Racconto di Piero Chiara

 

Redazione – Un padre che avesse perso il suo unico figlio bambino, colpito da qualche morbo, e che da quel giorno, dolcemente impazzito, ne andasse continuamente in cerca convinto di averlo soltanto smarrito, non sarebbe molto dissimile da me, che sempre spero di trovare, nel paese dove sono nato e cresciuto, il bimbo che fui e che non ricordo di avere abbandonato mai, ma solo di aver perso di vista un certo giorno.

 

Da quel giorno lo cerco per le strade, dentro i portoni, lungo le rive del lago, intorno alle barche, nei pressi dell’asilo, fuori dalla chiesa e in ognuno dei cortili che si aprono lungo le vie del vecchio borgo. Se ben ricordo ho cominciato a non vederlo più quando lasciai il paese per andare agli studi in collegio. Credevo che mi seguisse e invece dev’essere rimasto nella sua vecchia casa, nell’oscura contrada dentro la quale scende il sole di sbieco e a primavera cresce l’erba tra i ciottoli. Infatti è da allora che spasimo per ritrovarlo. Qualche volta ho creduto di riacciuffarlo, durante le vacanze. Dopo averlo inseguito da un angolo di strada all’altro, arrivavo a prenderlo per un braccio, a fargli volgere il viso verso di me. Non era lui. Altre volte mi capitava di intravvederlo in fondo a una strada o al di là d’una piazza. Facevo una corsa per raggiungerlo o cercavo di aggirarlo per arrivargli alle spalle, ma quando giungevo nel luogo dove l’avevo visto era già scomparso. Quando, ormai in età, mi spostai verso altri luoghi, il bambino si ritrasse nei suoi nidi, dentro qualche retrobottega, nella stanza di mia madre velata di scuri tendaggi, nel magazzino del primo piano o in fondo alla grande soffitta mai del tutto esplorata della casa dove eravamo nati. Passarono molti anni. Già anziano, tornando qualche volta al paese, mi riprendeva l’ossessione di ritrovarlo. “Giocava qui” mi dicevo “dietro casa.” Oppure: “Veniva spesso in questo cortile per giocare col figlio del falegname Tei. Andava di mattina a saltare sulle barche tirate in secco nel porto e a catturare, col fazzoletto, i pesciolini appena nati che guizzavano nell’acqua a un passo dalla riva”. Un giorno mi parve di vederlo sul balcone del sarto Primi. Sedeva sul piano di granito e teneva le gambette nude penzoloni, infilate tra le volute di ferro. Salii subito nei locali del sarto, ma la porta era chiusa. Mi ricordai allora che il Primi era morto da almeno trent’anni e che il suo laboratorio, dove andavo a veder lavorare le cucitrici e a farmi regalare i rocchetti vuoti del filo forte, era chiuso e abbandonato. Lontano dal paese per altri anni, mi dimenticai di lui. Ma tornato ad abitare in un luogo non molto lontano, e andandovi spesso, ripresi le mie ricerche. Gente nuova passava per le strade e le rive del lago erano diventate dei terrapieni sui quali stazionavano lunghe file di automobili. “Si sarà ritirato in qualche vicolo” mi dicevo “guarderà dalle aperture, qualche volta ovali, che danno aria ai sottotetti o starà dentro un giardino chiuso tra le case.” Ma una mattina di qualche anno fa, all’imbarcadero, dov’ero andato per vedere attraccare i battelli, mentre, seduto su di una panchina del molo guardavo il lago mosso dal vento, un bambino di cinque o sei anni venne a sedersi accanto a me e alzò la testa a guardarmi. Aveva i miei occhi, la mia bocca, il mio viso rotondo di allora. Lo presi per le braccia e me lo misi di fronte. Era lui, tornato da chissà dove. Docile e affettuoso mi sedette da presso e posò la testa contro il mio fianco. I capelli che gli cadevano sulla fronte mossi dal vento erano come i miei a quell’età. «Come ti chiami?» gli domandai tremando. «Non te lo dico» mi rispose. «Indovina.» In quel momento sentii chiamare da lontano un nome che non afferrai. Il bambino si riscosse, si alzò e prese la corsa verso una donna ferma in mezzo alla piazza. Mi prese un grande languore, che mi impedì di alzarmi e di correre, con lui, verso la donna che lo aveva chiamato e che lo aspettava con le braccia tese. Se mi fossi alzato e avessi traversato la piazza, di corsa, avrei trovato con lui le braccia aperte di mia madre, venuta di là del tempo a richiamarmi. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi, sopra di me, il bianco salone vetrato di un grande battello che attraccava in silenzio. Guardai verso la piazza: era vuota e deserta, forse per lasciare uno spazio tra la scomparsa della donna e del bambino e l’arrivo di chi andava ad imbarcarsi o di chi sarebbe sbarcato. D’improvviso mi ricordai del nome col quale la donna aveva richiamato il bambino: un nome gentile, con la penultima sillaba ripetuta lungamente come in una eco lontana.