Racconto di Maristella Bonomo
(Prima pubblicazione)
Fosca si gira un’altra sigaretta, poi solleva lo sguardo e i suoi occhi azzurri –di un azzurro denso e cristallino, mai visto altrove, screziato di blu– incontrano i miei. L’azzurro mi dilaga dentro, lo lascio colare mentre lei sfiamma con un colpo secco e mi chiede: “Non vuoi scrivergli?”
Nina dorme sul divano arrotolata nel lenzuolo, i capelli riversi sul cuscino, sono le due di notte passate, quando siamo insieme aspiriamo fumo e contraddizioni, ci amalgamiamo in un esterno interiore.
EST. INTERIORE – NOTTE
Mi ritrovo a rispondere sottovoce, che, sì, certo, vorrei… ma dopo tutto questo tempo –e lo dico nell’azzurro scosso della tenerezza e in quello vibrante del brivido, come se dicendolo stesse quasi accadendo, come a svanirti dentro pupille con un nuovo messaggio e dissolverlo subito dopo– non potrei sopportare un qualsiasi dissenso, silenzio.
Anche se nel silenzio l’azzurro muta, si espande.
Non so come ti ho fatto tornare (le dico).
Ti ho sfiorato sotto un sole di Ortigia, una spiaggia che non riconosco. Ti ho ascoltato in Soul stream e in Estasi. Se passando dal negozio di dischi al Pigneto mi fossi fermata a guardare. O se, disertando Venezia, potessi incrociarti, giovedì prossimo, come allora.
Mi chiedo perché sono fuggita da quel tuo messaggio di sette anni fa (cosa stavi per dirmi?). Un tonfo di cuore caduto, questa domanda. Non ho fatto in tempo a guardarla, agitarsi a corto di ossigeno, allagare l’asfalto di quel suo colore violaceo. Palpitava, di fronte a me si contorceva: non volevo sentirla spirare. Mi sono messa a correre. Lasciandomi alle spalle. Sopravvivere, corrispondenze, distanti, scontro di irrealtà. Pensavo di esserne uscita, anche se fuori posto, d’intralcio, di aver invertito l’andamento, la punteggiatura, il pensiero. Ma la domanda mi svolge à rebours: guardo tra i miei passi e ti riconosco. Riconosco il tuo volto, il tuo modo di parlare, le tue mani. Una mia città sparpagliata dentro.
Quando ti incontro in un sogno è per scorgerti in mezzo a una folla, che ridi che bevi, poi ti smarrisci, traspari, o poco più in là. In una via che non ha più nome, un locale vuoto, che forse esiste solo per me. Le vetrate, un bancone in cartongesso, una lampada led. Il mixer. Qualcosa di appena concluso. Dentro poca luce, soli, ci baciamo.
Al mattino, vetrate in frantumi. Chiome di alberi immobili, le ossa vive. Non oso parlare, mi chiedo: perché. Non sarà più questione di avere vent’anni. Un passato infinito. Mi guardo allo specchio e provo a entrare dentro i miei occhi per uscire da qui.
Tutto l’azzurro che scende, tutto il corpo inebriato.
Fosca fuma, le clavicole sporgenti, la canottiera larga, custode dell’invisibile. Accenna a un sorriso, lenta, lontanissima, ma complice, come il fumo che le sfugge intorno, screziato di blu.
Nina si sveglia, si mette seduta. Cerca gli occhiali. “Che c’è? “chiede mentre lega i capelli alla buona. “È tardi”, rispondo e mi alzo. Nella notte, che si precisa, mi rimane implicito.
Di parlarci, in questa misteriosa azzurrità. Di chiedercelo. Anche se non è il momento, mai, lo sappiamo, anche se riderai di me perché io ho riso di te, contro chi c’è (da me da te), tra la cenere di questo oblio.
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