Racconto di Fabio Losacco

(Quarta pubblicazione)

 

La mattina adoravo passare qualche minuto a guardare fuori dalla finestra appoggiato al davanzale.

Quel giorno poi il cielo era luminoso, anche se pieno di stracci di nuvole, e c’era nell’aria l’odore frizzante di una primizia di primavera.

Per me quello era il periodo migliore dell’anno.

Di fronte alla finestra potevo vedere un altro caseggiato, praticamente identico al mio, e le finestre lasciate aperte mi permettevano di scrutare quello che accadeva nelle altre case, senza che nessuno mi notasse.

E chi lo dice che la curiosità è solo femmina?

Mi capitava spesso anche di riflettere su quante fossero le persone che vivevano le une attaccate alle altre senza mai nemmeno incrociarsi.

Erano una moltitudine di esistenze che ogni mattina apparivano tutte diverse ma che, in realtà, erano assai simili, punteggiate delle stesse ansie, fretta e frenetici impegni.

Per me invece era bello starli a guardare perché, non avendo nessuna premura, potevo godermi l’inizio di giornata tranquillamente, sempre appoggiato al mio davanzale.

Tra le persone che vedevo più di frequente c’era poi una bella signora mora, non giovanissima ma ancora assai attraente, che con i capelli scompigliati si affannava a rassettare la propria camera prima di uscire. Era una donna di una classe e di un’eleganza non comune che doveva vivere da sola, perché non mi era mai capitato di vedere nessun oltre lei nell’appartamento.

Quando usciva poi, dopo aver sbrigato in fretta le sue faccende, era sempre impeccabile, con i capelli raccolti in una lunga treccia che le scendeva a mezza schiena e con indosso completi semplici e raffinati ai quali abbinava con gusto gli immancabili tacchi alti.

Spesso gli uomini si fermavano al suo passaggio e si voltavano per continuare a guardarla, perché il suo sedere, fasciato nelle gonne o nei pantaloni, attirava inevitabilmente gli sguardi.

Anche a me non era indifferente e mi piaceva molto vederla andarsene da casa con il suo passo spedito che l’avrebbe portata chissà dove.

Sul davanzale poi venivano spesso anche dei passerotti a zampettare, specie quando i nuovi nati iniziavano a volare e facevano i loro primi piccoli esperimenti di decollo ed atterraggio. I sottotetti dei palazzi della zona infatti, ospitavano diversi nidi ed il canto degli uccelli la mattina riusciva a rallegrare tutto il quartiere.

Mi piaceva osservare anche loro che riempivano i cornicioni e si guardavano intorno. Del resto era la prima minuscola esplorazione dell’universo ed i loro sguardi erano colmi di curiosità e stupore.

Stamattina però la bella signora del palazzo di fronte si era fatta attendere ed aveva aperto le finestre molto più tardi del solito. Mi era venuto anche da pensare che avesse avuto un ospite per la notte e che questo l’avesse convinta a rimanere un po’ di più tra le lenzuola e tra le braccia di un amante focoso.

Ma non era stato così.

Lei si era affacciata solo in ritardo rispetto al consueto e, contrariamente alle mie maliziose illazioni, era ancora da sola.

Dopo pochissimi minuti poi, l’avevo vista uscire trafelata come sempre ma ancora più bella del solito.

Alla fine aveva solo dormito un po’ di più e non si era concessa ai baci ed alle carezze di un maschio della sua specie.

Peccato perché se lo sarebbe davvero meritato.

Strano però che fosse sempre da sola.

Eppure era così bella ed anche io sarei stato felice di godere delle sue carezze.

Me le immaginavo dolcissime.

Chissà cosa avrebbe pensato di questi miei inopportuni desideri la donna che in cucina stava preparando la colazione.

I passerotti intanto si erano radunati sul lato più lontano del mio davanzale e continuavano a saltellare.

Qualcuno si puliva le piume con il becco ed altri invece cercavano di trovare qualcosa di commestibile, impresa peraltro assai difficile da portare a termine su un cornicione di cemento.

Oggi erano davvero tanti.

Delle allegre famigliole cinguettanti che salutavano il nuovo giorno come tutto il resto del mondo.

Io non avevo ancora fatto colazione e cominciavo ad avvertire un certo appetito. Tra un po’ sarei rientrato in casa ma per adesso mi piaceva dedicare ancora un po’ di tempo a quell’ozio incantato.

Il traffico nella strada aveva intanto cominciato ad aumentare.

Scatole di latta incolonnate, suono di clacson nevrastenici, genitori che scortavano i propri figli a scuola trascinandosi dietro grosse cartelle ed incitandoli a non perdere tempo.

Tutto si muoveva come un unico, grande meccanismo ben oliato.

Ed io ed i passerotti appoggiati sul davanzale.

Mi piaceva sempre guardarli e mi incuriosivano.

Avevano occhietti vivaci e si muovevano a scatti, come i vecchi giocattoli a molla, mentre i loro becchi riflettevano i raggi di sole che filtravano dal cielo velato ma senza alcuna promessa di pioggia.

Anche quella sarebbe stata senza dubbio una giornata asciutta.

Un paio di uccellini si avvicinarono a me. Sicuramente non mi avevano visto perché ero nascosto dallo spiovente della persiana.

Ora erano davvero vicini e non sembravano per nulla né prudenti né, tanto meno, spaventati. Peccato non fossero prudenti.

In lontananza, una frotta di storni si avvicinava oscurando il cielo.

Di quelle bestiacce odiavo il colore anonimo, il verso sgraziato e le enormi quantità di guano schifoso e puzzolente che depositavano ovunque andassero a rifugiarsi.

Magari anche loro, in qualche oscura e misteriosa modalità, erano utili all’equilibrio del pianeta, ma io continuavo a preferire i miei piccoli passerotti.

Guardarli beccare e saltellare era per me impagabile.

Adesso avevo davvero fame però.

L’ora di colazione era già passata ma ancora non era stata preparata, accidenti!

Ma avrei pazientato, tanto si stava così bene alla finestra a respirare e curiosare.

Ancora un passerotto, forse il più giovane e, sicuramente, il più audace mi si era avvicinato ignaro della mia presenza. Eppure si guardava intorno con la sua testolina scattante ed i suoi occhi neri neri, piccoli come una capocchia di spillo.

Ora era davvero vicino a me.

Io lo guardavo ma lui non mi vedeva.

Sotto la vita proseguiva frenetica ma ciò che accadeva non riguardava me e nemmeno il passerotto ingenuo, giovane ed imprudente come lo sono tutti i giovani di qualsiasi specie vivente.

Ancora un paio di saltelli.

Sempre nella mia direzione.

Poteva dirigersi da qualsiasi altra parte del cosmo, ma spesso è solo il caso a decidere per noi.

Oppure qualcosa o qualcuno che gioca disegnando le nostre esistenze.

Ancora un saltello.

Era l’ora di colazione ma non era per quello.

Il passerotto era lì ed io alzai la zampa e lo colpii con decisione. Rimase tramortito ma feci in tempo a vedere il suo sguardo che, attraverso i suoi occhi neri neri piccoli come capocchie di spillo, esprimeva un enorme, improvviso stupore.

In un attimo gli fui sopra e con i canini gli schiacciai il torace.

Al rumore delle minuscole ossa che si spezzavano si accompagnò un pigolio sommesso di dolore ed arrendevole rassegnazione.

Ne avevo sentiti molti in passato di quei minuscoli rantoli agonizzanti.

Avevo ucciso uccellini, grilli, lucertole e anche qualche pipistrello ma non lo avevo mai fatto per necessità quanto, piuttosto, per istinto.

O magari anche solo per divertimento.

Ero un gatto nato in una casa e non aveva mai conosciuto né la fame né il freddo, ma la mia indole era la medesima di tutti gli altri della mia stessa specie.

“Clarence, c’è la pappa!”

Era la mia umana che mi chiamava.

Finalmente.

Era sempre molto premurosa con me.

Come dono le avrei portato la mia preda, mostrandole così sia il mio affetto che la mia abilità di cacciatore.

Scesi dal davanzale con il caldo cadavere del giovane uccello in bocca.

In fondo mi dispiaceva che quel minuscolo essere avesse vissuto per così poco.

Il mio ultimo pensiero, prima di arrivare in cucina, fu però che, tutto sommato e nonostante gli anni, ero ancora un buon cacciatore e che avrei meritato le carezze della mia umana.

Anche se non uccidevo mai per fame e in questo ero molto simile agli umani.