Racconto di Roberta Sgrò
(Prima pubblicazione – 26 maggio 2021)
Dinanzi a uno specchio, mi guardo e la mia immagine diviene evanescente. Ciò che mi sta dinanzi mi fronteggia e mi sconfigge: il volto pieno di rughe, le mani con mille tagli, che sfiorano ormai ruvide questo viso distorto, dall’espressione muta. Provo emozioni contrastanti dentro di me, eppure non sorrido, né le pupille si allargano per la sorpresa o per la paura, né il mio naso sembra aiutarmi a sospirare. Non sono i capelli ormai piatti a spaventarmi, ma queste iridi vuote e le cicatrici che custodisco all’interno, tante delle quali si aprono al minimo movimento errato, che sia una corsa inattesa o una carezza che l’altro non merita. “Sei stanca”, questo suggeriscono le mie labbra minute. “ Sei ferita”, mi sussurra il petto, in un solo forte battito che mi frastorna le orecchie, come fosse un tuono, ma rimango immobile.
La bellezza svanisce, quella che gli altri definiscono tale perlomeno. Ma io conservo in me la consapevolezza che “esser belli” dipenda dalla capacità che ognuno di noi ha di sorridere con il cuore, spontaneamente, come so che la dolcezza sta nell’espressioni più strane e si nasconda in quegli occhi che sanno ancora colorarsi, divenire veri e propri crepuscoli.
E così mi osservo, lascio che le goccioline di acqua tiepida bagnino la mia pelle e che le mie mani danzino tra i pensieri: perché questo è un altro giorno, perché il divorzio è stato firmato. Perché mio figlio si laureerà domani e mia figlia tornerà stasera da Londra per l’evento. Ripensandoli mi illumino, perché sono due anime inseparabili di una bellezza genuina, due parti che di me ho donato al mondo e che si sono trasformati nel dono più inatteso per splendore. Mi guardo e ricerco il mio nome tra il tono delle mie sopracciglia e quello dell’ombretto che, con lentezza, indosso mentre silenziosamente gli chiedo di non sovrapporsi a me. Mi guardo, sposto il viso, indago manifestazioni del mio animo e mi si corruga la fronte. Faccio un giro su me stessa, danzo anche se non vi è musica con me e proprio in quei secondi in cui do le spalle allo specchio, in cui sono voltata e non mi vedo più, mi sembra di esser tornata bambina: la gonna dell’abito volteggia ed io chiudo gli occhi.
Ecco, così mi osservo ancora meglio: ora sono dentro di me, mi percepisco. Non sono più quello che il mondo richiede, non sono bella e non sono brutta. Come se fossi un’abile sarta, riempendomi di fili lucenti costituiti da pensieri positivi, stavolta opero in me e faccio in modo che le ferite sappiano rimarginarsi per bene. Sono come pagine di quaderno, pronte a lasciare le altre, ormai stropicciate, con le graffette che non le sostengono più, per via di quante, in precedenza, sono state con violenza strappate via. Tutto ridotto all’osso ma ancora in vita e capace di resistere, un cassetto colmo di inchiostro su carta, di giorni e di storie, di sconfitte. È trascorso solo un battito d’ali, eppure quando riapro gli occhi mi sorrido, automaticamente, già fiera di quello che sarò oggi e di cosa diverrò nei giorni futuri.
Ecco, eccomi. Forse è questo il segreto per ritrovarsi: vedersi soprattutto quando è buio, quando ci sono solo io e quando tutto intorno assume nuovi contorni. Mi vedo con gli occhi chiusi, e credo che, in mattine in cui alzarsi è dura, in inverni troppo freddi e una miriade di faccende da sbrigare, debba provarci chiunque. Ogni piccolo germoglio che non riesce a crescere, che la pioggia troppo violenta piega, può opporsi e risanarsi, ma può farlo solo quando nessuno lo vede, né ammira né invidia, può farlo in dialogo con se stesso e spoglio di ogni costrizione da parte dell’altro. Lascio che sia il vento a scivolare, che divenga tempo e svanisca; lascio che siano i bisbigli a domare il mio animo ferreo, anche quando il mondo urla e io, senza rimpicciolirmi, saprò ascoltare.
Sono donna, tempesta e rugiada, compagna e traditrice, Venere e arpia. Per gli altri, per giudizio ma non per me stessa. Io mi conosco e mi vedo, però a occhi chiusi: e credo che questo mi basti.
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