Racconto di Giuseppe Fiore
(prima pubblicazione 11 novembre 2020)
Ale era steso sul prato. La testa poggiava su uno zaino pieno, usato come cuscino. La tenda dietro di lui, una piccola igloo, aperta. Una scena quasi cinematografica quella che scorreva nella zona di Nursi, in piena montagna. Il cielo era uno schermo gigante, di grandezza incalcolabile rispetto a quelli che si trovano nelle sale in città. E le scene erano solo abbozzate, tante, in diversi punti, poi era l’immaginazione che si travestiva da regista e creava le singole storie.
Il fumo si ammassava nella tenda. Di solito si tende a fumare fuori per disperdere nell’aria. Invece Ale era steso fuori e aspirava verso l’interno. Creava una foschia leggera nell’igloo, quasi una minuscola realtà diversa, con regole fisiche uniche, distanti da un pianeta che si sviluppava solo un passo più a destra.
Indossava lo smoking. Un matrimonio in montagna, con due pernottamenti in tenda non era proprio comune. Quando Leo lo aveva chiamato per spiegargli la particolarità della cerimonia, la prima parola che aveva attraversato l’autostrada della sua mente era stata: fanatismo. Due vecchi scout che decidono di sposarsi in alta montagna? Sembrava un’inutile esagerazione. Ma questo pensiero lampo era solo un piccolo asciugamano, sotto nascondeva un fascino potente. Era un’idea che ad Ale piaceva, da morire. Sgretolare le classiche regole di un matrimonio, in cui era cresciuto, per renderla una cerimonia vicina ai propri interessi. Era una cosa da Ale, come lo era da Leo, il suo più vecchio amico.
Leo era coca cola, cinema e cipria. Riusciva sempre, anche nelle situazioni peggiori, a nascondere il dolore o la negatività. Mascherava una bomba come qualcosa di positivo e riusciva a distillare gocce di gioia in tutti i presenti. E, quella del matrimonio scout, era un’idea che lo raffigurava appieno. Eliminare la vergogna trasformandola in passione.
Meritava tutto questo. Solo che quel matrimonio era la prova più concreta della potenza del tempo. E Ale ne aveva una folle paura.
Erano ragazzini durante quei campi su quelle montagne. Le camminate chilometriche, le sigarette nascoste nei boschi. Davvero adesso ci tornava per il matrimonio del suo migliore amico?
Ale era terrificato dall’inconsistenza che la sua vita aveva assunto. Certe mattine si svegliava credendo di dover ancora andare a scuola. Ma il tempo aveva mangiato ogni singolo giorno, ogni singolo pilastro che rappresentava la sua realtà. E ora era solo foschia, come nel suo igloo.
Cos’era diventato? Cos’era cambiato da quel ragazzino che tanto odiava indossare la divisa a quell’uomo, con un abito, steso in una tenda? Il tempo scorre in ogni minuscolo millimetro di pelle, si incunea, penetra, lavora, suda, cambia, invecchia. Ma oltre al fisico, oltre la barba, forse una leggera pancia più colorata, cos’era cambiato davvero? Il tempo era riuscito a superare anche le difese che la mente, con pazienza, aveva costruito?
Leo prendeva sulle sue spalle responsabilità che ogni madre, prima o poi, si aspetta dal proprio figlio. Siamo sempre bambini, ma chi ci ha messo al mondo, già si aspetta qualcosa da noi. Già ha segnato le diverse tappe che dovremo scavalcare per rendere fieri chi ci sta intorno. E Ale? Sua madre non aveva le stesse aspettative di ogni singola madre? Di ogni singola coppia di genitori che mette al mondo un figlio? Ci pensava spesso ai suoi, anche se solo da lontano, osservandoli con un cannocchiale nel loro appartamento. Che rappresentava la loro solidità, la pienezza della loro stessa vita. Una casa, nipoti, figli, diplomi, lauree, lavoro. Una linea non flessibile per essere fieri di qualcosa. Per essere parte di una società, per entrare davvero nella propria famiglia. Ma Ale aveva lasciato tutto. Questa iniziazione quasi massonica che la storia imponeva ad ogni ragazzo dopo il liceo. Aveva detto no. Aveva odiato la divisa agli scout, aveva odiato il voler apparire tutti come uguali, come soldati, quando la diversità è l’universo che possediamo dentro ogni petto e ogni testa. Era saturo delle singole aspettative che si susseguivano senza tregua. Arrivare ad essere la copia sbiadita del proprio padre che, a sua volta, era copia del proprio. Siamo catene che scrivono la storia, cercando di somigliarci, nonostante la differenza sostanziale che il mondo stesso pone tra le generazioni.
Gli altri sarebbero arrivati a breve. Erano scesi tutti in paese per bere un cocktail, parlare. Come va? Da quanto tempo? Come stanno i tuoi? E ti ricordi quella volta? Ad Ale non piacevano troppo quelle situazioni. Eppure, quelle stesse persone erano state la sua famiglia durante il liceo. Avevano passato pomeriggi lunghi chiusi in case, seduti al tavolo. In discorsi che si spegnevano sempre con domande senza risposta, con promesse che morivano pugnalate dall’ozio. Erano vecchi anche da ragazzi, disillusi, già con le idee chiare su cosa era davvero possibile fare e cosa no. Ma questo non li fermava. Progettavano, a volte anche nel dettaglio, avventure che sarebbero rimaste su una pagina di diario o in un sogno in bianco e nero. Diritti, politica, cinema, sport. Tutto e niente. Eppure, erano una famiglia per Ale. E ora? Ancora il tempo aveva separato tutto. Si era unificato in una massa di cemento creando un muro divisorio impossibile da scavalcare. La gente sparisce, i rapporti finiscono, le famiglie muoiono. Si rimane da soli, anche se con qualche amico. Ma sono uscite solitarie, uscite tristi, uscite piene di rammarico da memoria. Ale non era più riuscito davvero a lasciare dietro quel periodo. Anche dopo essere partito, dopo aver iniziato a studiare fuori rimaneva ancorato a quella vita. Non sentiva più nessuno, se non Leo, eppure credeva che un giorno sarebbero tornati a quella spensieratezza. E la cruda verità era stata difficile da mandare giù. Non sarebbero mai tornati. La vita, miscuglio di sensazioni, emozioni e fisicità, aveva preso sembianze diverse per ogni singolo profilo che formava quel gruppo di giovani amici. Aveva assunto forme diverse anche per Leo, che rimaneva un suo caro amico. Ma erano diversi come mai prima. In quel punto di montagna, che un tempo era stato il posto migliore in cui passare le vacanze, ora assumeva un ruolo quasi opposto, un matrimonio che sanciva la fine di una somiglianza.
Le cose alle 19 in montagna si trasformano. Era una cosa che Ale aveva sempre notato. Anche da ragazzi, durante i campi estivi, alle sette di sera la tranquillità prendeva posto in ogni singolo albero, stelo, fiore, tenda, pietra. Tutto cala alle sette e ogni preoccupazione sembra scomparire. Anche quel senso di velata malinconia verso una realtà che riusciamo solo ad immaginare.
< Leo si sposa allora. Come siete cresciuti in fretta > Queste erano state le parole, anche velate da un leggero rimprovero, che la madre aveva pianificato per mandare qualche subdolo messaggio.
Ale era finito a lavorare in un’azienda agricola nella periferia della sua città. Insomma, non il sogno perverso dei suoi genitori. Non la vita che era stata progettata. Non i desideri che erano stati richiesti. Forse aveva davvero abbandonato tutto per sfida, per un grosso torto. Ma alla fine la vita è su questo che si basa, no? Non si possono davvero percorrere troppe strade, commettere troppi errori e poi sperare in una pulizia dei peccati e in una nuova possibilità. Ma Ale non cercava redenzione. Non si pentiva di nulla. Si era sentito schiacciato, oppresso e aveva stretto i pugni per ben due anni. Fino ad un’esplosione quasi inevitabile. Un urlo così forte da far tremare ogni singolo mobile nella lontana casa dei suoi. Aveva chiuso i libri e cercato qualcosa che potesse andare in contrasto con tutto quello che la società imponeva. E ora era steso, guardando un cielo che sembra cambiare ogni secondo, aspettando un matrimonio che per lui era quasi un evento generazionale. In montagna. Con l’abito che rischiava di sporcarsi in qualche pozzanghera di sterco. Dove per anni aveva passato i momenti più belli e spensierati. Che poi vanno quasi sempre insieme le due cose. La bellezza di un singolo istante spesso proviene proprio dalla sua leggerezza, dai pochi legami che crea con quello che si è costretti a vivere ogni giorno. E durante quei campi era proprio tutto leggero. Tutto così lontano da quel monumento triste e inscalfibile che era la quotidianità in città, in casa con i suoi.
Si smette mai di pensare? Di ricordare? Di creare infinite catene silenziose nella propria testa?
C’era quella bellissima scena nel terzo film del Signore degli Anelli. Quando Gandalf e Pipino guardano l’orizzonte e vedono l’immenso esercito di Sauron che avanza. Non si scompongono, non provano paura o qualcosa di simile. Solo silenzio, accettano quello che la storia gli pone davanti, accettano il ruolo che è stato scelto per loro. Così Ale si immaginava steso, con la testa nella tenda e il prato sotto il corpo, aspettando un nemico che non aveva davvero un volto. Non faceva davvero paura. Non voleva davvero ucciderlo. Ma gli provocava inquietudine. Ale non era fatto per stare in pace sul mondo. Ale non era fatto per accettare quello che la storia gli poneva davanti. Ricordava una volta, su una panchina lercia, nel parco dietro casa della nonna, la voglia di fare qualcosa per cambiare il proprio futuro. Che sembrava già scritto e senza nessun picco frenetico folle. L’arte aveva sempre avuto fascino sia su di lui che su Leo. Creare qualcosa che fosse in grado di portarli in alto, insieme. Un futuro costruito con le loro mani e non con le aspettative degli altri. Ma non aveva funzionato. Tutti quei sogni, quelle parole che si accumulavano come vecchie foglie in giardino abbandonato, erano state spazzate via. Dal tempo, dalla crescita, dalla disillusione dovuta alla coscienza di non avere libertà. Di essere scritti in righe strette, che non possono essere mai superate. E ora, lì, al matrimonio della persona che, anche se per brevi attimi, aveva rappresentato un visionario e folle futuro, si consumava un omicidio iniziato anni prima e ora concluso, con il ritrovamento del corpo e la pace dell’anima.
Non c’era via d’uscita. Né per Ale, né per nessuno in quella festa, in quel paese, in quella regione, nazione, continente. Ad Ale piaceva riflettere, stringersi con catene invisibili sempre più strette, fino a togliersi il respiro. Non esisteva più nulla, nemmeno una briciola di speranza in lui. Avrebbe provato a godersi quella festa incolore. Quel matrimonio insapore. La fine dichiarata della sua adolescenza, la morte di ogni tipo di fantasia. Proprio su quella montagna, dove da ragazzini, tutto, ogni singola sfaccettatura di oniriche fantasie, sembrava possibile, realizzabile. Dove sembrava esistere una piena libertà. Una vita edificabile secondo le proprie scelte.
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