Racconto di Marina Cerni
(Settima pubblicazione)
Come non vedere il mondo attraverso i suoi cerulei occhi?
Sì, proprio così, vedo tutto ceruleo, tra tutti è il mio colore preferito.
Amava descrivere così le sue pupille del color del cielo, punticchiato da frammenti dorati, erano occhi ormai stanchi, a volte chiusi, a volte sbarrati, spesso ti trapassavano come non esistessi, a volte si fissavano su un particolare e da lì non si schiodavano. Nei giorni primaverili, quando sbocciavano le margheritine nel prato che circondava la struttura, ci recavamo con la carrozzina alla porta finestra che si affacciava sul giardino, lui batteva le mani felice, come un bimbo quando scarta i regali a Natale, gli occhi all’improvviso gli brillavano ed esclamava “Che meraviglia, guarda che belle!!”.
Amava le margheritine del suo prato, era come se sbocciassero sempre per la prima volta, come se la magia del creato si palesasse improvvisamente dopo l’atto della creazione; quello stupore infantile mi rapiva e mi riportava indietro nel tempo.
Ricordo ancora con emozione il primo giorno che entrammo in casa “San Francesco”, era vestito in modo particolarmente accurato, indossava la giacca e la cravatta, compagna fedele della sua vita di funzionario comunale e della quale non poteva, e soprattutto non voleva, liberarsi. Mia madre aveva preparato borsoni di indumenti: maglie, pantaloni, tute, asciugamani e tutto era stato da me corredato dal suo obbligatorio numero distintivo individuale: otto. Quel numero lo avrebbe accompagnato per i quattro anni successivi , su ogni indumento che si acquistava, si lavava e si riponeva. Ogni volta che lo vedo, numericamente trascritto in ogni dove, si riaprono i ricordi di questo suo ultimo cammino, segnato dal declino fisico e cognitivo.
Lui stringeva in mano la sua cartella da lavoro come un giovane emozionato al suo primo colloquio interinale, mentre aspettavamo che ci assegnassero la stanza. In seguito aprendo la valigetta scoprii, con struggimento che ancora non mi lascia, insieme ad un paio di forbici, scotch, elastici e penne, un curriculum vitae, battuto a macchina forse qualche anno prima che la memoria cominciasse a cedere. Lo scorsi rapidamente per vedere cosa avesse elencato e potei leggere, in ordine cronologico, tutte le sedi che aveva occupato come segretario comunale, le conferenze e i congressi a cui aveva partecipato. Insieme al sorriso spontaneo, vinta dallo struggimento, non potei trattenere le lacrime e quando in seguito gli chiesi come mai avesse portato con sé il curriculum, visto che ormai era da svariati anni in pensione, mi rispose ingenuamente e con infantile sorpresa di fronte alla, per lui, sciocca domanda, che un curriculum…….. “ può sempre servire”.
Dispensava strette di mano a tutti come fosse ad una delle sue riunioni di lavoro e non si accorgeva delle facce allibite e sospettose degli altri ospiti che trovavano sicuramente anomalo questo suo modo ufficiale di presentarsi a tutti. Il suo comportamento non era sicuramente frutto di un altezzoso modo di interagire con gli altri, era solo la ripetizione schematica di un’abitudine fatta di decenni di esperienza lavorativa e se ci ripenso, una tenerezza infinita mi assale e lo rivedo così, a dare la mano alla stessa persona più volte , ogni qual volta la incontrasse nel corridoio.
I primi due anni sono stati segnati da un declino graduale ma non violento, la memoria se ne andava, faceva bizze, sovrapponeva gli eventi, li invertiva. La postura si induriva, i piedi erano sempre più trattenuti a terra, come trascinassero palle di piombo, il passo era corto e la gamba rigida.
La scrittura diventava difficoltosa, sotto dettatura ancora riusciva a firmare, a trascrivere intere frasi, ma la sua elegante grafia mutava, diventava sempre più piccola, infantile e irregolare, sia nella dimensione che nel seguire il rigo.
Se lo si faceva esercitare, dopo poche parole si stancava, ma in verità la sua residua consapevolezza lo faceva sentire a disagio, soffriva nel non saper trascrivere una parola, a non ricordare tutti i numeri, così i giochetti per tenere la mente impegnata ed allenata, diventarono per lui sempre più dolorosi e imbarazzanti.
Ammetto di aver desistito troppo presto ma il suo orgoglio ferito era disarmante, mi sentivo a disagio nel farlo sentire uno scolaretto costretto alle consegne casalinghe. Sapevo che il declino sarebbe stato meno rapido, se avesse tenuto la mente allenata, quindi di conseguenza, in un circolo vizioso, mi sentivo inadeguata e inadempiente. Pur comprendendo ora quanto siano inutili e gratuiti questi sensi di colpa, devo accettare umanamente che il cuore non si rassegna allo stesso ritmo logico della mente, vuole trovare motivazioni, cause, giustificazioni improbabili, ad un declino immotivato e iniquo.
Non aveva mai amato giocare a carte, non aveva mai frequentato bar ed osterie, aveva sempre occupato il tempo libero leggendo, scrivendo diari, raccogliendo articoli e ritagli di giornale per tutte le possibili miscellanee, archiviando puntigliosamente bollette, scontrini e bugiardini. Contrariamente alla sua naturale inclinazione, sotto suggerimento neurologico, nei salottini lo facevamo giocare a carte, guidandolo inizialmente nelle mosse. Smettemmo precocemente questa “tortura“, preferiva assistere alle partite, anche se anche quello lo faceva sentire a disagio, inutile e totalmente fuori luogo. Quando ero bambina ogni tanto suonava la chitarra, così con la musicoterapia hanno provato a fargli ascoltare le sue musiche, per sollecitare emozioni passate che avrebbero potuto accarezzargli l’anima e risvegliare ricordi. La cosa devastante per i famigliari, infatti, è vedere spegnersi, insieme alla razionalità, anche i segni dell’emotività e dell’affettività; in tutti i modi si cerca di tenere viva la speranza che, sotto alla apparente assenza e imperscrutabilità, i legami d’amore siano intatti e indissolubili.
Pian piano il controllo degli sfinteri divenne un lontano ricordo e l’abbigliamento tornò pian piano all’infanzia, alle tute e ai pigiamoni.
Erano finiti i tempi in cui, io e mio fratello, acquistavamo il profumo da barba per la festa del papà, le contingenze ci obbligavano a trovare gli indumenti sanitari più comodi, cuscini ad aria, creme per le gambe magre, ormai senza muscolatura, che si squamavano facilmente.
All’inizio del percorso non fu facile accettare che noi famigliari stavamo diventando per lui sempre più trasparenti, anonimi, totalmente fusi con le restanti persone, totalmente avulsi dal suo mondo parallelo. Una volta alla domanda di una ospite che gli domandava chi io fossi, rispose “Una che lavora qui dentro”. Il mio cuore perse dei battiti, il torace fu stretto in una morsa che mi tolse il respiro. Poi, come per tutto nella vita, il dolore si attenua, prende la consistenza di una melanconica abitudine che accetti con rassegnazione. A volte trasformavo le sue risposte senza senso o le sue richieste in umoristiche battute, anche per alleggerire l’atmosfera cupa, perché era importante anche preservare lo spirito di mia madre, che gli viveva accanto.
Arrivarono giorni difficili, ed era facile perdere la pazienza nelle fasi aggressive, dove i gesti stereotipati davano un ritmo ossessivo a pomeriggi strazianti, tutto corredato con l’inevitabile senso di colpa per non riuscire sempre a rispondere con dolcezza alla reazione incomprensibile e apparentemente gratuita.
So ora quale tormento e alterazione della mente lo portasse a scagliarsi verso chiunque si approcciasse al suo involucro esterno, so che in un remoto angolo del suo spirito lui era presente e invano cercava di raggiungerci e abbracciarci.
Lo so perché i suoi cerulei occhi, naturalmente miti e compassionevoli, a volte si riempivano di lacrime e dolcezza, mentre gli accarezzavamo le mani e le braccia per tranquillarlo, lo so perché ora lo sento vicino e presente con tutti gli insegnamenti che ci ha lasciato.
In tutte le arrampicate per raggiungere la vetta, nella fatica di raggiungere la sommità, mi risuona il suo sostegno Per aspera ad astra”, forza che riusciamo, un passo dietro l’altro!”
Così, raggiunta la sommità si spalanca la meraviglia del creato e il cielo sopra, che ci abbraccia e ci avvolge, avrà sempre il colore dei suoi occhi.
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