Racconto di Edoardo Santi
(prima pubblicazione – 9 settembre 2020)
Quando la vidi per la prima volta, seduta su quella panchina col cappello che la riparava dal sole, che quel giorno picchiava forte, me ne innamorai subito, all’istante. Fui colpito dalla sua andatura elegante, che spesso era decisa e disinvolta, mentre altre volte era timida e insicura.
Strano a dirsi e decisamente surreale, ma fu un colpo di fulmine. Non che me ne intenda molto di colpi di fulmini, quando c’è il sole o quando piove, anzi non sono per niente ferrato sull’argomento, ma posso solo dirvi che quella mattina, quando passai per caso in quel parco per fare una passeggiata, visto la bella giornata, fortunatamente incrociai gli occhi di una bellissima creatura, che mi guardò a sua volta.
Mi chiedevo spesso e molte volte non ottenevo alcuna risposta da me stesso, come la gente si innamorasse: forse era merito di un unico sguardo dato per altro per caso, come per esempio durante una passeggiata nel parco, oppure il frutto di un lungo processo di sguardi che poi andranno a sfociare nell’innamoramento, o ancora il piano già prestabilito di un destino che ci accumuna tutti.
Insomma, le mie erano una serie di tristi ipotesi scaturite dal mio senso di estrema, quasi imbarazzante, solitudine. Mi divertivo a scherzare e a prendere di mira il sentimento che più mi mancava, quello che da anni avevo cercato: l’amore.
Da piccolo, mi ricordo, fui allevato nell’amore, nell’armonia, eppure non ne conobbi mai fino in fondo le gioie, le felicità. I miei genitori si amarono per tutta la vita, fin dal momento che celebrarono il loro matrimonio, in una chiesetta di campagna circondata dal verde, ed io ogni giorno li guardavo con ammirazione, anche per il semplice fatto che rimasero fedeli l’uno all’altra.
La sera, prima di coricarmi, mio padre mi spiegava l’amore, ovviamente con parole chiare e comprensibili adatte alla mia età, attraverso la lettura di favole, o racconti, che spiegavano l’argomento, ma io non lo capivo. La mia preferita, tra tutte le fiabe che mi aveva letto, era Amore e Psiche. Mia madre, invece, prima che mi addormentassi si limitava a darmi un bacio sulla fronte, augurandomi la buonanotte.
Ma mentre tutti in casa dormivano e il silenzio invadeva le stanze, io non lo facevo: la mia mente vagava, pensando e ripensando a quella magica parola, per me sconosciuta, che mi tormentava continuamente, senza darmi tregua.
Passai notti insonni per colpa dell’amore, senza mai riuscire a capirlo fino in fondo. Una notte e non mi vergogno a dirlo, scoppiai addirittura a piangere leggendo la mia favola d’amore preferita, che vi ho già citato prima. I miei pianti, le mie urla, troppo sonore forse, svegliarono mio padre, che entrò in camera mia con aria assonnata, permettendo alla luce che aveva accesso in salotto di entrare.
Consolandomi, mi chiese cosa avessi, ma io continuavo a piangere a dirotto, bagnando con le mie lacrime le pagine che stavo sfogliando.
“Questa favola è cattiva papà, è brutta”, mi lamentai io.
“Perché figliolo dici così”.
“Perché loro, nella storia, si innamorano, mentre nel mondo non c’è così tanto amore come nella favola e questo non è per niente giusto”.
Mio padre non replicò.
“Che cos’è allora l’amore papà? Se nessuno si innamora più come nelle favole, allora che ci innamoriamo a fare? Per sprecare tempo?”.
Ascoltando quelle innocenti domande, mio padre si guardò bene dal rispondermi e mi salutò con un’unica frase: “L’amore è una cosa troppo difficile da spiegare, non potresti capire”.
E, così dicendo, mi lasciò.
Qualche minuto dopo, decisi di alzarmi, perché non riuscivo a prendere sonno. Di nuovo mi tormentava quel sentimento, che non riuscivo a scacciare dalla mia mente, nemmeno mettendoci tutta la buona volontà, finché qualcosa non mi avesse chiarito i miei dubbi.
Lentamente, mi avvicinai alla camera da letto dei miei genitori e li vidi dormire abbracciati. E allora capii ciò che tanto mi torturava i pensieri, giorno e notte: l’amore era quello. Non c’era bisogno di parole per descriverne gli effetti, né di spiegazioni razionali e troppo oculate, ma bastava un semplice gesto a farti capire tutto ciò che per te è incompiuto.
Era incredibile, almeno per me, pensare che due persone si potessero amare così tanto. Ma da quando vidi quell’abbraccio, da quella sera, ritornai a letto sereno e con i dubbi chiariti. Era bello avere due genitori che, nonostante il peso di tanti anni di matrimonio alle spalle, si amassero ancora così tanto.
Ed ora, la stessa gioia che provai quella sera di tanti anni fa, la stessa felicità nel cuore che mi riempiva, mi si ripresentò quel giorno. Ma questa volta fu diverso: un sentimento nuovo mi attraversò il cuore e lo divise in due. La Bellezza si presentò ai miei occhi, una creatura dai tratti delicati, gentili.
Io non potevo competere con lei: un uomo freddo, distaccato, rozzo per alcuni aspetti, con un livello basso di istruzione, privato in tutti quegli anni dell’amore. Non le stavo all’altezza, per niente, non mi sentivo in grado di amare e pensavo solo a me stesso.
Ero stato sempre una persona cinica lo ammetto e per un periodo della mia vita forse questo cinismo si era trasformato in uno stile di vita, rifiutando addirittura la compagnia di altre persone al mio fianco.
E il mio fardello, che sempre portavo con me, si tramutò in un peso insopportabile: la malinconica e la triste condizione di non poter amare, nemmeno per un attimo.
Eppure, quel giorno mi accorsi di poterlo fare. Quando vidi quella ragazza, un nuovo sentimento nacque in me e mi sentii finalmente libero da quell’opprimente assenza che mi circondava, che per me era come una prigione.
Per la prima volta, avevo l’occasione di amare in vita mia.
Quasi automaticamente, mi convinsi a presentarmi alla ragazza, mettendo da parte la timidezza che mi dominava.
Quel destino, di cui tanto ipotizzavo l’esistenza, mi venne incontro, più volte: qualche tempo dopo, ci sposammo e avemmo due belle bambine. Alice e Ginevra si chiamavano.
Vivemmo felici e ci stabilimmo in una casetta, che avevo ereditato da mia madre morta quello stesso anno, in campagna.
Molti, tra cui miei cari amici e vecchi compagni di scuola, che ormai si erano arresi al fatto che la vita per loro scorresse così velocemente, senza nemmeno darti il tempo di fermarti un attimo e riflettere, continuavano a dirmi che le giornate passate all’aria fresca della campagna, magari con in mano una tazza di tè e mimando i comportamenti degli snob inglesi dell’alta borghesia, quelli che lo sorseggiano con il mignolo alzato, avrebbe aumentato il mio senso di solitudine, facendomi così cadere in una totale depressione.
Ma tutto questo ovviamente non era vero. Anzi, la vita in campagna, contrariamente a quella turbolenta e caotica di città, mi rilassava.
Di tanto in tanto, preso dalla voglia di leggere un buon libro, mi rifugiavo sotto un gazebo, che avevo montato in occasione dell’estate e dove si poteva godere un buon ricircolo dell’aria.
Sentire quella brezza leggera sulla pelle mi rinvigoriva, contribuendo al rilassamento dei miei sensi. Anche se non avessi fatto nulla e quindi anche se avessi messo da parte il libro, mi sarei rilassato comunque.
Tuttavia, nulla andò come previsto. Certo, la nostra vita matrimoniale scorreva tranquilla e serena, senza alcun litigio a rovinarla, ma comunque con un gran senso di inquietudine a governare i nostri giorni. Non dico che a volte il matrimonio non mi annoiasse, diventando troppo monotono per i miei gusti, ma quello che accadde quel giorno sfiorò i limiti di ogni ragione umana. Perfino io, uomo estremamente razionale, feci difficoltà a capirlo.
Un giorno, nella nostra abituale serenità e nella monotonia quotidiana, sentimmo bussare alla porta con due tonfi prolungati. Pensando che fosse il postino, che come di norma ci recapitava la posta, ma che faceva un po’ di difficoltà a trovare la nostra casa visto che era situata su una scomoda collinetta, andai ad aprire.
Fu una sorpresa per me trovarmi davanti la mia esatta copia. Mi spiego meglio: il tizio che quel giorno ci venne a trovare aveva i miei stessi lineamenti, i miei stessi tratti del viso.
Mi sentii sconcertato, fuori di me, come se qualcuno avesse preso il mio posto, la mia vita, il mio compito… la mia identità.
Allora un senso di terrore cominciò a strisciarmi nelle vene, a invadermi il corpo… terrore mischiato a smarrimento puro, sincero, profondo, penetrante.
Lungo la schiena sentivo brividi freddi che mi paralizzavano e come delle violente scariche elettriche mi impedivano i movimenti. Il sudore si ghiacciava sulla pelle e la sensazione del freddo allucinante mi provocò ancor più brividi, accentuando i miei deboli spasmi.
Cosa fareste, voi, se vi trovaste davanti la vostra copia perfetta, con uguali lineamenti del volto, gli stessi occhi, lo stesso tono di voce, perfino le stesse sfumature del comportamento?
Pensate allo shock che potreste avere. E al terrore che potreste provare.
Così quello sconosciuto, di cui non sapevamo nulla se non il fatto che aveva bussato alla nostra porta quel giorno con gran foga e irruenza, entrò a far parte delle nostre vite senza il nostro diretto consenso.
Un uomo totalmente arrogante, di un’invadenza che ci spaventò. Dalle maniere rozze e poco usuali, brusco nei comportamenti. Ma enormemente, incredibilmente somigliante a me, in tutto e per tutto.
Più passavano i giorni, senza che nessun altro evento oltre a quello che avevo ora davanti ai miei occhi stupiti ci colpisse in prima persona e più il mio senso di inquietudine aumentava, sfiorando a volte livelli di terrore puro e incontrollato.
In seguito, la mia “copia”, o “sosia”, a secondo di come volete chiamarlo, cominciò ad appropriarsi della mia vita, come se tutta quella situazione fosse normale. Iniziò persino a sedersi al mio stesso tavolo e da buon capo famiglia a dare inizio al pranzo, o alla cene.
Pregava con la mia famiglia, congiungevano le mani insieme e chinava il capo con loro.
Col tempo, anche i figli sentirono il peso di quell’invadenza. Quando crebbero, lo sconosciuto prese il completo dominio della situazione familiare, spodestandomi così dal mio ruolo di padre e di genitore.
Come si dice, un bambino, durante la sua fase di crescita, necessita delle attenzioni di entrambe i genitori e del loro amore. Ma quando quest’ultimo ti viene “rubato”, automaticamente la tua identità si annulla, per sfociare nell’odio più totale.
E difatti il mio senso di smarrimento, di estraniamento, era accresciuto. Ogni minuto che passava, ogni secondo, mi sentivo come fossi un piccolo pesce rosso che era stato tirato fuori dalla sua palla di vetro a forza, come qualcuno che era stato “derubato” della sua dignità.
Così ti senti quando la tua vita ti viene “sottratta”.
Cominciai allora a elaborare un piano per cacciare una volta per tutte quella figura sgradita, che stava rubando la mia intera vita… e cosa ancor più grave i miei figli.
Vederli sorridere insieme a quello sconosciuto, giocare insieme a lui, rotolandosi a terra tra i fiori appena sbocciati, mi provocava una ferita nel petto che sanguinava ogni volta che incrociavo i loro sguardi felici e spensierati.
Mi ricordo che un giorno la madre di quei graziosi bambini, mentre tutti eravamo riuniti intorno ad un pasto caldo e invitante, li invitò scherzosamente ad affermare chi fosse il loro “vero” padre… ma in lei non c’era alcuna cattiva intenzione, con quella battuta.
Io ovviamente la giudicai di cattivo gusto, ma l’<altro> mi fermò subito, pregandomi di farla continuare.
Mi alzai allora dal tavolo, per evitare di ascoltare la conversazione, che per me aveva preso una piega indesiderata. Il mio “sosia” però mi afferrò per un polso, stringendomelo leggermente, invitandomi con un sorriso a restare seduto.
“Sentiamo i bambini cosa dicono”.
Dopo alcuni minuti di silenzio e di imbarazzo, i bambini puntarono le dita verso il mio sosia.
E lui, vedendo l’innocente verdetto, cominciò a ridere e a sghignazzare malvagiamente, come se godesse in silenzio del dolore del padre “vero”.
Mia moglie cercò di far cambiare loro idea, spiegandogli che l’amore che il padre sentiva per loro era sconfinato, ma invano. Continuavano a fissare lo sconosciuto, come se gli attribuissero qualche ruolo paterno che non aveva.
Mi rattristii, senza sapere che fare.
Sconsolato e con un dolore che mi riempiva il petto, mi rifugiai nella mia solitaria stanza, lasciando i bambini e mia moglie con lo sconosciuto.
Piansi, come un bambino, ma durante la notte il mio piano diabolico prese forma. Lo curai nei minimi dettagli e quella stessa notte lo attuai.
Mi armai di coltello, preso dal cassetto della cucina e lo uccisi, nel suo letto. Mi riprendevo ciò che spettava a me e a nessun altro, di diritto.
Da qualche parte, forse, ho letto che un padre ucciderebbe per il proprio figlio, senza esitazioni. E quella sera io uccisi, per loro. Io amo i miei figli.
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