Racconto di Maria Roberta Greco
(Prima pubblicazione – 21 gennaio 2019)
‘L’India non la senti addosso, al massimo sotto la pelle, dentro il naso e dietro agli occhi. Mi hanno detto che filosofeggio anche sulle cavolate, e so che è vero, una parte di me non riesce proprio a esser seria, forse perché mi piace custodire le risate nel cuore. Pensavo di essere integra prima di partire e di tornare soltanto un po’ cambiata. Ovviamente mi sbagliavo. Mi riporto indietro una Roberta che ha imparato a sorridere con gli occhi e che si emoziona guardando una piantagione di caffè. Poteva essere evitato, invece no: lascio qui tre mamme e due angeli custodi. Li ritroverò un giorno, perché nessuno mi aveva mai accompagnata per mano nella Vita, come è accaduto in questo viaggio. Ho ritrovato il mio amico Silenzio, che dormiva insieme alla Gioia, ho ballato in top e pareo, per poi sedermi di fronte alla tivù rapita da uno straordinario film francese coi sottotitoli e un nonsense inebriante. Nel frattempo ho letto un libro in inglese sull’alimentazione e attraverso l’Ayurveda, ho tastato sulla pelle la perfezione di questa Scienza perfetta chiamata Vita. Ho smesso di contare quante persone mi sono entrate nell’Anima con uno sguardo solo, tra un latte di cocco bevuto sul marciapiede e la meditazione in un tempio abbandonato. Qui i tempi sono scanditi dallo sbocciare delle passiflore e dalle tazze di tè nero fumante. Sul ciglio della strada vendono maglie che hanno tutta l’aria di stare lì appese ai fili per asciugarsi. Qui, dove esiste un segnale di pericolo attraversamento bambini saltellanti, ho visto due corsie che ospitavano quattro veicoli alla volta. Che una preghiera conviene sempre farla, prima di salire su un tuk tuk. La simmetria delle costruzioni, mantra sui cancelli e cesellature coi fior di loto, le maniglie delle porte con intarsi devozionali e campanelli ovunque. Pseudo bar in cui ci sono tanti di quei dipendenti, che quando ne ho chiesto il motivo e mi è stato risposto che solo così lavorano tutti quanti e ognuno fa il suo poco, mi sono sentita sciocca. La processione di Shiva e Parvati che mi inebria d’incenso i vestiti. La terra che si appiccica ovunque e me la ritrovo nella doccia a fine serata, che manco se vado a raccogliere i pomodori nella mia Puglia. Poiché la nanna in vacanza è inversamente proporzionale alla stanchezza, sto scalza per venti ore al giorno e dopo una sola mattina nel Kerala ho compreso che vestirsi di bianco è esclusivo delle pellicole di Bollywood. Esistono alberi senza foglie, ma ricoperti di fiori rossi e distese di banani a perdita d’occhio, con frutti piccoli e squisiti, solitamente se ne compra un casco che dura una settimana. Nei vari spostamenti passano ore prima che qualcuno dica una parola, come se ci si ritrovasse tutti un po’ più in là della fine del mondo, coi tramonti che dipingono di rosa anche le città piene di smog. Ma in India non importa a nessuno dell’inquinamento, si respira liberi, come cantava Battisti, tanto a due passi si raggiunge la giungla e una passeggiata al lago mi conduce nell’intimità di una donna che lava i suoi panni. E come può esserci violenza nei cuori se per salutarsi la gente si benedice a vicenda col mudra più bello della storia del mondo orientale? S’inchinano davanti a tutto e sono riconoscenti per ogni cosa, coi loro sorrisi e le cavigliere tintinnanti. Nella povertà più assoluta mai ho visto un bambino piangere, quasi nessuno ha le scarpe e ridono a sufficienza, incuranti dei denti marci. Grandi e piccoli, tutti hanno quel loro modo di piegare la testa a destra e a sinistra, come un orologio a pendolo, che fa tanta tenerezza e non so se vogliano salutare, ringraziarmi od offrirmi un tè chai. Un po’ come la lingua sanscrita, in cui una parola può avere fino a 42 significati diversi, e mica lo si indovina subito. Come i gradi che mi hanno accolta anche se è inverno. E le lezioni di yoga al mattino, i massaggi prima di pranzo, lo shopping di tessuti, che non c’è mai spazio sufficiente in valigia, perché è impossibile comprimere le emozioni nel bagaglio a mano. E i colori, le farmacie ayurvediche, le cene a base di chapati e salse piccanti, i pullman con le luci psichedeliche, le moto con famiglie intere sopra, i dolcetti super fritti, le purificazioni nel fiume, i piatti sostituiti da foglie di banano lavabili che rappresentano la lingua e le pietanze servite posizionandole nel punto esatto in cui verranno assaporate nella bocca. Piccante amaro acido salato e dolce. Come i miei ricordi di oggi. E i racconti sulle usanze durante la gravidanza o dopo il parto, in cui la madre pensa solo al bebè, mentre tutti i suoi familiari svolgono i lavori di casa, perché lei deve imparare a fare la mamma e si occupa solo di nutrire la pelle del suo bambino con un quintale di oli medicati arricchiti di amore e carezze. Le chiese cristiane accanto alle statue di Che Guevara, le buche nel cemento che da noi si sarebbero già inventati un centinaio di sinistri stradali. I cani anoressici, i battelli sui canali di acqua putrida che, nei punti in cui si è prosciugata, sono diventati distese di polmoni verdi, le canne da zucchero triturate per gustarne il succo, una discoteca di mosche, da noi traducibile come una macelleria, che insieme al gommista condivide la stessa entrata, i bindi sulla fronte di tonalità tutte diverse. Una comitiva di uomini che mangia dei semi, seduta sui binari del treno, le piante dei piedi nere e camicie impeccabilmente stirate, donne elegantissime nei loro sari alla guida di una Honda nera. La frutta esposta ordinata per colore, la musica hindi, la tapioca da sgranocchiare e le pareti rosa dal barbiere con una sola sedia. Le mucche sacre che fanno solo 300 ml di latte al giorno, le palme che mi salutano al risveglio, i corvi che entrano dalla finestra sul balcone per rubare il cibo, la doccia con lo sguardo affacciato sull’infinito, 6 km fino al residence che ci vogliono 55 minuti anche se accompagnata da 4 ruote. Le innumerevoli spezie e i biscotti a forma di mandala, il turismo di Kochi che sembra di stare a Taormina, un tempio di Krhsna visitato in solitaria, e tutti quelli immortalati a metà per via dell’altezza, che senza fish eye le foto sembrano tutte mancanti di un pezzo. Qui il cielo è caldo, ma lascia scoperte le stelle; poi c’è stato l’eritema, il bagno nell’Oceano e il saluto al sole indiano. Con la testa fuori dal finestrino, mentre prendo appunti con la memoria, mi sento una Karen Blixen moderna, solo che al posto dell’Africa, di cui ho sentito dire esiste una malattia a cui nessuno sfugge, stavolta c’è la sottoscritta che immagina di scrivere LA MIA INDIA, co-protagonista insieme alla Natura, in uno sconfinato nulla invaso da felci enormi. E mi sono ammalata un poco anch’io forse, mica lo sapevo se esisteva un vaccino contro l’innamoramento. A proposito, mia madre voleva mi portassi dietro la valigetta dei medicinali, ma come glielo spiego che sono nella terra dove i mali si curano al massimo nel cortile, dove le piante sussurrano ad orecchie sagge i migliori rimedi, trasformando il dolore in sorrisi di gratitudine? Appena atterrata mi sono quasi tranciata un dito del piede, questo non gliel’ho raccontato, e data la quantità copiosa di sangue con cui ho imbrattato lenzuola, asciugamani e parte delle mattonelle nel bagno dell’hotel, come spiegazione mi è stato detto che animicamente sono legata a questa Terra, da diverso tempo, forse qualche vita. Come se non l’avessi già avvertito. Come se le connessioni con il mondo fuori fossero state interrotte per fare spazio a quelle con l’Alto. E come lo spiego a tutti quelli che conosco che qui non esiste un logo o pubblicità che mi faccia venir voglia di tornare? Anche se sto ancora a chiedermi quanto valga una rupia. Perché anche guardando tutti i film ambientati in questo paese, so che non si arriva con l’immaginazione a comprendere neanche un ventitreesimo di ciò che si respira qui, perciò auguro a tutti un po’ di mal d’India. Intanto cosa sia accaduto alla me che conoscevo prima non lo so manco io. So soltanto che l’India per me non è uno Stato, ma piuttosto uno stato della mente’.
Tempo fa mi hanno chiesto di scrivere due righe sull’India, ma le parole erano bloccate fra il chakra del cuore e quello della gola. Oggi mi sono limitata a duecento, trascrivendo appunti che affollavano la mente: giuro che queste sono le prime che riesco a metter giù, perché i viaggi non si raccontano. Si vivono. In autonomia si decide di partire e tacitamente si accetta l’accordo secondo cui si torna, ma non si sa come. Non si sa in che modo o se realmente ci portiamo dietro un luogo o lasciamo lì qualcosa che ci appartiene. Bisogna saper accogliere tutto quel nuovo che proviene dall’esterno per amalgamarlo con l’interno, allo scopo di creare un Equilibrio nella Bellezza. E credo che i viaggi servano anche a questo. Conosco gente che è stata in India 12 volte e rimane primitiva dentro, nella sua accezione meno graziosa: si può anche girare il mondo, ma se non si hanno occhi per vedere e cuore per Amare, nessun luogo sarà degno della nostra presenza.
Buon Cammino
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