Fiaba di Silvio Fazio

Illustrazioni di BDB

 

Le cronache siciliane del Settecento parlano di una particolare casta o confraternita chiamata degli “Orbi civati” derivata da un’altra casta presente fin dal Quattrocento nell’Italia centrale.

Tale confraternita era il luogo dal quale provenivano gli “Orbi Canterini”: uomini ciechi che conoscevano le storie di tutti i santi del calendario.

Accompagnati da un musicista di chitarra, mandolino o violino, erano assoldati da chi aveva fatto erigere un’edicola votiva e davanti a essa cantavano, raccontando la storia del Santo. Il prezzo era in funzione dell’importanza del Santo stesso o dell’evento.

Era un mestiere antichissimo quindi, come quello dei cuntastorie e dei cantastorie che sono sopravvissuti anche nelle città fino a metà del Novecento.

Un mestiere antico simile e derivato da questi era quello del cantalanotte.

Infatti, nelle città che crescevano, non c’erano più galli che, come in campagna, potessero svegliare artigiani e panettieri e quindi erano assoldati questi uomini, i cantalanotte, che, dalle tre alle sette del mattino, davano la sveglia all’ora convenuta con i vari clienti.

I cantalanotte non facevano ricorso a strilli o urla ma, con canzoni quasi sussurrate, riuscivano svegliare chi doveva essere svegliato e a conciliare il sonno di chi poteva continuare a dormire.

In una città di mare in Sicilia, in un tempo che non serve precisare, il cantalanotte si chiamava Rinaldo come il pupo paladino più amato dal popolo di quell’isola. Non era nato cieco, ma lo era diventato per una disgrazia.

I suoi amici e compagni erano immigrati, emarginati, gente di quasi tutte le regioni del mondo che, con mille linguaggi, gli avevano regalato i loro racconti, le loro musiche, con occhi umidi o esaltati, con parole e suoni sconosciuti.

Con queste storie Rinaldo creava poesie e canzoni e mischiava tra le strofe i profumi, i colori e i sapori della propria terra: il mirto, il rosmarino, il ginepro rosso, il corbezzolo, il cappero, il leccio, il basilico degli Dei, l’ambra delle viti, l’argento degli ulivi alla luce della luna.

Certo, non poteva rivedere i colori meravigliosi dell’alba, il rosato dell’aurora, i riflessi sull’acqua del mare del sole che nasceva, ma li ricordava e riusciva comunque a percepire la bellezza di quello che lo circondava. Trovava così ispirazione per le sue poesie e serenate.

Ogni mattina, giorno dopo giorno Rinaldo finiva il suo giro di cantalanotte e faceva in modo di trovarsi vicino al porticciolo e, lungo un percorso che ormai conosceva a memoria, scendeva per gli stretti sentieri che portavano a mare, a una caletta isolata, nascosta da scogli salmastri e dal verde di lecci maestosi. Sapeva che un tratto di sabbia finissima lo attendeva prima di arrivare all’acqua del mare. Si toglieva allora le scarpe e a piedi nudi raggiungeva lo scoglio più avanzato sul mare e lì si sedeva e cominciava a cantare e a recitare le sue poesie.

 

Gli capitò, una mattina che non era ancora l’alba, di sentire sotto i suoi piedi sul tratto di sabbia delle grosse conchiglie. Si fermò per tastare meglio la sabbia e con le mani provò a sentire quante altre conchiglie ci fossero e nel cercarle e nel contarle, con suo enorme stupore notò che avevano disegnato la forma perfetta di un cuore.

Raccolse le conchiglie a una a una mentre pensava a chi potesse essere stato, pochi, infatti, venivano su quello scoglio e poi perché? Forse si erano trovati lì due innamorati e il cuore disegnato era un pegno d’amore, ma quelle conchiglie erano conchiglie di fondali più profondi, lontani, non si trovavano su quelle coste.

Restò tutto il giorno a pensare accarezzando le conchiglie che, appoggiate all’orecchio, sembrava cantassero musiche meravigliose.

Da quel giorno e per molti giorni ogni mattina che si recava sul suo scoglio, Rinaldo trovava sulla sabbia un altro cuore fatto ora con delle conchiglie ora con sassi levigati ora con piccoli rametti di corallo. Non riusciva a venire a capo del mistero, cercava di chiedere ma senza precisare dettagli e aspettava che qualcosa di nuovo accadesse.

Infatti, una mattina accadde che non trovasse alcun cuore disegnato sulla sabbia. Restò molto deluso, cercò ancora a lungo, ma nulla. Si sedette allora e, dopo qualche attimo, nel silenzio gli sembrò di sentire intorno al suo scoglio qualcuno o qualcosa che nuotava dolcemente nell’acqua lenta del mare e poi una voce melodiosa che sembrava cantasse proprio le sue canzoni e sussurrasse le sue poesie.

“Chi sei? Che cosa canti?” chiese stupito.

“Vieni a nuotare con me e lo saprai” rispose la voce.

Rinaldo era un ottimo nuotatore e ancora incantato e frastornato da quella voce bellissima, non ci pensò neanche un attimo: si spogliò e si buttò in acqua.

Fu subito avvolto da un’onda calda, protese le mani e toccò altre mani che dovevano essere quella di una donna e poi ancora al tatto colse la bellezza del suo viso, la seta dei suoi capelli, sfiorò i suoi fianchi morbidi e riconobbe il corpo immortale di una sirena. La immaginò lucente tra le onde dalla cresta bianca, il corpo immortale odoroso del profumo del mare, la coda di madreperla, smeraldo e lapislazzuli, il sorriso felice sulle labbra rosate e i capelli come alghe dorate.

Aglae, così disse di chiamarsi la sirena, gli descrisse le grotte in fondo al mare, le foreste di coralli, l’antro di Poseidone illuminato da pesci e piante fosforescenti e ornato da mille fiori d’acqua e gli raccontò storie ascoltate nelle terre lontane abbracciate dal Mediterraneo.

“Vieni con me” gli sussurrò Aglae “ho ascoltato le tue poesie e canzoni. Vieni con me”

Non servirono altre parole: abbracciato a lei, Rinaldo nuotò verso un mare lontano, verso acque sconosciute e pure.

Da quel giorno, in quella città, non ci fu più Rinaldo il cantalanotte.

Ogni tanto però, nei mattini rosati, si sente un vento leggero che scivola sull’acqua calma e che sembra cantare le sue canzoni d’amore.