Racconto di Sara Spanò

(Terza pubblicazione)

 

Non è uno solo.

Sono due, tre, cinque, dieci, che ronzano furiosamente e cozzano in maniera caotica contro la finestra di una casa al mare immersa in una pineta. Perché non l’hai aiutata? Perché non l’hai tirata su? Lo hai fatto apposta? Voci arrabbiate, che la rimproverano ovattate da un tempo forse vero, forse sognato, forse immaginato. Ecco, ora dovrai occuparti di lei, per sempre, anche se. Anche se.

La scelta di Agnese è stata quella di sparire, senza dire nulla a nessuno, tantomeno a lei. Morire al mondo per un po’. All’abbazia di Neustift c’è qualcosa che la attrae, una luce per un insetto notturno.

Il codice membranaceo Brixinensis 19, trovato in una cantina a Brixen nel 1977, contiene alcune omelie sul Vangelo di Matteo – relative ai passi sulla tentazione di Cristo nel deserto –, attribuite a Gregorio Magno, ma composte da un certo abate Pietro, vissuto nel XII secolo. Un clamoroso falso – mutilo, interrotto alla carta 80r – espunto dal corpus gregorianum.

Ma può succedere una cosa così? Si può davvero espellere tutto?

Poi, il ritrovamento delle carte mancanti, descritto in uno studio di una dottoranda sconosciuta, passato quasi del tutto inosservato. Dalla scansione digitale di 80v Agnese ha potuto vedere un’illustrazione che ritrae un cervo volante gigantesco che insegue, brandendo mandibole demoniache, due angioletti terrorizzati, uno biondo e uno bruno; in 81r e 81v, un testo latino non ancora trascritto. La figura è talmente vivida da far sentire il ronzio dell’insetto, che dalla pagina di pergamena si irradia rimbombando nella sala. E poi, quei due angioletti, uno biondo, uno bruno. Uno biondo, uno bruno. Come loro. Non ha saputo difenderla. Non abbastanza.

Eppure, le è sempre stato detto di stare attenta. Sempre. Tutti si sono preoccupati di lei, e Diana per prima, anche a scapito di sé stessa, della propria carriera – oh, sarebbe splendido se quella sua scoperta avesse un seguito. Prima di tutto, comunque, sua sorella avrebbe dovuto stare alla larga da un uomo sposato. Anche quella sera, durante quella cena tra risate e lacrime, Diana ha provato a distrarla, a starle vicino, a metterla in guardia, a lei così pallida vestita di rosso, a lei con le leccornie francesi di cui va tanto orgogliosa, il foie gras de canard, il Côtes De Provence rosso e tutto quel suo mondo, fatto di frivolezze, di superficialità. Voler bere vino, per esempio. Insomma, stai perdendo ancora sangue, Dio santo. Stai attenta.

All’abbazia non fanno domande, non danno consigli: Agnese accede alla sala manoscritti negli orari di chiusura; tiene nel bagno della sala garze imbevute di connettivina, disinfettante, cerotti di grandi dimensioni; non incontra mai nessuno, come da richiesta.

Cosa stai facendo? Diana si volta e la vede sulla soglia. Sono così simili, loro due, almeno nell’aspetto, anche se Diana vorrebbe tanto essere del tutto diversa da lei. Niente, è per la tenda, fa casino, ho sentito che sei andata in bagno, stai bene? mah, insomma, diciamo che andrà meglio, dai, torna a letto. Anche Diana si rimette a letto, stanca, in apprensione, piena di domande. Di dubbi. Di quei dubbi da cui non dovrebbe farsi attanagliare.

Prima di partire, di nascosto da tutti, anche da lei, Agnese ha chiesto dei pareri medici, per puro scrupolo. Ematidrosi, ha persino ipotizzato un incompetente. Diagnosi negativa. Ovvio. Agnese non suda sangue, non è mica Gesù Cristo; ha semplicemente una ferita sul fianco, lunga trentatré millimetri, che sanguina da quasi quaranta giorni e ha un aspetto instabile che la rende refrattaria alla sutura e resistente a rimedi cicatrizzanti.

Settantaduesimo giorno.

Diana non sa se sia riuscita a dormire oppure no; non si chiede più nulla, non si volta a guardare. Si riveste in silenzio, esce.

Trentanovesima notte.

Eccoli, di nuovo.

Quei colpi, tonfi sordi, sul vetro della finestra.

Sanguina, ma deve sopportare.

In biblioteca non c’è mai nessuno.

Dal ronzio emergono delle parole: attenta al vino, è un vasodilatatore. Dove ha sentito, Agnese, questa frase? Forse durante uno dei consulti medici, forse altrove. Ma dove?

Settantunesima notte.

(Ma quel tempo non si conta in settimane?)

Certo che lei potrebbe anche far sistemare quella tenda: col vento il rumore è insopportabile. Provare a prendere sonno è impossibile.

Una luce si accende in bagno. È lei. C’è da sperare che stia meglio. Quella telefonata in tarda serata, l’ultima di una lunga serie. Quante, quante volte è dovuta correre via dalla biblioteca per andare da lei, quella da consolare, quella da sostenere, sempre. Quella sera il telefono è squillato e la voce di lei, in lacrime, ha detto qualcosa, impossibile da mettere subito a fuoco: è possibile che stia succedendo spontaneamente, ha detto, sto bene, il mio amico, il dottore, ha firmato il referto, mi ha dimessa subito, però verresti a dormire qui, per favore? Diana la credeva in viaggio, se non serena perlomeno distratta da qualcosa. Un solo pensiero le attraversa la mente: Dio, vorrei sparire.

Sulle lenzuola immacolate una macchia di sangue e un cervo volante, immobile.

Agnese non fa in tempo a farsi altre domande: qualcosa si lacera sul suo fianco. La ferita sanguinerà di certo in maniera più intensa e Agnese, che veste sempre di bianco, è un po’ in apprensione, anche se non incrocerà nessuno. Deve controllare, cambiare la medicazione. La ferita ora ha i bordi sfaldati, come per un cedimento spontaneo dei tessuti. Agnese cerca di non pensare e medica la ferita. Deve sopportare. Nonostante tutto.

Agnese ripensa a quei colpi sul vetro. Ogni notte.

Diana si alza dal letto, apre l’anta del balcone, prova a legare la tenda rossa con la fettuccia bianca e sfilacciata.

Agnese si alza dal tavolo, sopporta il dolore e si avvicina trattenendo il fiato alla finestra della sala e alla lanterna che pende dal cornicione.

Il riflesso di una donna bruna vestita di rosso appare sul vetro, accanto al suo. Sono sempre state così diverse, loro due, anche nell’aspetto. Agnese è sempre stata la più forte, quella indipendente, quella in grado di sopportare. Lei no.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.

Qualcosa, dotato di grandi ali e corna – che poi corna non sono – vola, attratto dalla luce, e batte contro il vetro con un rumore sordo.

Basta con quel rumore. Bisogna fissare quella tenda.

Non ora, pensa Agnese.

Si risiede al tavolo, sopporta il dolore e prosegue con la lettura: è la storia della salé, l’idiota del monastero nel deserto, vessata in tutti i modi dalle consorelle, la spugna che assorbe il male, che prende il peso di tutto sulle spalle mentre tutte le altre si aggirano nel territorio del diavolo, preda delle sue lusinghe, delle sue tentazioni.

Agnus Dei qui tollis peccata mundi miserere nobis.

Quarantesimo giorno.

Agnese si risveglia, stremata; si chiede che aspetto avrà la ferita, ma non c’è alcuna ferita su cui interrogarsi ancora.

Il referto Diana lo ha voluto leggere coi propri occhi: può davvero succedere, una cosa così? Si può espellere tutto, membrane, materiale fetale, materiale ovulare, placenta, tutto? Diana è scettica: ha sempre sentito parlare di ricoveri, di raschiamenti. E poi lei, lei quel bambino non lo voleva. Aveva pianto tanto, quella sera, ma non lo voleva, era chiaro fin dall’inizio, no, lui è sposato, i figli li ha già, diceva. Parlare della disperazione, ma perché, forse per far quadrare tutto? In quel momento ero solo un animale che sta perdendo il figlio a pezzi nel cesso, ha detto. Una frase che è stata un crampo nel ventre di Diana. Una frase detta per far quadrare tutto, quando non quadra niente. Il mio amico, il dottore, ha firmato il referto, ha detto, ma che specializzazione ha il suo amico, il dottore? Diana non ricorda, non vuole mettere a fuoco le cose. No, non vuole. Quell’assenza temporanea. Un viaggio ha detto. No, la verità Diana non vuole saperla.

Mentre legge, una fitta, acuta, affilata come non mai, trafigge il fianco destro di Agnese. La ferita ha margini netti, come l’incisione precisa di un bisturi.

Qualcosa, dotato di grandi ali e corna – che poi corna non sono – vola, attratto dalla luce, e batte contro il vetro con un rumore sordo.

La trascinarono a forza e le dissero: «È il santo Piterum che vuole vederti». Venne dunque, ed egli riconobbe la benda cenciosa sulla sua fronte, e caduto ai suoi piedi le disse: «Benedicimi». Ugualmente essa cadde ai piedi di lui dicendo: «Tu benedicimi, signore». Tutte restarono attonite e gli dissero: «Padre, non sentirti offeso: è una povera pazza, una salé».

Nell’incubo, una donna bionda vestita di bianco e una donna bruna vestita di rosso in fuga da una mostruosità immonda che emette un ronzio assordante.

La donna bionda, nel tentativo di difendere la bruna, viene ferita al fianco, il suo vestito si tinge di rosso; il ronzio cessa; la donna bruna viene accolta da voci benevole, elogiata per il suo coraggio; la donna bionda viene rimproverata da voci arrabbiate, perché non l’hai aiutata, perché non l’hai tirata su, lo hai fatto apposta.

E dove andò o dove scomparve o come morì, nessuno l’ha saputo.

Perché non me l’hai detto? Perché nemmeno a me? pensa Agnese alla fine della lettura, e non sa perché lo stia pensando.