la pena addentrarsi. Forse i pazzi fanno questo, vedono questo. Allora sono pazzo. Preferisco essere pazzo.
Sono sceso per una scala ripida e traballante. Era inevitabile. Dovevo raccogliermi da lì, dovevo riportarmi in superficie.
Voglio solo un altro giorno per rimandare, in realtà. Già, la realtà! Quest’immagine codificata dall’esperienza. Questa visione effimera, superficiale del mondo.
Verità! Realtà!
Sostantivi, che hanno sostanza.
A volte mi stendo sulle cose per apprenderne i segreti. Sono mute, non hanno niente da dirmi. Tutto ciò che sento viene da me. E va e torna, come un eterno ping pong.
Un tempo mi piaceva giocare a ping pong con te, ricordi?
Ci mettevi tanta forza nel rimandarmi la pallina, ed era un modo per dire “non è così, ma così”.
Vorrei poterti accarezzare, stringerti a me, sentirmi parte di te. Te l’ho già detto? Ti ho desiderato tanto. Non potevo crederci quando tua madre mi disse di essere incinta.
Probabilmente quello è stato uno dei momenti più felici della mia vita. L’altro quando ti ho visto per la prima volta e poi quando ti ho preso in braccio. Io sono nato con l’istinto paterno. Non tutti gli uomini ce l’hanno.
Questa notte ti sognerò. Adesso posso programmare e pianificare anche quelli, i sogni. L’ho imparato da poco. Avevo da realizzare un po’ di desideri. È così che si fa.
Per prima cosa sono andato da tua madre. L’ho abbracciata forte e baciata a lungo.
Quel profumo! L’ho amata subito per il profumo. Non certo la soluzione chimica che ci spruzziamo addosso, ma quello naturale della pelle.
Se mi chiedessero di riconoscere tua madre dall’odore non potrei sbagliare.
Questo vale anche per te. Avete un odore molto simile.
Quando eri piccolo passavo ore intere a guardarti dormire. E poi mi avvicinavo al tuo viso, per respirare il tuo respiro. Per sentirti ancora più in profondità.
Facevo la stessa cosa con tua madre. Lei si svegliava, a volte, e sorrideva.
Quanto ho amato quella donna! Il nostro era un amore di quelli che partono da chissà quale mondo, e girano, di pianeta in pianeta, rincorrendosi. Sempre le stesse anime, in eterno. Non si può spiegare diversamente l’intesa fisica e mentale che caratterizzava il nostro rapporto. Lei era per me la mano fresca sulla fronte accaldata. La minestra calda, quando fuori nevica. Quel ciocco nel camino che riempie le sere solitarie. Il caffè bollente, nei giorni di sosta. Era quel dito che muove il mattoncino che svelerà il disegno.
Era camminare da soli, in un qualsiasi posto, pieni l’uno dell’altra.
Avevamo tanto da farci perdonare. Forse per questo se n’è andata. Per preparare un’altra vita, più lunga e profonda, ed estinguere, almeno in parte, il debito d’amore che ci portiamo appresso.
E’ stata una bravissima madre, visto come sei cresciuto: indipendente, tenace, caparbio e profondamente onesto. È riuscita a trasmetterti la sua essenza, con il solo esserci, sempre e comunque, per il tempo necessario.
Io mi sono perso, invece. Quel giorno qualcosa è andato in corto.
Dicono che la pazzia sia latente in determinati individui. Che basti una scintilla per innescare il meccanismo di autodistruzione.
Probabilmente è così.
Avevo immaginato il mio futuro con lei al mio fianco. Avrei dovuto pensarlo, invece, con lei dentro.
Ciò che mi ha sempre fregato è questo bisogno di toccare le cose.
La notte sfioravo il suo corpo. Di giorno attendevo il momento in cui le sarei stato vicino.
Anche con te era così per me.
E adesso tocco le sponde del letto per accertarmi di essere qui. Per convincermi che il corpo esiste ancora.
Ma i sensi ti fregano delle volte. Ripenso a quei giorni, subito dopo l’incidente: mi sembrava di vederla, mentre allineavo le bottiglie vuote sul tavolo della cucina. Mi sembrava di sentirla, mentre vomitavo accasciato sul divano. Mi sembrava di toccarla, mentre mi strappavo la barba e i capelli con le mani.
Mi sembrava il suo sapore quello del sangue che colava dai polsi.
Tu mi hai salvato, lo so, più di una volta. Ma, perdonami, io non volevo essere salvato. Da cosa, poi? La morte sarebbe stata la strada più breve per rivederla. E poi l’oblio mi avrebbe staccato, finalmente, dalle cose materiali che mi incatenano ai ricordi, alle sensazioni.
Ora sono qui, ripiegato sul letto insieme al pigiama. Tu, giustamente, altrove. Il tuo altrove, che ti spetta di diritto.
Il mio attende, ma non so trovarlo. Ci avevo lasciato il cappello, pare sia il modo migliore per tenere il posto. Ma una folata di vento, inaspettatamente più forte, l’ha fatto volare via.
Lo sai, poi ognuno ci vede quello che vuole nel proprio disegno. In fondo siamo ciò che pensiamo. E le cose le vediamo solo nel momento in cui le cataloghiamo con un nome e un significato.
Chissà se c’è un posto per le cose che non hanno nome. Quelle invisibili che aspettano un precedente per esistere.
Vedi com’è? Uno srotolare di parole, che a volte si annodano e ci passi del tempo a scioglierle.
Vorrei poterne fare a meno. Vorrei non dover più inventare luoghi e storie per dare un senso ai gesti.
La mia verità è così confusa, così mia, che riesco a malapena a raccoglierla per donarla a te.
Eppure, nell’ultimo sforzo per sembrare coerentemente normale, te la mostro, la mia verità.
So che non la sottovaluterai.
Ora vado. Mi hanno detto che di sopra si può volare.
Se leggerai questa mia, vorrà dire che ce l’ho fatta.
Ti amo.
Tuo padre.
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