Fiaba di Gianandrea Frighetto

Illustrazioni di BDB

(Prima pubblicazione)

 

Un’onda si spalmò sulla morbida sabbia, come una marmellata sopra ad una fetta biscottata, e bagnò i piedi di un bambino seduto sulla battigia.

Si chiamava Habibi e stava piangendo. Lo faceva sempre quando si trovava sulla spiaggia. Non che gli piacesse sentire le lacrime scorrere sul suo viso, ma quel posto gli metteva tristezza.

Girò la testa verso i compagni che giocavano immersi nell’acqua. E dove sennò? Il mare circondava quell’isola sperduta dalle cartine del mondo e quasi ci si dimenticava che esisteva una terraferma.

Ma un tempo lui ci viveva nella grande terra vicino al deserto con Amira, la sua sorellina pestifera, papà Saeed e mamma Sarah.

Trattenne un singhiozzo. Quanto gli mancavano tutti, ma soprattutto mamma con i suoi baci e le sue carezze. Rimpiangeva perfino le sue regole che anche durante il viaggio in barca aveva voluto che i figli rispettassero.

Se vuoi essere un bravo bambino devi fare due cose: ascoltare i più grandi e tenere pulita la tua casa.

Se Habibi chiudeva gli occhi riusciva a sentire la sua dolce voce sussurrargli all’orecchio.

Poi il sogno si interrompeva e al suo posto scoppiava un terribile temporale, la nave che andava a picco e lui che scivolava nel buio degli abissi.

Socchiuse le palpebre. Dopo la tempesta si era risvegliato su quella spiaggia, da solo.

Ma da qualche parte in quell’infinito orizzonte azzurro era certo ci fosse la sua famiglia. Doveva solo attendere.

Un tonfo poco distante attirò il suo sguardo. Un pallone galleggiava pigro a pochi passi.

«Lancialo! Che aspetti?» gli urlò un ragazzino dal viso paffuto.

«Quello è strano. Ha paura di nuotare» commentò invece la vocina di una bambina, che scosse i lunghi capelli ricci.

Habibi aggrottò le sopracciglia e si alzò stringendo i pugni ai fianchi.

Non ho paura pensò.

Immerse i piedi pian piano nell’acqua, come se stesse indossando un paio di pantofole. La sfera di cuoio era poco distante ma più si avvicinava, più quella scivolava via, e sembrava volesse giocare a chi ce l’ha.

Quando infine stava per afferrarla, un improvviso garrire richiamò la sua attenzione. Un gabbiano color panna volteggiava sopra di lui.

Habibi conosceva bene quegli uccellacci, egoisti e dispettosi quando si trattava di cibo.

L’acqua oramai gli giungeva appena sotto il mento, ma il bambino continuava a fissare l’ombra danzante nel cielo, incerto se stesse sognando.

«Occhio alla buca» disse l’uccello, con un tono stridulo proprio da gabbiano. Gli fece cenno con il becco poco più avanti.

«Come?»

Ma il gabbiano non rispose e si allontanò con una sferzata di vento.

Habibi scosse la testa con un risolino.

Dev’essere questo caldo. Non può avermi parlato per davvero.

Tornò a concentrarsi sulla palla. Se allungava il braccio, poteva quasi sfiorarla.

Piegò le ginocchia e fece un enorme salto per raggiungerla, ma ecco che d’un tratto la terra sotto di lui scomparve.

L’acqua attorno si tinse di blu scuro, mentre le correnti lo accompagnavano verso il fondo accarezzandogli la pelle e giocando con i suoi capelli. Il cielo divenne sempre più lontano e, infine, il buio lo inghiottì.

Voci e bisbigli lo risvegliarono dal sonno. Mosse le braccia lungo i fianchi e tastò un morbido lenzuolo inzuppato dai vestiti umidi. Socchiuse le palpebre, che vennero investite da una luce accecante.

Poi, piano piano, le figure cominciarono a delinearsi.

Di fronte a lui c’era un ruvido naso porcino accompagnato da un paio d’occhi a palla.

«Chi sei?» urlò Habibi alzandosi in fretta a sedere.

La tartaruga ritrasse la testa dentro al guscio tant’era la paura presa, ma poi tornò fuori e gli sorrise con il piccolo becco verde.

«Ben svegliato O’scia» sussurrò e con la pinna gli porse un fazzoletto.

Dopo un momento di titubanza, Habibi l’accettò e si strofinò il viso prima di guardarsi attorno.

Sotto un grande telone bianco due file di letti galleggiavano a pelo d’acqua, sostenendo i pazienti in attesa delle cure. Il bambino sbatté gli occhi diverse volte.

Sto sognando pensò, incapace di credere a quello che vedeva. Erano tutte tartarughe.

Si volse di nuovo verso il dottore. Dalle rughe che gli solcavano la pelle, pensò che dovesse avere molti anni.

«Dove sono?»

«Sull’isola delle tartarughe» rispose l’anziano, che poi mosse la pinna sul petto giallo. «Io sono Doc».

«E io Billy.»

A parlare era stato il gabbiano che aveva visto volare sopra di lui. Era appollaiato sul comodino e guardava Habibi con aria dubbiosa.

«Tu?» riuscì solo a dire il bambino, che poi si girò di nuovo verso Doc.

«Ti ha portato qui» spiegò il dottore prendendo carta e penna. «Cosa ci facevi in acqua?».

«Cercavo di prendere un pallone» sussurrò Habibi guardandosi le mani. Aveva paura d’essere diventato anche lui una tartaruga.

«Ti avevo avvertito» commentò il gabbiano.

«Non l’ho fatto apposta.»

«Voi bambini non ci date mai retta» continuò invece Billy.

Habibi scosse il capo e si rivolse alla tartaruga.

«Che posto è questo?»

«Ti porto a fare un giro» propose Doc.

Il bambino si immerse lentamente nell’acqua, che gli arrivò fino all’ombelico, e accompagnò il dottore.

Billy galleggiava dietro di loro.

Occhi e testoline spuntavano dai carapaci e li guardavano incuriositi.

«Siamo su un’isoletta sperduta, ancor più piccola di quella da cui provieni» disse la testuggine. «Ogni tanto capita che un bimbo si perda e noi lo rimettiamo sulle barche dirette verso la terraferma» aggiunse Doc.

Chissà se la mia famiglia è passata di qui pensò Habibi con la bocca spalancata dallo stupore.

D’un tratto venne attirato da quello che, a prima vista, gli sembrò un fantasma. Su un letto poco distante infatti, una figura alta e tonda rimaneva celata sotto le lenzuola.

Habibi si avvicinò lentamente e all’improvviso una testa spuntò dai piedi del materasso, facendolo saltare dalla paura.

La tartaruga stava ridendo ancora di gusto, quando Doc sollevò il telo e rivelò la gobba del suo carapace.

«Lui è Bubble.»

Il paziente fece un goffo inchino, prima di rimettersi a ghignare divertito.

«E cos’hai?» chiese il bambino guardando quella strana conca sotto il guscio.

«Una grande bolla d’aria che fa galleggiare il mio sedere in alto e la testa in basso. C’è l’ho da sempre e sempre me la terrò» commentò Bubble.

Habibi si volse verso Doc accigliato.

«Perché è qui se non può essere curato?»

«O’scia noi aiutiamo tutti, belli e brutti» rispose Doc allargando le pinne e mostrando il petto squamato sotto il camice.

«Parla per te» stridette Willy, che scosse il becco prima di volare via.

Habibi lo vide appollaiarsi sul letto più lontano, dove una paziente alzò la pinna per accarezzargli il capo.

«È la sua migliore amica O’scia» sussurrò Doc.

Habibi raggiunse Willy, che l’osservò con due occhi cupi, mentre la tartaruga distesa gli rivolgeva un sorriso stanco.

«Mi ha detto che ti chiami Habibi. Io sono Valentina» si presentò con voce tremante.

Habibi confermò con un cenno, ma il suo sguardo divenne presto triste. Valentina rimaneva immobile sotto il carapace spezzato a metà carapace.

Willy zampettò ansioso sulla tastiera del letto osservando Doc. Il dottore sembrava avere molte più rughe ora.

«Purtroppo Valentina non potrà più nuotare nel grande mare, per un incidente con un motoscafo» spiegò il medico.

«Mi spiace» sussurrò il bambino, che occhieggiò il suo riflesso sull’acqua.

«Non ti diamo colpe per quello che altri hanno fatto, nella speranza che un giorno tu possa aiutarci» rispose Valentina sempre tenendo le labbra del becco arcuate all’insù.

Habibi incrociò i dolci occhi della tartaruga.

«E tu hai nuotato nel grande mare? Dimmi cos’hai visto, così potrò immaginarlo» gli chiese Valentina.

Il bambino fece spallucce.

«Ho paura di affondare.»

«Paura?» garrì Willy, ma Valentina fece cenno a Habibi di continuare.

«Ho perso la mia famiglia tra le onde e mi sono ritrovato su un’isola ad aspettarli. So che torneranno, ma vedere tutta quell’acqua intorno mi mette tristezza.»

«È normale essere spaventati, Habibi» disse infine Valentina e il bimbo incrociò il suo sguardo, ricambiando il sorriso. «Per esempio a Willy non piacciono le coccinelle».

«Non portano fortuna ai gabbiani» commentò l’uccello.

«Ma prima o poi quello che ci intimorisce va affrontato, insieme. Ricorda che quella che tu chiami paura Habibi, per noi è casa» concluse la tartaruga.

«Insieme» sussurrò Habibi. «Valentina, ho un’idea» aggiunse e un sorriso si dipinse sul becco della nuova sua amica.

Willy prese una corda, Doc trasportò Valentina fino al limitare dell’isola e Habibi indossò un paio d’occhialini prestatigli da Bubble.

Il bambino fece passare le funi attorno al corpo e gli amici legarono Valentina al suo petto, facendoli divenire un tutt’uno.

Rimasero immobili ad osservare il grande mare di fronte a loro. Lì, dove l’acqua cristallina diveniva d’un tratto buia, come se non ci fosse più il sole a illuminarla.

«Sarò il tuo carapace e tu il mio coraggio» sussurrò Habibi all’amica e sentì la pelle d’oca alzarsi sulle gambe.

 

«Chiudi gli occhi, prendi un bel respiro e grida insieme a me: “O’scia grande mare”!» lo incitò Valentina.

«“O’scia grande mare!”» ripeté Habibi, che prese lo slancio e si tuffò.

Doc, Bubble e Willy li salutarono con pinna e ali, mentre Habibi e Valentina si muovevano tra le correnti sopra coloratissimi coralli e pesci danzanti attorno.

«Ricorda Habibi, questa è la nostra casa e quando ti sentirai solo, qui sarai sempre il benvenuto» disse Valentina allargando le pinne.

Il bambino sorrise e stese le mani.

O’scia grande mare!

 

Il verso di un uccello lo risvegliò di soprassalto.

Habibi si sedette sulla sabbia e si guardò intorno. Era tornato sulla spiaggia. Valentina, Willy, Doc, Bubble, erano tutti spariti. Sentì delle risate poco distante e vide i ragazzini giocare con la loro palla.

L’ho sognato?

Un improvviso stridio gli fece alzare il viso. Un gabbiano volteggiava proprio sopra di lui.

Il volatile puntò il becco lì, proprio dove aveva cercato di prendere il pallone nel sogno.

Habibi strinse lo sguardo. In mezzo alle onde una bottiglia in plastica galleggiava assopita, facendosi spingere sempre più lontana da riva.

Un brivido gli corse lungo la schiena. Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro.

Se vuoi essere un bravo bambino devi fare due cose: ascoltare i più grandi e tenere pulita la tua casa.

Poi tornò a guardare le onde azzurre e si alzò con i pugni ai fianchi.

«Questa è anche la mia isola e fino a quando non tornerà la mia famiglia la terrò pulita» si disse e poi corse verso le onde. «O’scia grande mare!» urlò e in cielo il gabbiano garrì assieme a lui.

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