Racconto di Carlo Dore jr.

(Prima pubblicazione)

 

 

28 aprile 2010

“Non può finire così”, penso mentre Xavi va a battere l’ultimo corner.

Non può finire così. Non possono segnare il gol che ci elimina all’ultimo secondo, dopo trentotto anni che aspettiamo di giocare un’altra finale di coppa dei Campioni.

Così non è giusto.

Così fa troppo male.

Trentotto anni. Guardo Carlo accanto a me: il mio bambino con la maglia di Milito addosso, che non ha più neanche la forza di respirare. Trentotto anni, glielo ho ripetuto centinaia di volte: dal 1972 aspettiamo questa finale, da quando Crujff spezzò il sogno di vedere di nuovo l’Inter sul tetto d’Europa. Crujff, che poi lasciò l’Ajax per andare al Barcellona.

Ecco, il Barcellona: che ora vuole negarci ancora il sogno di una finale.

Maledetti.

Maledetto Guardiola. Maledetto Messi. Maledetto tiki taka.

Siamo in dieci dal primo tempo, ma resistiamo. Se non segnano ora, il sogno diventa realtà.

Palla corta, scambio e cross. Troppo lungo. Lucio rinvia verso il centrocampo. L’arbitro si porta il fischietto alla bocca.

Mi ritrovo Carlo addosso. Ha il viso inondato di lacrime. Riesce solo a dire: “Siamo in finale. Papà, siamo in finale”.

 

20 maggio 2010.

A Cagliari non piove mai a maggio: qualcosa vuol dire.

Solo queste parole mi vengono in mente mentre corro sotto quella pioggia gelata, con l’impermeabile che non impedisce all’acqua di trafiggermi la pelle. Le scarpe affondano nel fango del campetto di calcio, reso un’unica, colossale pozzanghera da quella pioggia fuori stagione.

Mi faccio largo tra giocatori, arbitri, massaggiatori: ideale barriera umana di facce sgomente, che alla fine sembra solo volermi impedire di passare. Mi faccio largo e raggiungo Carlo accasciato al suolo: le braccia serrate attorno al pallone, premuto contro il petto come un tesoro da non abbandonare.

Mi chino su di lui, lo libero da quella stretta disperata. Sento che respira ancora.

Bacio la sua fronte imperlata di sudore, sento il suo respiro: flebile e irregolare.

“Apri gli occhi, dolce principe. Parlami…Papà non ti lascia da solo”.

Apre gli occhi. Carlo mi ha sentito: quelle pupille verde smeraldo mi regalano un’ultima carezza: “Papà…siamo in finale…”

 

 

16 maggio 2000 – 20 maggio 2010.

“Non ti lascio da solo”. È il primo pensiero che ho regalato a mio figlio quando me lo hanno messo tra le braccia, avvolto in una strana tutina a fiori.

“Non ti lascio da solo, Dolce Principe”.

Non l’ho mai lasciato da solo, il mio piccolo principe: l’ho sempre tenuto con me, trasmettendogli tutto ciò che sapevo, regalandogli le mie emozioni, coinvolgendolo nelle mie speranze.

L’ho sempre tenuto con me, e forse in quel momento lui ha iniziato a morire. Quella maledetta passione per il calcio, quella maledetta passione per il ruolo del portiere, quella maledetta passione per l’Inter.

Sempre insieme, agli allenamenti e alle partite nei campi di periferia. Le corse in macchina ascoltando la nostra musica: prima lui a guardare me dalla panchina, poi io a guardare lui giocare dalla tribuna. Le lacrime per un gol preso o per una sgridata dell’allenatore; la gioia per una parata ben riuscita; le urla verso i difensori che non volevano rispettare le marcature.

Se fai il portiere, sei solo: sei solo contro tutti. Ma io non ti lascerò mai da solo. Non ti lascio da solo, mio Dolce Principe.

E poi, l’Inter alla domenica: i cioccolatini prima del fischio d’inizio. Le maglie di Vieri, Adriano, Zanetti e Ibra. Gli scudetti vinti insieme e celebrati sempre con lo stesso abbraccio. E quella Coppa che ci sfuggiva: prima a Valencia, poi a Liverpool, poi a Manchester.

E arriva quell’anno, quella squadra: un mago portoghese in panchina, capace di infiammare con le parole e con gli sguardi; un giaguaro in porta; una difesa di giganti, Cambiasso e Thiago Motta a centrocampo. E davanti Diego Milito: un altro Principe, il nostro Principe col numero 22, che alimentava a suon di gol i sogni cullati per un’intera settimana.

I sogni che si spezzano però in una sera di gennaio. Sembra un controllo di routine: l’elettrocardiogramma da fare per rinnovare il cartellino, il torneo giovanile in corso. Tutto normale.

Ma il medico mi chiede di aspettare, perché qualcosa non va. “Il cuore di suo figlio ha un soffio che non ci piace, meglio fare altri controlli”.

Un altro cardiologo, altri esami, ma sempre insieme: a cullare i nostri sogni. Poi tre parole, secche come una coltellata: insufficienza valvolare aortica, Kanu fu operato a Cleveland per lo stesso problema.

Mentre io cerco il modo più adatto per replicare, mio figlio fissa il medico, con quegli occhi verde smeraldo: “Dovrò smettere di giocare?” Il medico non ha pietà: “Per ora non potrai nemmeno pensarci, a giocare”.

Non ti lascio da solo, mio Dolce Principe. Abbiamo altre passioni da condividere, altra musica da ascoltare, altre partite da vedere: magari quest’anno il mago portoghese ci fa vincere la coppa, magari il nostro Principe ci aiuta a realizzare il nostro sogno. Insieme.

Eliminiamo il Chelsea e lo Spartak di Mosca: segna il Principe col numero 22. Vuoi vedere che il sogno si realizza davvero?

Lui mi sorride, io non capisco che non basta. Non capisco che sta andando a morire.

Fino a quel giovedì mattina, di quel maggio piovoso che non si era mai visto a Cagliari.

Torno prima dallo studio, con un regalo per Carlo: un’altra maglietta nerazzurra, con il numero 22. Ne ho preso una anche per me, per vedere insieme la finale di Madrid: per andare a battere il Bayern Monaco.

Io e il mio Principe. Insieme.

Torno a casa e la sua camera è vuota. “Dov’è andato?” chiedo alla governante, intenta a preparare il pranzo.

“È uscito coi suoi compagni. Ha detto che torna direttamente stasera”.

Sento un vuoto all’altezza dello stomaco, corro a guardare nell’armadio. La borsa da calcio non c’è.

Capisco tutto: non ha rinnovato il cartellino, ma ha deciso di giocare l’ultima partita della stagione.  Gli ho inculcato un sogno che non può realizzare, il resto non gli basta.

Ricordo la macchina lanciata verso la periferia, il parcheggio pieno di acqua stagnante. La corsa verso le tribune. Lui che mi guarda e sorride, con la sua maglia da portiere numero 22. Se sei un portiere, sei solo contro tutti: mi ricorda quella maledetta promessa. Tu non mi lasci solo.

Solo contro tutti, in quella tempesta di acqua e di tiri, e lui a volare da un palo all’altro, a urlare indicazioni ai difensori, a guardarmi e a sorridere. Poi, quel contropiede: il centravanti che insegue un lancio dalle retrovie, il fuorigioco che non scatta, Carlo che si avventa sul pallone in un’uscita disperata. Per non lasciarlo più.

“Papà…siamo in finale…” Quelle quattro parole mi battono nel cervello: la stanza di ospedale, di un bianco che fa male. Odore di disinfettante, di silenzio e di vuoto: bianco pure quello. Ci penso per la prima volta, al fatto che il bianco è il colore del dolore, ci penso mentre mio figlio è attaccato a una macchina che lo aiuta a respirare, a vivere ancora qualche minuto.

Arriva il medico, quello senza pietà: capisco dal suo sguardo che non ha sogni da regalarmi. Il cuore non ha retto. Certe partire non si possono vincere.

Così non è giusto, così fa troppo male.

E allora gli racconto tutto. Della macchina, della musica, delle partite, dell’Inter e di quel nostro sogno di vincere la Coppa insieme.

Gli occhi del medico sono diversi: una luce illumina quella mancanza di pietà. Mi mette una mano sulla spalla: “Realizzi il sogno suo e di suo figlio. Vada a vincere quella finale”

Il resto sono frammenti: l’agenzia di viaggi e un biglietto per Milano. Parto di sabato sera, prima che le squadre scendano in campo. L’ultima immagine che mi regalano gli schermi dell’aeroporto sono quelle del Mago portoghese al centro dello stadio di Madrid. Trentotto anni dopo, di nuovo una finale.

 

22 maggio 2010

Arrivo a Milano che è già notte: c’è elettricità nell’aria. Le cose si mettono bene. Chiedo al tassista di portarmi in piazza del Duomo. “Ma è piena di gente…c’è la finale”.

“Lo so, ma mi deve portare adesso, io ho un sogno da regalare”.

I viali scorrono come seta dai finestrini dell’utilitaria, prima grigi e deserti, poi sempre più colorati di nero e di azzurro. Mi lascia in Piazza della Scala, faccio a sportellate la Galleria finché non arrivo all’imboccatura di Piazza del Duomo.

E allora lo vedo.

Il Principe con il numero 22 che controlla di destro: una veronica su Van Buyten, una carezza di interno, e la palla che va ad insaccarsi sotto la traversa.

La Coppa. Il sogno che si realizza.

Un grido mi squarcia il petto: “Non lasciarmi solo, dolce Principe. Non lasciarmi solo”.

Mentre Zanetti solleva quella Coppa al cielo di Madrid, mentre la gente balla di felicità in Piazza Duomo, sento la vibrazione del cellulare. È il medico senza pietà. Mi deve dire che mio figlio si è addormentato proprio in quel momento. Ma mi deve dire anche un’altra cosa: “Non ne sono sicuro. Ma prima di addormentarsi…ha sorriso”.

Io ci credo, a quel sorriso, perché abbiamo realizzato il nostro sogno, e lo abbiamo realizzato insieme. Sono io che adesso sono rimasto da solo, sono io che non ho più sogni da realizzare. Vorrei proporre una risposta sensata al medico senza pietà, ma le parole mi muoiono in gola.

Riesco solo a guardare il cielo: senza pioggia e con tante stelle, sopra le guglie del Duomo, la bandiera nerazzurra e lo scintillare della Madonnina.

Riesco solo a guardare il megaschermo, e la corsa di quella maglia numero 22.

Riesco solo a dire: “Buonanotte, dolce Principe”.