Racconto di Domenico Mancusi

(Quarta pubblicazione)

 

L’asse viario più importante della città di Potenza un tempo era via Pretoria. La strada –conforme a un decumano- si distende da nordest a sudovest sopra un crinale di collina, pressoché rettilineo. Durante gli anni Sessanta, d’estate, il luogo preferito dai potentini, che abitavano la zona a nordovest di questa storica arteria pedonale, era la villa di Santa Maria. A contribuire a formare la schiera di sfaccendati frequentatori del parco, c’ero anch’io.

Entro uno spazio di un ettaro e mezzo circa, a forma quasi rettangolare, si affollava un assortimento di umanità dedito a differenziati svaghi. Vi erano anziani impegnati in passeggiate con amici o nipotini o, seduti su panchine, intenti a rievocare episodi della gioventù e della guerra, ma anche a chiosare su fatti della cronaca attuale. Quest’ultima occupazione, in occasione dei mondiali di calcio svoltisi in Inghilterra nel 1966, per l’inaspettata sconfitta dell’Italia a opera della Corea del Nord, assunse forma di pandemia. Nessuno riusciva a mandare giù l’inattesa disfatta e a indicare eventi nefasti in genere venne coniata la sentenza: è stata una Corea.

In villa vi erano giocatori di tennis di varia età, di bianco vestiti, buona estrazione sociale e densa puzza sotto il naso. Vi erano pattinatori a rotelle, ma erano soprattutto le ragazze a dedicarsi a tale sport con mirabolanti giravolte che provocavano provocatori svolazzamenti di ampie gonne quadrettate. Vi erano anche ragazzi che giocavano a calcio fino allo scontato sequestro del pallone, da parte dei solerti giardinieri. Vi erano ancora i militari della Caserma Lucania, il cui fronte esposto a Ovest affacciava sulla villa. Tanti, giovani e meno giovani, all’interno della villa, erano soggiogati dal demone delle carte.

C’erano coloriti personaggi. Ne ricordo uno, di cognome faceva Basile, aveva un venticinque anni, la sua carnagione era scura per costituzione naturale e per via di pesanti attività lavorative svolte sotto continuativa esposizione solare. La sua figura appariva ancora più arcigna per effetto di un’ispida peluria e del taglio dei capelli a spazzola. Basile, di cui non ricordo il nome di Battesimo, era massiccio e forte come un toro e, sapendo di esserlo, sembrava vivesse dominato dall’urgenza di darne continua dimostrazione, pertanto l’interno della villa di Santa Maria l’aveva eletto quale personale Colosseo.

Il belligerante e irsuto personaggio, dopo una dozzina di gravose ore di lavoro manuale, all’imbrunire, attraversava la villa ormai pressoché svuotata per rientrare verso casa. Basile, non pago degli sforzi lavorativi effettuati, si avvicinava al nostro gruppo di quindicenni o giù di lì, con un misto di ironia e provocazione, poi stringendo forte i pugni, per dare modo agli ipertrofici bicipiti di espandersi in maggiore misura, se ne usciva sempre con questa frase, in gergo aviglianese: «Chi eglia lu cchiu’ fort’ r’ vui qua miezz’? (chi è il più forte in mezzo a voi?)».

«Sono io» rispondeva qualche sprovveduto.

«Allora, mo’ n’ama fa na lotta! (adesso dobbiamo fare una lotta!)»

A ognuno di noi, a turno, toccava subire il tormentone corporeo del duello e della stropicciatura e lordura degli indumenti con il tappeto erboso delle aiuole, cui seguivano altre strigliate al rientro a casa. Al termine delle singolari tenzoni, Basile ci assegnava il voto: «Tu si fort’ addaver’! (tu sei forte sul serio!)» si spingeva a dire se incontrava uno di noi in grado di dargli un poco di filo da torcere. Il sottoscritto ebbe questa gratificazione oltre a ricevere l’onore delle armi che si materializzò con una frizzante e ghiacciata gassosa, offertami dal vincitore con generosità e lodi.

C’erano, in villa, spesso in atteggiamento di preghiera, giovani catechisti, frequentatori dell’Azione Cattolica e collegiali dell’Istituto delle Suore Canossiane che si dirigevano verso la chiesa e il collegio.

Insomma, la Madonna, entro lo spazio a Lei dedicato del parco, riceveva molti elogi e molte altre invocazioni diversamente lodevoli.

Nei pressi dell’entrata principale della villa, da via Angilla Vecchia, c’è ancora lo stesso bar dove, all’epoca, venne collocato un tecnologico ordigno, tozzo e a forma quasi cubica, dal quale si sprigionavano note musicali: il juke-box.

Dal luccicante mobilio si diffondevano musica e parole a profluvio: le innovative note di 29 settembre dell’Equipe84; le commoventi frasi di A chi del nero bianco Fausto Leali; gli ispirati versi di Auschwitz di Guccini; i vagheggiamenti di Michel Polnareff su delle bamboline che facevano no, no, no. Anche i Rocks, antesignani del politicamente corretto, attraverso lo squadrato involucro, invitavano a Saper perdere.

Non so chi ebbe l’dea, con probabilità si trattò di circostanza fortuita, il disco ci era finito per caso nel juke-box. Sta di fatto che, tra le varie etichette contenute nella tastiera per la selezione dei brani, ne intravidi una: era degli Vho, il brano era Happy Jeack. Buttai dentro il juke-box cento lire e rimasi folgorato sulla via dell’Hard Rock.

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