Racconto di Andrea Mitri

(Quinta pubblicazione)

 

 

Nella nebbia scompariamo.

Uno alla volta.

Talvolta anche in due o tre, inghiottiti di colpo dall’uniformità delle cose.

Quando qualcuno riappare all’altro ci si guarda, chiedendosi con gli occhi se è accaduto qualcosa di nuovo, se in quei secondi di balìa il risultato è cambiato, se la squadra avversaria ha recuperato palla, se qualcuno si è infortunato.

Ci ritroviamo quasi di colpo, macchie colorate del colore amico, a passarci un pallone che immediatamente sparisce se calciato più in là di 20 metri. Individualmente poi immaginiamo le possibili traiettorie successive; che talvolta intercettiamo, per un ritorno di fiamma in zona e talvolta soltanto conosciamo a percorso finito, quando un compagno od un avversario ci confermano che il pallone è uscito fuori campo.

Per lo più stiamo.

In un’attesa da Deserto dei Tartari, appena spezzettata dal brusio di un pubblico visibile solo quando vai a battere un calcio d’angolo o ti rechi ad effettuare una rimessa laterale a metacampo.

E dal fischio dell’arbitro che ogni tanto certifica un accadimento.

Lo spazio davanti a noi linearmente conosciuto misura 15 metri e chi in tale spazio si avventura palla al piede non sa cosa troverà al di là. È come affrontare l’ignoto, avventurarsi in ambiti non prevedibili, accentuando ancor di più le differenze di ruolo: come se il gioco fosse praticabile solo per settori, abbandonati in scontri individuali, senza il supporto dei compagni di reparto.

Ed è strano, quando sei in fase offensiva, il non riuscire a percepire il momento esatto in cui passi a quella difensiva, il non sapere da cosa difenderti, da dove il pericolo può arrivare.

I parametri personali di rapporto uomo/palla si scardinano, sostituiti da nuovi appigli che si ridisegnano attraverso voci, suoni, movimenti di ombre che riconosci come appartenenti a compagni o ad avversari solo in un secondo momento. E gli scatti nello spazio si rivelano inutili dopo cinque sei metri, quando inghiottiti dall’ovattata atmosfera ci si rende conto dell’inutilità di dettare il passaggio in uno spazio senza contorni o riferimenti.

Assistiamo impotenti ad una ridefinizione dei movimenti in campo che conduce ad una temporanea abolizione del dai e vai, del lancio lungo, del cambio di gioco, del passaggio filtrante. È come se ci venisse chiesto, per qualche ora, di fare a meno di buona parte del nostro rapportarsi allo spazio e al tempo, rinnegando, ben prima che il gallo canti, anni e anni di acquisizioni psicomotorie, di valutazione delle traiettorie, di anticipi sull’uomo.

Chiudiamo il primo tempo in vantaggio con un gol di Andreis che non ho visto, anche se nel percorso verso gli spogliatoi Clemente, alzatosi dalla panchina, si compli-menta con me per il passaggio che staffette vocali hanno finito con l’attribuire al sottoscritto.

I giornalisti, a cui l’arbitro ha permesso di stare a bordo campo per diritto di informazione successiva, pietiscono uno straccio di cronaca da poter trascrivere sui loro taccuini e si scambiano spezzoni di notizie captate a mezza bocca, confondendo la successione dei fatti più di quanto già abbia fatto la massa grigia circostante.

Anche loro stasera dovranno inventarsi un nuovo modo di relazionare al pubblico, brancolando nel campo della sensazione, senza potersi affidare agli stereotipi del linguaggio giornalistico sportivo, inventandosi una partita possibile visto che quella reale è scivolata via lontano dai loro occhi.

Nel secondo tempo loro pareggiano con Vitale; non ha importanza come, visto che attendiamo da un momento all’altro il fischio dell’arbitro a sancire la sospensione di questa partita spezzettata e sfuggente.

Quando qualcuno di noi, nel recuperare un pallone finito fuori, appare improvvisamente ai pochi tifosi sugli spalti viene subissato di domande.

– Quanto stiamo? –

– Chi ha fatto gol? –

– Sostituzioni? –

Nel rispondere ci sentiamo esploratori coraggiosi di ritorno da un mondo non ancora cartografato, pronti a rituffarci nella precarietà, consapevoli di aver regalato a qualcuno racconti da condividere in attesa del nostro prossimo ritorno.

Cosicché accade che magari nelle gradinate vengono a conoscenza del gol del nostro nuovo vantaggio, di Marcato, ben prima che la notizia arrivi alle tribune in una specie di gioco del telefono senza fili arricchito di particolari inesistenti in partenza.

Anche la partita finisce in tempi diversi.

Prima per quelli vicini all’arbitro, i quali percepiscono nitidamente il triplice fischio, poi a sprazzi per gli altri, via via fino al portiere avversario, a lungo abbandonato in una solitudine più grande di quella in cui solitamente si muove; e da lì al pubblico, ad accendere qualche sparso grido di giubilo tra i nostri e a sprofondare nella delusione i tifosi di casa che fino all’ultimo hanno incoraggiato la loro invisibile squadra.

Solo alla fine, qualche minuto dopo, negli spogliatoi, ci vediamo tutti.

Chi con il labbro spaccato da un colpo proibito non visto, chi con la maglia strisciata di verde da una lunga scivolata, chi con il fiatone dell’ultima rincorsa ad un pallone apparso all’improvviso, chi frastornato dalla luce delle lampade dopo tanto grigio.

Quasi naufraghi in qualche modo arrivati alla riva, in una Terra Promessa fatta di thè caldo e voci allegre che finalmente appartengono ad un corpo preciso.

Mentre l’allenatore ci fa i complimenti.

A caso.

Ché tanto la partita, non l’ha vista nemmeno lui.

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